I cinque in fabbrica non sono mai tornati, per due anni l’azienda li
ha tenuti a casa a paga intera,
lontani dai colleghi. Adesso dovranno restituire gli stipendi: «Se consideriamo il Tfr che devo avere, devo ridare a Fca 7.300 euro – racconta Mignano -, soldi che non ho perché dal 2014 al 2016 sono stato senza paga, con una famiglia da mantenere. Ci siamo caricati tutti di debiti. Questa è stata la forza dell’azienda: costringerci alla povertà come monito per tutti i lavoratori del gruppo. Ma avevamo ragione noi: dal 2008 ripetiamo che il piano Marchionne va bene solo per gli azionisti. Dopo dieci anni viene fuori che ci sono ancora sul tavolo 2.200 esuberi a Pomigliano e, dopo tutti i sacrifici imposti ai dipendenti e i turni di lavoro molto oltre quanto il fisico può sopportare, sentiamo parlare di licenziamenti».
Quando Marchionne è morto la storia dei cinque è finita in secondo piano: «I nostri morti non li ha pianti nessuno – prosegue Mignano -. Quando inscenammo il funerale dell’ad Fiat, tre nostri colleghi si erano tolti la vita dopo anni di cassa integrazione a zero ore. La loro storia non la ricorda nessuno. Quando il 6 giugno è arrivata la sentenza di Cassazione, a Roma c’era un incontro al ministero del Lavoro tra Fca e sindacati. Il più alto in grado del Lingotto al tavolo ebbe la notizia ed esultò col pugno in aria, quando gli chiesero cosa fosse successo disse: “Abbiamo sconfitto Mignano e gli altri”. Questi sono i padroni, felici di buttare per strada cinque operai».
Quello stesso giorno Mimmo era a Pomigliano: davanti casa del neoministro Luigi Di Maio si cosparse il corpo di benzina. Il capo politico dei 5S, quella sera, gli promise che il Movimento non li avrebbe lasciati soli: «La prossima settimana ci accamperemo davanti al Mise – conclude Mignano -, il reddito di inclusione non ci interessa. I lavoratori hanno diritto a esercitare una professione, avere una giusta paga e non barattare la dignità con concessioni. Accettare i meccanismi del reddito di inclusione significherebbe buttare via decenni di lotte».
lontani dai colleghi. Adesso dovranno restituire gli stipendi: «Se consideriamo il Tfr che devo avere, devo ridare a Fca 7.300 euro – racconta Mignano -, soldi che non ho perché dal 2014 al 2016 sono stato senza paga, con una famiglia da mantenere. Ci siamo caricati tutti di debiti. Questa è stata la forza dell’azienda: costringerci alla povertà come monito per tutti i lavoratori del gruppo. Ma avevamo ragione noi: dal 2008 ripetiamo che il piano Marchionne va bene solo per gli azionisti. Dopo dieci anni viene fuori che ci sono ancora sul tavolo 2.200 esuberi a Pomigliano e, dopo tutti i sacrifici imposti ai dipendenti e i turni di lavoro molto oltre quanto il fisico può sopportare, sentiamo parlare di licenziamenti».
Quando Marchionne è morto la storia dei cinque è finita in secondo piano: «I nostri morti non li ha pianti nessuno – prosegue Mignano -. Quando inscenammo il funerale dell’ad Fiat, tre nostri colleghi si erano tolti la vita dopo anni di cassa integrazione a zero ore. La loro storia non la ricorda nessuno. Quando il 6 giugno è arrivata la sentenza di Cassazione, a Roma c’era un incontro al ministero del Lavoro tra Fca e sindacati. Il più alto in grado del Lingotto al tavolo ebbe la notizia ed esultò col pugno in aria, quando gli chiesero cosa fosse successo disse: “Abbiamo sconfitto Mignano e gli altri”. Questi sono i padroni, felici di buttare per strada cinque operai».
Quello stesso giorno Mimmo era a Pomigliano: davanti casa del neoministro Luigi Di Maio si cosparse il corpo di benzina. Il capo politico dei 5S, quella sera, gli promise che il Movimento non li avrebbe lasciati soli: «La prossima settimana ci accamperemo davanti al Mise – conclude Mignano -, il reddito di inclusione non ci interessa. I lavoratori hanno diritto a esercitare una professione, avere una giusta paga e non barattare la dignità con concessioni. Accettare i meccanismi del reddito di inclusione significherebbe buttare via decenni di lotte».
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