di Nicoletta Dentico
Geopolitica della salute
Il fatto che l’epidemia sia fuori controllo, come aveva anticipato qualche settimana fa la presidente di Medici Senza Frontiere Joanne Liu, e come ormai riconoscono anche nei corridoi dell’Oms, la dice lunga sui dispositivi che muovono la geopolitica della salute, nei tempi interconnessi della globalizzazione. I fenomeni di urbanizzazione e l’espansione delle città, nonché la maggiore mobilità delle persone, creano oggettivamente i presupposti di quella che Mark Woolhouse, epidemiologo delle malattie infettive dell’Università di Edinburgo ha definito «la tempesta perfetta per l’emersione dei virus».
«In un certo senso si tratta di una morte annunciata — commenta Janis Lazdins, già responsabile della ricerca presso la Tropical Disease Research Unit (TDR) dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) -, per diversi anni si è cercato di convincere l’Oms a promuovere la ricerca contro l’Ebola, magari inserendola nel paniere di patologie cui poteva dedicarsi Tdr, ma è sempre stato risposto che si trattava di una malattia focale, di focolai virulenti, capaci di estinguersi da soli. Oggi è cambiato tutto. Ma il rischio è che l’Oms abbia un know-how molto limitato sulla malattia, sicuramente in ambito di ricerca e sviluppo di nuovi farmaci per combatterla».
Solo ad agosto l’Oms ha riconosciuto Ebola come un’emergenza internazionale, segno che non proprio tutti i contagi pesano in ugual misura. Di tutt’altro dinamismo fu la risposta che l’Oms seppe sollecitare nel 2003 al virus della sindrome acuta respiratoria (Sars). Il virus colpì paesi economicamente forti e fulminò in poche settimane pochi businessmen globali approdati in Canada dalle aree dell’Asia riportate come focolai della malattia...
Eppure i motivi di preoccupazione per la diffusione dell’Ebola non mancano. In Sierra Leone e in Liberia soltanto, più di 20 mila nuovi casi potrebbero emergere nelle prossime settimane e qualcosa come 1,4 milioni entro gennaio 2015 se il contagio continuasse a propagarsi ai ritmi attuali.
Il virus ha potuto diffondersi con sorprendente rapidità finora perché il compito di identificarlo e gestirlo è stato lasciato in buona sostanza ai sistemi sanitari del tutto inadeguati di paesi molto poveri, e assolutamente impreparati ad affrontarne la virulenza. Gli ospedali e i presidi sanitari erano, e restano ancora oggi, del tutto sguarniti degli strumenti fondamentali per contenere l’infezione: i guanti, l’acqua corrente, gli scafandri protettivi. Il personale sanitario africano, che già si conta al lumicino, ha pagato un prezzo altissimo in termini di contagio e di vite. Un triste catalogo di disfunzioni politiche, mediche e logistiche, peraltro non nuove. Un elenco fitto di lezioni che Ebola insegna alla comunità sanitaria globale, focalizzata da troppi anni su poche, specifiche, malattie in voga presso la comunità dei donatori, a discapito dell’attenzione rivolta alla salute primaria, alle priorità che per gli africani contano davvero. La prevenzione e la promozione della salute.
Attenti al «filantropo»
Inoltre l’Oms è stata condizionata negli ultimi anni da un nugolo sempre più ristretto di paesi donatori e di finanziatori privati che hanno lasciato ben poco spazio di manovra all’agenzia in termini di priorità sanitarie. Il filantropo Bill Gates la fa da padrone: dal 2013 è il primo erogatore di fondi dell’Oms, e non era mai avvenuto nella storia dell’agenzia che un privato superasse il finanziamento dei governi. I quali dal canto loro, permettono che tutto questo avvenga, al massimo con qualche mal di pancia. Neppure i potenti Brics fanno eccezione.
Ebola ci costringe dunque a misurare il collasso del governo mondiale della salute. Ora che l’epidemia priva di medicinali essenziali ha innescato la competizione fra case farmaceutiche, aziende biotech e centri di ricerca, si tratta di capire se l’Oms possa accompagnare la corsa al vaccino che si è scatenata, e con quali processi di trasparenza, di competenza tecnica, di arruolamento degli esperti. Già con l’influenza aviaria, l’agenzia è stata fagocitata dal conflitto di interessi, con gravi effetti reputazionali.Le ricerche contro il virus dell’Ebola, avviate tramite l’uso dei sieri delle persone infette come raccomandato dall’Oms, sono ancora a una fase molto incipiente, nel senso che nessuna sperimentazione è andata oltre il livello animale. Inoltre tutto il discorso della ricerca sembra essere sfuggito, in senso stretto, alle autorità dei paesi colpiti, le quali hanno detto in tutte le lingue di non essere in grado di valutare la qualità dei farmaci contro Ebola. All’Oms non resta che affidarsi alla Food and Drug Administration (Fda), sempre più coinvolta dato l’attivismo delle aziende biotech americane, o all’European Medicines Agency (Ema).
Lo scenario presenta alcuni problemi. Il primo rischio è che i criteri stringenti e competitivi di Fda e Ema rallentino la messa in campo di nuovi vaccini, e producano un impatto indesiderato sul prezzo del prodotto finale, come del resto avviene in maniera sempre più sistematica con i vaccini di ultima generazione... L’altro problema riguarda il volume di produzione dei nuovi prodotti. Difficile capire che cosa abbia fatto finora l’Oms per spingere quelli che hanno la tecnologia a impegnarsi sui grossi volumi di farmaci, negoziando un accordo fra inventori e produttori del vaccino... Infine, si chiede Janis Lazdins, «una volta pronto il vaccino, chi ne controllerà l’accessibilità: il paese colpito, l’azienda produttrice o il finanziatore del progetto di ricerca?».
di Raffaele K. Salinari
La ricolonizzazione dell'Occidente
In realtà dietro ciò che sta accadendo vive, tra le altre cose, la visione, cinica ma realistica, che l’Africa sub sahariana possa essere «ricolonizzata» dall’Occidente entro una decina di anni senza colpo ferire... Detto con chiarezza: come non soffermarsi sulla possibilità che un Occidente in affanno di materie prime a basso costo e spazi nei quali scaricare i rifiuti, non aspetti che le pandemie facciano il loro corso per poi cogliere il frutto maturo di nazioni deprivate delle sue forze migliori, magari spartendole con l’emergente Cina? Una pura spiegazione biopolitica secondo la visione di Foucault, nulla di originale. Chi oggi andasse a Monrovia vedrebbe scene da Medio Evo: veri e propri lazzaretti dove i disgraziati sospettati di Ebola vengono confinati e lasciati a se stessi.
A cosa servono quindi realmente i milioni di dollari che comunque arriveranno, con tanto di tute gialle riprese e rilanciate dal media mainstream su tutti gli schermi del mondo? In sintesi a rafforzare le basi per un controllo mirato delle popolazioni ma soprattutto delle loro relazioni territoriali con le risorse strategiche. Già da anni, infatti, con la scusa dell’epidemiologia dell’Aids, vengono «tracciate» le popolazioni nei loro flussi migratori; anche per Ebola sarà così, basti pensare alla relazione tra epidemiologia e migrazioni internazionali per capire che strumento potente di «contenimento» rappresenta potenzialmente questa epidemia. E, con la scusa di Ebola, è ormai operativo in Liberia un presidio di tremila soldati Usa (solo personale militare). Se è vero, in conclusione, che costerebbe meno prevenire che curare, possiamo dire, parafrasando Karl Kraus, che oggi l’umanitario è la pulsione sadica del capitalismo.
Nessun commento:
Posta un commento