Cosa mi ha colpito di Pietro Secchia.
Enzo Pellegrin
14/07/2019
Relazione tenuta al Convegno "Pietro Secchia: storia, pensiero e attualità" tenuto a Torino il 13 luglio 2019.
Nel 1920, durante lo "sciopero delle lancette" il padrone biellese di Pietro Secchia, unico impiegato che aveva scioperato insieme agli operai, lo licenziò con queste parole: "Impiegati che fanno sciopero assieme agli operai nella mia azienda non ce ne sono mai stati e non ce ne devono essere" (1).
Lo sciopero cosiddetto delle lancette si estese a partire dalla mobilitazione nata a Torino nell'aprile 1920, contro il provvedimento che applicava l'ora legale. Tale decisione, a quel tempo, per gli operai, significava l'obbligo di recarsi in fabbrica col buio anche in primavera ed estate.
Ho incontrato molto tardi nella mia formazione gli scritti e la vita di Pietro Secchia. Ancora oggi il
mio percorso è quello del discepolo che cerca di approfondire, non certo quello del cultore o
dell'esperto.
Tuttavia, in questo percorso, il discepolo è sempre colpito dai momenti, dalle riflessioni e dai contributi teorici ed intellettuali che gettano luce nelle tenebre del periodo odierno.
Mi piace ricordare che Pietro Secchia iniziò il suo percorso politico all'interno della fabbrica come lavoratore. Egli era in una condizione peculiare: non era un operaio, ma un impiegato; condizione ancor più peculiare, fu un impiegato che scioperò insieme agli operai, realizzando la solidarietà con la parte maggiormente sfruttata del lavoro dipendente. Comportamento perniciosissimo per i padroni di allora: operai che scioperavano si potevano sopportare. Al massimo si decapitavano i loro strumenti direttivi, come fece la Fiat in quello sciopero a Torino, licenziando in massa la Commissione Interna.
Impiegati che solidarizzassero con gli operai non si potevano invece sopportare.
Era, quello di Secchia, un comportamento che oggi qualcuno con faciloneria giudicherebbe "solidaristico", ma che invece era denso di contenuti rivoluzionari.
Il comportamento di Secchia colpiva la catena di comando di un'unità di produzione capitalistica. Gli impiegati, nella gerarchia della fabbrica, erano gli ausiliari necessari al mantenimento della subordinazione alla proprietà. Costituivano quel cordone sanitario di concettuali che dava esecuzione al potere di chi possedeva i mezzi di produzione. Lo servivano, ma nello stesso tempo celebravano la gerarchia di fabbrica come ordine produttivo e sociale.
Scioperare insieme agli operai metteva in moto un'alleanza sociale pericolosa, una proposta di sovvertimento dell'ordine costituito: la messa a nudo delle contraddizioni materiali in grado di unire i subordinati.
In realtà, l'esperienza politica di Secchia sin dai primi passi si trova di fronte a due necessità, che prima Lenin poi Gramsci avevano messo in evidenza.
Gramsci, durante tutta la sua vita, evidenziò la necessità di "comprendere" la classe operaia, al fine di poterla unire. I quadri della lotta di classe dovevano formarsi a contatto diretto con la lotta e nella lotta.
Lenin aveva messo in guardia, nel "Che Fare", dall'identificare le domande immediate del popolo con il contenuto rivoluzionario. Priva di una direzione consapevole, la massa in movimento non è in grado di oltrepassare lo spontaneismo. Gli obiettivi che otterrà non saranno maggiori di piccole conquiste economiche volte ad alleviare la condizione di sfruttamento. Ma sarà incapace a mettere in discussione la propria subordinazione sociale ai possessori dei mezzi di produzione.
Lo sciopero delle lancette e le successive occupazioni delle fabbriche costituirono i prodromi di una sconfitta pesante. Mentre gli industriali schieravano contro i lavoratori tutto l'apparato repressivo dello Stato, i dirigenti del Psi e della Cgl finirono per isolare gli operai. Soprattutto il Partito Socialista si dimostrò incapace di liberarsi dalla subordinazione ideologica nei confronti del proprio gruppo parlamentare egemonizzato dai riformisti turatiani.
Dopo il licenziamento, Pietro Secchia venne assunto alla Manifattura Scardassi, fabbrica che assumeva impiegati del posto, ma faceva giungere gli operai tessili dal milanese. Ciò lo mise in contatto con ambienti operai che uscivano dal ristretto orizzonte del Biellese.
Nella stessa manifattura, Secchia condivise con gli operai, ancora una volta come unico impiegato, l'occupazione della fabbrica, risoltasi nella smobilitazione e nella sconfitta.
Le vicende politiche seguite alle occupazioni del settembre 1920 sciolsero il contenuto politico delle mobilitazioni: le commissioni interne ed i Consigli di Fabbrica non vennero aboliti, ma allo stesso tempo non venne loro riconosciuto alcun ruolo di controllo sulla produzione.
Gramsci ebbe a scrivere: «La classe operaia torinese è stata sconfitta. Tra le condizioni che hanno determinato la sconfitta è anche la superstizione, la cortezza di mente dei responsabili del movimento operaio italiano (…) La vasta offensiva capitalista fu minuziosamente preparata senza che lo 'Stato maggiore' della classe operaia organizzata se ne accorgesse, se ne preoccupasse: e questa assenza delle centrali dell'organizzazione divenne una condizione della lotta, un'arma tremenda in mano agli industriali (…) Bisogna coordinare Torino con le forze sindacali rivoluzionarie di tutta Italia, bisogna impostare un piano organico di rinnovamento dell'apparato sindacale che permetta alla volontà delle masse di esprimersi." (2)
Secchia ebbe a dire che quell'occupazione fu la sua prima più grande delusione: "Attendevo la rivoluzione come si attende una persona che deve arrivare da un giorno all'altro".
L'epilogo rivoluzionario non giunse, proprio perché i vertici del sindacato e del partito egemone orientarono la lotta verso una rotta riformista.
Tanto bastò al fronte padronale per trovare, pochi anni dopo, la soluzione della violenza corporativa fascista, come mezzo per sgominare definitivamente la lotta di classe e revocare, non solo tutte quelle limitate conquiste sindacali, ma l'intero spettro delle libertà politiche e civili nella Penisola, con le leggi c.d. "fascistissime".
C'è chi giustamente rileva come la lezione politica dei primi passi di Secchia abbia influito grandemente sulla sua concezione del Partito, come organizzazione e direzione metodica dei contenuti rivoluzionari concreti in seno alla lotta di classe.
L'insegnamento delle mobilitazioni a Secchia divenne e rimase chiaro. Le occasioni non sono frutto né di fortuna o caso, né di uno svolgersi necessario delle contraddizioni economiche. Nella lotta politica, riveste la massima importanza la qualità del soggetto che la conduce, ed i contenuti che è in grado di determinare e la qualità della sua organizzazione.
Senza soggetto rivoluzionario, la conquista di una qualsiasi egemonia non può avere epilogo rivoluzionario.
Senza un soggetto che si proponga veramente di farla finita con le strutture che impongono la subordinazione sociale, qualsiasi alleanza sociale sarà calamitata nella palude del mantenimento dell'ordine costituito.
La costruzione di questo soggetto deve quindi essere metodica, deve sì avere per oggetto la trasformazione della società con la liquidazione del capitalismo, deve però contemporaneamente avere ad oggetto la vita e le lotte dei soggetti concreti che subiscono le contraddizioni.
L'organizzazione diventa allora la mediazione indispensabile per tradurre nella pratica gli scopi della linea politica. Non c'è l'una senza l'altra.
Guardando all'oggi, l'insegnamento è indubbiamente importante.
Ci troviamo indubbiamente in una fase nella quale la controffensiva del capitalismo è stata in grado di revocare tutte le conquiste svolte sul piano riformista nel mondo occidentale.
In tale condizione, non è sufficiente denunciare il riformismo ed i suoi tradimenti, denunciare la perdita della sovranità monetaria, denunciare i rapporti di sfruttamento che le centrali della finanza e dell'industria globale impongono sull'entità del popolo-nazione, senza differenziazione di classe, perché questa opera di demolizione appartiene anche a quelle forze che mirano a scalzare il riformismo per sostituirvi un altro tipo di ordine padronale.
Condividere la conquista dell'egemonia politica con forze che non abbiano come obiettivo la denuncia dei meccanismi capitalistici come unici responsabili della condizione degli sfruttati, in posizione di coda elettorale o comunque non egemonica, può voler dire allontanarsi dal tentativo di dare una direzione consapevole alla lotta, vuol dire subordinare la direzione alle forze che non hanno affatto intenzione di scalfire la supremazia padronale.
Non è quindi sufficiente fare lotta politica delineando i limiti ed i tradimenti di una passata lotta politica a sinistra.
O la lotta ha una direzione politica autonoma, consapevole, al servizio della classe operaia nell'orizzonte della lotta al capitalismo, o si viene diretti da altri.
Ecco perché i due fondamentali temi della vita e delle opere di Pietro Secchia, la costruzione del Partito come organizzazione rivoluzionaria e la lotta contro il fascismo, si fondono in una unità inscindibile.
Ne "Le armi del Fascismo" Pietro Secchia delinea questo tema, ricordando che non si combatte il fascismo semplicemente denunciando l'insufficienza od i tradimenti del riformismo.
Secchia individua senza dubbio il montare del fascismo con le responsabilità del Partito Socialista e della CGL: la smobilitazione politica ed ideologica alla quale queste due organizzazioni avevano esposto gli operai ha giocato un ruolo enorme.
Tuttavia, la conquista della piazza da parte del fascismo, prima con la violenza, poi con il consenso più o meno forzato, è altresì dovuto all'incapacità di rispondervi colpo su colpo, fin dal suo nascere:
"se ad ogni colpo fascista si fosse risposto con le stesse armi, con forza e con audacia, i fascsti si sarebbero rotti i denti o comunque avrebbero trovato molti ostacoli sulla strada della loro teatrale, ma pur tragica per il paese, marcia su Roma". (3)
A questo proposito, Secchia considerò un errore il rifiuto del Partito Comunista di appoggiare l'esperienza degli Arditi del Popolo. Gli Arditi si formarono organizzazione paramilitare di reduci della Grande Guerra nata attorno all'iniziativa dell'anarchico Argo Secondari. Si caratterizzarono sin dal loro inizio come movimento di combattenti eterogeneo, che vedeva tra le file comunisti, anarchici, rivoluzionari anticapitalisti. Il loro obiettivo era quello di proteggere operai, proletari e fasce sfruttate della popolazione dalla violenza squadrista, contrastando i fascisti in efficaci azioni di guerriglia.
In Primi passi (3) Secchia scrive ancora sull'esperienza degli Arditi:
"Il settarismo della direzione del Partito arrivava a mantenere in vita delle sparute squadre armate di comunisti, piuttosto che aderire ad una iniziativa che non richiamandosi ad alcun Partito era suscettibile di creare un forte movimento unitario di combattenti per la libertà".
Se ancora non fosse chiaro, la protezione delle fasce proletarie dalla violenza fascista sarebbe servita anche a proteggerle dalla cooptazione in un futuro consenso.
Indicazioni che suonano fortissime nel mondo odierno.
Di Secchia mi ha colpito profondamente un'altra cosa. Come altri grandi dirigenti comunisti che hanno dedicato la loro vita alla costruzione del Partito quale soggetto rivoluzionario, egli fu colpito proprio all'interno del Partito. L'emblematica vicenda Seniga suona per me ancora oggi strumentale (occasione o pianificazione che sia stata) liquidazione della sua posizione.
E' evidente che il Partito come lo intendeva Pietro Secchia non poteva affrancare la sua costruzione dal confronto dialettico delle posizioni.
La direzione del Partito che liquido' Pietro Secchia invece dimostrò che del confronto delle posizioni poteva farne a meno, confondendo la solidità del gruppo dirigente con la solidità del Partito, comodamente dimenticando che il Partito deve essere a servizio della classe operaia, e non il contrario.
Negli appunti del quaderno n. 1 (1954-1956) Pietro Secchia riflette sul concetto di intelligenza politica:
"E' difficile dire, definire che cos'è l'intelligenza. Credo sia la capacità di assumere e di mantenere, in mezzo alle difficoltà, un determinato atteggiamento mentale e politico, la capacità di adattamento per raggiungere un determinato scopo e la capacità di autocritica, cioè di riconoscere i propri errori. Cose queste non facili perché non sempre facilmente conciliabili. Infatti la capacità di assumere e mantenere un determinato atteggiamento politico, alle volte, se non si pone attenzione, può portare all'urto ed alla rottura, mentre la necessità di raggiungere un determinato scopo deve consigliare l'adattamento ed anche la capacità di autocritica e cioè di tener conto che anche noi possiamo sbagliare, essere nell'errore, e non solo quelli che nel partito sostengono opinioni diverse dalle nostre" (4).
Secchia sembrava aver compreso che il centralismo democratico del Partito, in tanto poteva dirsi tale, in quanto la decisione della linea politica, venisse formata con il dibattito più ampio possibile, con la partecipazione dei militanti alla vita ed alla formazione della testa pensante politica, o, se vogliamo utilizzare un altro concetto altrettanto importante, alla formazione dell'intellettuale collettivo.
Ancora, nei quaderni, un frammento colpisce:
"
Ebbi modo di riflettere in un mio precedente articolo sulla linea Togliattiana del Partito nel dopoguerra, chiedendomi se tale direzione del Partito avesse compreso le riflessioni di Gramsci sulla conquista dell'egemonia e sul pericolo di asservire il Partito all'egemonia politica di altre forze avversarie. (https://www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtie21-020384.htm).
Nondimeno, la posizione di Pietro Secchia nel Partito fu indubbiamente la componente che più mise in discussione l'interpretazione sempre più istituzionale e legalitaria del concetto di democrazia progressiva, nonché l'eccessiva subordinazione del Partito nella condivisione del governo con la Democrazia Cristiana.
Con il concetto di "democrazia progressiva" si intendeva non soltanto l'accumulo e di forze sempre più vaste di consenso e di costruzione del contropotere popolare in fabbrica e nella società, a partire dal potere che i comunisti si erano conquistati nel CLN, ma anche l'attuazione di un programma volto alla trasformazione dei rapporti produttivi della società, con la nazionalizzazione dei grandi settori produttivi, della grande proprietà. Il potenziale del contropotere e dell'accumulo di forze avrebbero consentito di condurre con decisione la lotta per le rivendicazioni sociali, pur non azzerando gli interessi dei corpi sociali intermedi.
Questo concetto fu invece interpretato solamente in senso istituzionale e legalitario, demandandolo alla contesa istituzionale. In questo senso ebbero buon gioco le forze reazionarie, le quali, rilevava Secchia ""non adottano la tattica della lotta frontale, ma quella del carciofo, strappano una foglia oggi ed una foglia domani, ci tolgono oggi un diritto, domani una posizione, dopodomani attuano un'altra misura reazionaria e di passo in passo insensibilmente siamo portati a cedere terreno ed a trovarci in posizione sempre più critica" (6).
Si pensi a cosa sarebbe avvenuto se la posizione di Pietro Secchia non avesse potuto dialetticamente esprimersi nel Partito. Si pensi inoltre a ciò che avvenne dopo la sua liquidazione.
A noi rimane di stringente attualità la sua riflessione sul dopoguerra.
"Si tratta di esaminare se con opera più decisa e più ampie lotte unitarie delle masse lavoratrici non era possibile impedire
Note:
1) Archivio Pietro Secchia 1945-1973, Introduzione di Enzo Collotti, p. 10.
2) Antonio Gramsci, Scritti politici (vol. II), p. 96, Pgreco.
3) Archivio Pietro Secchia 1945-1973, cit. in Introduzione, p. 13
4) Archivio Pietro Secchia 1945-1973, quaderno n. 1 (1954-1956), p. 275 (Che cos'è l'intelligenza?)
5) Archivio Pietro Secchia 1945-1973, quaderno n. 1 (1954-1956), p. 281 (Se tu pensi sei mio avversario!)
6) P. Secchia, Relazione sulla situazione italiana presentata a Mosca nel dicembre del 1947.
7) P. Secchia, Il PCI, p. 1061.
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