venerdì 23 marzo 2018

pc 23 marzo - Giappone imperialista - Un paese dell'orrore quotidiano per operai e poveri

La via giapponese di industria 4.0. 

Carcere 4.0: farsi arrestare per sfuggire alla povertà

Grisignano di Zocco (Vi) – La minifabbrica è una linea di produzione che sembra uscita da un gioco di ruolo. È lunga poco più di sette metri e larga poco più di due e ha quattro postazioni di lavoro e una di controllo. Riproduce però fedelmente uno stabilimento in cui alla Lean production sono state aggiunte tecnologie e competenze 4.0. Siamo a dieci chilometri da Vicenza, nell’area industriale di Grisignano di Zocco, nella sede di Considi, partner italiano esclusivo della Toyota Academy.

La minifabbrica, tecnicamente Gear Factory, è la palestra in cui le imprese vengono istruite e addestrate all’innovazione di processo basata sul metodo lean e le tecnologie di Industria 4.0.

La Gear factory ha eliminato i reparti, i carrelli, i movimenti inutili di pezzi. Ha pulito i percorsi e cancellato gli sprechi, ridotto i tempi e annullato gli intervalli, come in una perfetta fabbrica che adotta la Lean o il Wcm (World class manufacturing) o uno degli altri sistemi di razionalizzazione dei processi che discendono dal metodo Toyota. Una fabbrica prototipo funzionale allo scopo di teoria ed esercizio. «Il 70-80% delle imprese italiane – dice il presidente di Considi Fabio Cappellozza, un ingegnere elettronico pacioso e concreto – è ancora organizzato con i reparti e le isole di produzione. Un sistema irrazionale che produce diseconomie».

Lo vediamo nello stanzone antistante alla minifabbrica. I giovani del master in gestione aziendale del Cuoa, la scuola di alta specializzazione di Altavilla Vicentina, sono alle prese con una simulazione di produzione tradizionale. Si sono mossi in uno sciamare confuso, con carrelli che si incrociano e pezzi che mancano, tra reparti e isole di lavoro. Alla fine del percorso stanno facendo i conti delle diseconomie. Oggi hanno perso settemila euro.

Il passaggio alla Lean cancellerà le perdite. Nelle postazioni della linea digitalizzata è iniziata la produzione di motori elettrici. Dalla postazione di coordinamento il caporeparto controlla su un grande schermo il magazzino e la linea. Su un tablet fa l’ordine dei pezzi dal magazzino. Sulla vaschetta che arriva nella postazione 1 c’è un’etichetta con il codice a barre di identificazione. Sul tablet dell’operatore il tempo, trenta secondi, per avviare la prima operazione e un semaforo verde, la segnalazione che la postazione 2 sta aspettando il pezzo. «Le indicazioni – dice Cappellozza – sono molto semplici: il tempo per fare l’operazione; il verde, il giallo e il rosso per la qualità dell’intervento; la situazione della postazione successiva».

Verde. Il pezzo passa alla postazione 2 nei trenta secondi previsti. Via libera allo step successivo. Trenta secondi. Verde, il pezzo scorre. Alla 3 l’operatore ha un problema. Il tempo va oltre i trenta secondi, il semaforo del tablet è rosso. L’operatore chiede l’intervento dal dispositivo. Il caporeparto riceve l’alert sull’orologio. Legge e invia un codice che appare al tablet della postazione. Si apre una schermata che dà due alternative: aprire un Pdf o guardare un video per risolvere il problema. L’operatore apre il Pdf. Deve avvitare meglio. Fatto, si va avanti. «Nelle fabbriche tradizionali – dice Cappellozza – le postazioni sono piene di cartelloni e codici che identificano le operazioni. In uno stabilimento abbiamo tagliato i codici di intervento da tremila a nove, tutti digitalizzati».

La linea va. Terza e quarta postazione senza intoppi. Lavoro finito. L’adesivo della vaschetta finisce su una lavagna fisica. Il flusso continua. Assistiamo al giro della produzione più volte. La postazione con il caporeparto fa gli ordini. Sulla linea arriva la vaschetta con l’adesivo e il codice a barre. Postazione. Tempo. Semaforo verde. Prodotto finito. Adesivo sulla lavagna. Vaschetta con adesivo. Postazione. Semaforo. Prodotto finito. Adesivo sulla lavagna. Al terzo prodotto, il collaudo e l’aggiornamento del grande display luminoso che aggiorna in diretta il lavoro: i tempi, l’indice di produttività della postazione, della linea, del magazzino e dello stabilimento. L’indice Oee, lo standard internazionale per misurare l’efficienza.

«Uno stabilimento che adotta la Lean – dice Cappellozza – può aumentare l’efficienza fino al 50%. Se si aggiunge la digitalizzazione c’è un ulteriore guadagno di margine fino al 30%. I dati sottostanti vengono immagazzinati e incrociati dai manager per le decisioni strategiche».

Cappellozza racconta di un’impresa dell’automotive che ha capito di perdere efficienza con l’aumento dell’umidità nello stabilimento. Problema risolto con un telecomando per aprire i finestroni. Scartata la soluzione standard di incapsulare la linea che sarebbe stata molto più costosa e avrebbe peggiorato la qualità della vita dei lavoratori.

«La digitalizzazione – dice Cappellozza – è il termometro che rileva il dato, fornisce le informazioni e ci consente di indirizzare gli eventi sulla linea di produzione in tempo reale. Prima di Industria 4.0 servivano almeno due giorni per intervenire. Oggi l’intervento è immediato. Non servono investimenti faraonici, va cambiata l’organizzazione e la mentalità. Lo possono fare tutte le imprese con almeno 50 dipendenti e un fatturato intorno ai 15 milioni. Le competenze dei dipendenti possono essere implementate facilmente: sono gli stessi gesti che facciamo tutti i giorni sui nostri smartphone».

Padova, pochi chilometri a Est di Grisignano. Stabilimento di hGears, multinazionale tascabile controllata dal fondo Finatem in cui sono confluite la tedesca Herzog e la padovana mG dal gruppo Carraro. Tre stabilimenti: Padova, Lauterbach (in Germania, nella Foresta Nera) e Suzhou (Cina). hGears produce componentistica e ingranaggi in acciaio per l’automotive, le macchine utensili, l’ebike e il giardinaggio. È fornitore, tra gli altri, di Audi, Bmw, Ferrari, Bosch, Porsche. Mille dipendenti, 140 milioni di fatturato, 7% dei ricavi investiti in conto capitale, 3% in ricerca, 15mila ore di formazione all’anno.

Carcere 4.0: farsi arrestare per sfuggire alla povertà

Caro Operai Contro, in Giappone per sfuggire alla povertà prodotta dall’industria moderna, sempre più anziane e anziani commettono piccoli crimini per farsi arrestare, “rifugiarsi” in galera per avere almeno un […]



 estratto da Europa Today
Giappone. Il carcere per sfuggire a povertà e solitudine, così gli anziani in Giappone cercano aiuto.
Sono sempre più le persone nel Paese che si fanno arrestare di proposito perché non in grado di provvedere a se stessi
Il carcere contro la solitudine.
Qui con una popolazione che è in media la più vecchia del mondo, con il 27% dei cittadini che ha oltre 65 anni, si sta facendo largo la pratica di farsi arrestare per sfuggire alla solitudine e alla povertà della vita in libertà. E così tanti uomini e soprattutto donne decidono di commettere piccoli crimini, perlopiù furti, per essere arrestati e rinunciare alla libertà pur di avere la sicurezza di una compagnia e di un pasto quotidiano.
Popolazione invecchiata.
Dal 1980 al 2015 il numero degli anziani che vivono da soli in Giappone è aumentato di oltre sei volte, fino a quasi 6 milioni e un sondaggio condotto nel 2017 dal governo di Tokyo ha rivelato che più della metà degli anziani incarcerati vivevano da soli. Il 40 per cento di loro non aveva una famiglia o parlava raramente con i parenti. Queste persone spesso dicono di non avere nessuno a cui rivolgersi quando hanno bisogno di aiuto.
Donne e povertà.
“Mio marito è morto l’anno scorso. Non avevamo figli, quindi dopo la sua morte sono rimasta sola”, ha dichiarato a Bloomberg una delle detenute del carcere femminile di Iwakuni, a circa 50 chilometri dalla città di Hiroshima. “Quando sono uscita la seconda volta dal carcere mi sono promessa di non cascarci più. Ma poi là fuori sentivo troppa nostalgia”, ha invece raccontato un’altra donna, spiegando di aver poi deciso di rubare un ventaglio, il terzo taccheggio della sua vita, una recidiva che le è costata una condanna a tre anni. Una condanna che per lei è stata un sollievo: “Mi piace di più la vita in prigione. Ci sono sempre delle persone intorno, non mi sento sola qui”, ha raccontato.
Un problema economico per il paese.
Le donne anziane soprattutto sono spesso economicamente vulnerabili: quasi la metà delle persone di età pari o superiore a 65 anni vive in condizioni di povertà peggiori rispetto al resto della popolazione, ad esempio, rispetto al 29% degli uomini. E il problema oltre che sociale sta diventando economico per il Paese. Né il governo né il settore privato hanno stabilito un efficace programma di riabilitazione per gli anziani, e i costi per tenerli in carcere stanno aumentando rapidamente. Le spese associate all’assistenza agli anziani hanno contribuito a spingere i costi medici annuali negli istituti di correzione per oltre 6 miliardi di yen (più di 50 milioni di dollari) nel 2015, un aumento dell’80% rispetto al decennio precedente.
Nel 2016, il Parlamento giapponese ha approvato una legge che mira a garantire che gli anziani recidivi ottengano sostegno dai sistemi di assistenza sociale e sociale del Paese. Da allora, gli uffici del procuratore e le carceri hanno lavorato a stretto contatto con le agenzie governative per ottenere l’assistenza di cui hanno bisogno i trasgressori senior. Ma i problemi che portano queste donne a cercare il relativo conforto della prigione sembrano essere al momento al di là della portata del sistema.

tratti da operai contro

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