Sono tornati in piazza questa mattina, davanti alla Prefettura, per protestare contro i trasferimenti forzati dal CARA di Castelnuovo di Porto. Alcune decine di ragazzi, “ospiti” del mega-centro collocato alle porte di Roma, si sono dati appuntamento alle 10, per la seconda volta in pochi giorni
Già una settimana fa, si erano presentati senza autorizzazione e avevano bloccato la strada. Obiettivo: ottenere un incontro con Prefettura e Ministero dell'Interno. “Al campo, ogni volta che abbiamo qualche problema o ci lamentiamo di qualcosa, ci rispondono che è colpa della Prefettura. Per questo siamo venuti qui”, racconta un ragazzo del Senegal in un ottimo italiano. Sui cartelli hanno scritto: “non siamo pacchi postali”, “dovete trattarci come esseri umani”, “siamo delle persone, non degli
animali”. I ragazzi protestano contro l'obbligo di trasferimento che gli viene imposto dalla Prefettura: nonostante le difficoltà della vita nel CARA, tra Roma e provincia hanno iniziato a seguire corsi professionali, alcuni sono iscritti alla scuola media, altri a classi di italiano. Diverse persone hanno il ricorso contro il diniego ricevuto dalla Commissione per l'asilo ancora pendente.
“Ci prendono in giro. A un mio amico avevano detto che sarebbe stato trasferito a Torino, si è ritrovato in un paese di montagna, in un centro dove non c'è acqua calda. Un altro è finito a Lucca: nelle tende.. guarda le foto”. Molti dei ragazzi costretti al trasferimento nelle scorse settimane stanno ritornando a Roma. “Vedi? Hanno i bagagli in mano, vengono da Termini, stanno dormendo là”, continua John che viene dal Sudan e parla inglese.
Abou è nato in Mali e ha deciso di non firmare la lettera di trasferimento. “Non mangio da una settimana: non mi danno più il cibo, hanno tolto il materasso dalla mia stanza e mi hanno ritirato il badge per entrare nel campo. Ma io continuo ad andarci, dormo per terra”. Alcuni ragazzi che si sono rifiutati di farsi trasferire raccontano che il badge viene sottratto anche con la forza, con l'aiuto delle forze dell'ordine presenti nel centro.
Quasi subito, il presidio si anima e si agita: suoni di fischietti, battiti di mani, salti e cori. Al grido di “no transfer” e “diritti per tutti” la piazza si scalda. Dopo un paio d'ore, i ragazzi strappano l'incontro, che, inizialmente, era stato negato. Roberto Leone, dirigente dell'area “Diritti Civili, Cittadinanza, Condizione Giuridica dello Straniero, Immigrazione e Diritto d'Asilo”, espone la posizione della Prefettura: chi non accetta i trasferimenti è fuori dal circuito dell'accoglienza; la procedura, però, dovrà cambiare, garantendo un preavviso di almeno due settimane (finora è stato di meno di 48 ore) e chiarezza sulla provincia di destinazione. Il dirigente promette inoltre che i 30 che hanno rifiutato di firmare il trasferimento potranno essere reintegrati, ma solo se accetteranno di farsi spostare nelle prossime ore. La Prefettura ha bisogno di svuotare il CARA in vista dei nuovi arrivi dalle coste siciliane.
L'incontro ha chiaramente deluso i ragazzi, che però non hanno perso la determinazione a continuare la loro lotta: “il punto non è migliorare la procedura, ma garantire i nostri diritti”. Monica, attivista di Laboratorio53 (l'associazione che dall'inizio ha seguito e sostenuto la vertenza), afferma che "le richieste dei ragazzi vengono nuovamente ignorate, in un rimpallo di responsabilità tra Prefettura e Ministero che non tiene mai in conto i bisogni e le richieste espresse con questa mobilitazione". Stefano Pazienza, avvocato di Yo Migro, sostiene che “il CARA dovrebbe essere un luogo di passaggio, ma nell'inadeguatezza del sistema d'accoglienza italiano diventa spesso un centro dove si rimane molto tempo, iniziando percorsi di socializzazione e inserimento lavorativo. Questi percorsi vanno tutelati”.
Questo episodio fa emergere ancora una volta l'architettura del sistema di accoglienza, che tratta i migranti come oggetti, come pacchi, negando loro qualsiasi possibilità di scelta, di espressione di bisogni e desideri. Un sistema di contenimento e controllo in cui il ricatto è la forma di relazione più frequente: invece di sostenere e tutelare i percorsi di inserimento socio-lavorativo che, con difficoltà, queste persone hanno intrapreso, la Prefettura di Roma preferisce considerarli numeri da sottrarre qui e aggiungere là. È la stessa configurazione del sistema di accoglienza che favorisce la gestione mafiosa dei centri, lo sfruttamento degli operatori, il trattamento disumano dei migranti. Il problema non sono le mele marce, ma come il sistema è stato organizzato. C'è bisogno di cambiamenti radicali!
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