Usa, alimentazione rettale e interrogatori ghiacciati: così la Cia torturava
Alimentazione e reidratazione rettale
Uno dei capitoli più impressionanti raccontato nel rapporto della Commissione Intelligence riguarda proprio queste pratiche – che, come suggerisce uno dei capi della Cia “consentono un totale controllo del detenuto”. Almeno cinque prigionieri sono stati soggetti ad alimentazione rettale, tra cui il cospiratore della USS Cole, Abd al-Rahim al-Nashiri, che veniva messo a gambe all’aria durante il processo. Majid Khan, amico e consigliere della “mente” dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, riceveva per via rettale il suo pasto: un purè di humus, pasta al sugo, noci e uvetta, che venivano, appunto “infuse per via rettale” Mohammed fu invece sottoposto al processo di “reidratazione, senza che ve ne fosse una reale necessità”. La pratica, del resto, più che una logica medica, aveva un altro scopo: quello di soggiogare psicologimente il detenuto.
Uso dell’acqua gelata
Tra le pratiche più diffuse durante gli interrogatori della Cia, c’era
sicuramente quello relativo all’acqua gelata. Gli abiti dei detenuti –
c’è a questo proposito una testimonianza di Walid bin Attash
resa alla Croce Rossa – venivano intrisi di acqua ghiacciata prima
dell’interrogatorio, in modo da procurare uno stato continuo di
sofferenza e disagio nell’imputato. In alcuni casi ai detenuti veniva
chiesto di spogliarsi; li si bagnava con acqua gelata e poi li si
ricopriva di un telo in plastica. Così, nudi e bagnati, senza possibilità di asciugarsi, venivano interrogati. Un prigioniero morì durante questi “interrogatori ghiacciati”. Si chiamava Gul Rahman
e il rapporto del Congresso Usa offre ulteriori dettagli sulla sua
morte. Rahman venne tenuto in isolamento durante i giorni precedenti
l’interrogatorio; gli si impedì di dormire, venne più
volte fisicamente abusato dai suoi carcerieri, sbattuto con la testa
contro una parete, costretto a restare nudo in cella, dalla vita in giù.
L’agente della Cia che approvò le misure contro Rahman, che poi
portarono alla sua morte, non venne in nessun modo punito dai suoi
superiori, nonostante l’uso di queste “tecniche avanzate di
interrogatorio” non fosse stato approvato al quartier generale della
Cia. Quattro mesi dopo la morte di Rahman, all’agente venne dato un premio di 2500 dollari per il suo “straordinario lavoro”.Isolamento in spazi minuscoli
Anche qui, il rapporto della Commissione Intelligence suggerisce che la pratica, approvata dall’amministrazione Bush soltanto per Abu Zubaydah, luogotenente di bin-Laden, venne invece estesa ad altri detenuti. Nel rapporto stilato dalla ICRC, Zubaydah afferma di essere più volte finito, durante un primo periodo di interrogatori in Afghanistan, nel 2002, in spazi assai ristretti, che impedivano i movimenti, comunicavano un senso di soffocamento, rendendo difficile il respiro, procuravano piaghe sulle parti del corpo costrette all’immobilità. Uno degli obiettivi principali dell’isolamento in spazi minuscoli è quello di far perdere il senso del tempo, procurando stati di perdita di coscienza e angoscia. Zubaydah ha affermato di esser più volte svenuto, mentre si trovava in cella.
Pestaggi e pressione psicologica
“Presa del viso”. “Salve di insulti”. “Schiaffi e pugni”. Il rapporto della Commissione intelligence, accostato con le testimonianze di quello dell’ICRC, rivela che molti prigionieri venivano sottoposti a forme di brutalità, anche più volte al giorno e senza essere necessariamente soggetti a interrogatori. Nashiri venne minacciato con un fucile e un trapano elettrico. Khalid Sheikh Mohammed ha testimoniato di aver più volte sentito i suoi carcerieri alludere a minacce sessuali ai suoi familiari. Un detenuto racconta: “Sono stato colpito e schiaffeggiato in faccia e sulla schiena, sino a farmi sanguinare. Mi hanno messo una corda attorno al collo e poi legato a un pilone, e la mia testa è stata ripetutamente sbattuta contro il pilone stesso”. Gran parte di queste pratiche avvenivano all’inizio della detenzione, per creare un clima immediato di terrore e ansia nel prigioniero. Molto usata era soprattutto la pratica del “walling”: ai detenuti veniva applicato un collare, con una lunga corda. Quindi venivano sbattuti contro muri flessibili, in materiale plastico, che producevano un forte rumore che dava ai prigionieri l’impressione di essere stati seriamente feriti.
Waterboarding
Il rapporto della Commissione Intelligence del Senato USA parla espressamente di “quasi-annegamento”, una pratica dunque ben più estrema del waterboarding di cui si conoscevano sinora i dettagli. Nel waterboarding il prigioniero viene legato a una tavola inclinata, immobilizzato con i piedi più in alto della testa. Un panno intriso d’acqua viene dunque collocato sopra il naso e la bocca, e dell’acqua versata continuamente in modo da bloccare il respiro, simulare l’annegamento e indurre panico. Il processo dura di solito 40 secondi e può essere ripetuto più volte durante uno stesso interrogatorio, a seconda della capacità di resistenza del prigioniero. L’amministrazione Bush ha ammesso di aver sottoposto a waterboarding tre presunti terroristi. Tra questi Abu Zubaydah, che ha subito la pratica almeno 83 volte (“finii per perdere il controllo delle mie urine”, ha spiegato Zubaydah a Human Rights Watch), e Khalid Sheikh Mohammed, che ha provato la pratica per ben 183 volte. Il rapporto della Commissione Intelligence del Senato USA rivela però che si andò anche “oltre il waterboarding”; dunque, che le sedute di simulato annegamento durarono più dei classici, e approvati, 40 secondi. E che in alcuni casi non ci si limitò a versare dell’acqua sulle vie respiratorie dei prigionieri, ma che gli si affondò la testa nell’acqua, arrivando a un passo dall’annegamento.
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