Gli ultimi giorni di Alessandro, il dipendente
dell’Isochimica di Avellino ammazzato dall’amianto, raccontati
dalla compagna
C’è chi, nell’era del dominio di internet, usa social, siti di
informazioni e le altre diavolerie del web, per mostrare tutto.
Corpi e sentimenti. Amori e figli. L’intimità è stata uccisa dai
like. Lei, Annalisa Massidda, ha voluto brandire la rete per
sbattere in faccia al mondo intero la morte. Quella di Alessandro,
l’uomo che amava da qualche anno. E lo ha fatto per sfidare
l’indifferenza: “Ecco, ora vi faccio vedere come muore un
operaio”. Ha deciso di esporre volto e corpo del suo uomo
nell’atto finale della vita. I lineamenti stravolti, la faccia
nascosta da una maschera per assicurare un’ultima boccata di
ossigeno, il dolore e la disperazione negli occhi. Così Annalisa ha
voluto che i lettori del sito di informazione di Avellino, il
Ciriaco.it, vedessero come è morta la vittima numero 23 della
fabbrica della strage operaia, l’Isochimica.
“Odio apparire, detesto questa società che mette in piazza tutto. Ma l’ho fatto, ho voluto che tutti vedessero quell’immagine terribile degli ultimi istanti di vita di Alessandro per dire al mondo intero che gli operai ci sono. È stato lui a chiederlo. Piccolé, mi diceva negli ultimi momenti di lucidità, la lotta non è finita, anche quando non ci sarò più dobbiamo continuare a chiedere giustizia, tutti devono vedere quello che ci hanno fatto. E allora ho pensato alla foto. Quando le parole non bastano più a raccontare di una fabbrica dove per decenni si è lavorato l’amianto senza alcuna protezione, né per gli operai, né per l’ambiente, forse una immagine così dura può servire a risvegliare le coscienze. Di quelli che per trent’anni sono stati complici, distratti, indifferenti. Delle autorità che non hanno vigilato, dei politici complici di quell’imprenditore che sbeffeggiava gli operai che protestavano dicendogli che la Coca cola fa più male dell’amianto…”.
Alessandro lavorava all’Isochimica di Avellino, una fabbrica nata all’inizio degli anni ottanta del secolo passato dalla spregiudicata fantasia di Elio Graziano, ex dipendente delle Ferrovie dello Stato con solide protezioni politiche.
Erano gli anni della “sinistra ferroviaria socialista”, e le Fs furono obbligate a liberare treni e vagoni dalle coibentazioni in amianto. Un appalto miliardario, 300 operai da assumere in una terra affamata di pane e lavoro. Le prime selezioni degli operai avvennero in una piazza: Graziano sceglieva i lavoratori più giovani e con i polmoni più resistenti, e scartava quelli anziani. Non c’erano i capannoni e si cominciò a togliere l’amianto dai treni con un raschietto e senza tute e maschere sul piazzale della stazione di Avellino. 2276 tonnellate di amianto raschiate nel corso degli anni e finite nei corpi dei 300 operai. Fibre invisibili ma mortali disperse nell’aria.
Un quartiere popolare a poche centinaia di metri dalla fabbrica, quintali di veleni interrati sotto i capannoni o smaltiti altrove, ma sempre illegalmente. Graziano era il padrone della città. Poteva tutto perché era il Presidente della squadra di calcio che in quegli anni Ottanta da bere veleggiava in serie A. La politica lo proteggeva. La Legge guardava altrove.
Nel bel libro Il silenzio della polvere, scritto dall’equipe di ricercatori dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli coordinata da Antonello Petrillo, c’è il racconto della convocazione di Elio Graziano negli uffici del procuratore: “A fine campionato 1985-1986, fui chiamato dall’allora sindaco Venezia, mi disse che il procuratore ci aveva convocati e che bisognava andarci. Andammo e il procuratore ci parlò. Graziano, mi disse, voglio che la squadra di calcio vada nelle sue mani, ho raccolto informazioni ben precise e so che lei è un grande lavoratore, onesto, pulito, e ha disponibilità finanziarie per mantenere la squadra in serie A”.
Ecco, così Lo Stato tradì gli operai dell’Isochimica. Avvelenati, uccisi, derubati del futuro. Per la giustizia hanno atteso trent’anni e l’arrivo di un nuovo procuratore interessato più al rispetto della Legge che al calcio. Il processo per le morti dell’Isochimica è iniziato solo da pochi mesi. “Me li ricordo i racconti del mio povero Alessandro – ricorda la signora Massidda –, mi sembravano storie da non credere. Ricordo i suoi compagni di lotta, Nicola Abrate, Carlo Sessa. Sono stati sempre con lui, anche loro hanno respirato veleno…”.
Gli operai dell’Isochimica aspettano ancora uno straccio di legge che riconosca i loro diritti alle cure e a una vecchiaia più o meno serena. La lotta continua. “Ma quello che più mi interessa – ci dice interrotta dalle lacrime Annalisa – è che sia fatta giustizia, che una corte metta nero su bianco le responsabilità di Graziano e delle Ferrovie, dei politici e delle istituzioni che hanno lasciato che questa strage di lavoratori si compisse senza muovere un dito. Il più grande rimpianto di Alessandro è stato quello di morire prima di poter partecipare alla prossima udienza del processo”. Ad Annalisa Massidda, che per seguire il suo uomo ha abbandonato la sua professione di chef, piace ricordare come conobbe quell’uomo che aveva sempre la tosse.
“Se ne andò a Termoli dietro consiglio dei medici per respirare aria di mare. Anch’io ero lì e lavoravo in un ristorante di pesce. Ci capimmo subito, e subito ci innamorammo. Gli sono stato accanto fino alla fine. Ma devo chiedervi un favore: non pubblicate quella foto con lui morente. L’ho fatto per una volta sola perché me lo aveva chiesto lui, ma ora basta. Non voglio più vederlo così”.
“Odio apparire, detesto questa società che mette in piazza tutto. Ma l’ho fatto, ho voluto che tutti vedessero quell’immagine terribile degli ultimi istanti di vita di Alessandro per dire al mondo intero che gli operai ci sono. È stato lui a chiederlo. Piccolé, mi diceva negli ultimi momenti di lucidità, la lotta non è finita, anche quando non ci sarò più dobbiamo continuare a chiedere giustizia, tutti devono vedere quello che ci hanno fatto. E allora ho pensato alla foto. Quando le parole non bastano più a raccontare di una fabbrica dove per decenni si è lavorato l’amianto senza alcuna protezione, né per gli operai, né per l’ambiente, forse una immagine così dura può servire a risvegliare le coscienze. Di quelli che per trent’anni sono stati complici, distratti, indifferenti. Delle autorità che non hanno vigilato, dei politici complici di quell’imprenditore che sbeffeggiava gli operai che protestavano dicendogli che la Coca cola fa più male dell’amianto…”.
Alessandro lavorava all’Isochimica di Avellino, una fabbrica nata all’inizio degli anni ottanta del secolo passato dalla spregiudicata fantasia di Elio Graziano, ex dipendente delle Ferrovie dello Stato con solide protezioni politiche.
Erano gli anni della “sinistra ferroviaria socialista”, e le Fs furono obbligate a liberare treni e vagoni dalle coibentazioni in amianto. Un appalto miliardario, 300 operai da assumere in una terra affamata di pane e lavoro. Le prime selezioni degli operai avvennero in una piazza: Graziano sceglieva i lavoratori più giovani e con i polmoni più resistenti, e scartava quelli anziani. Non c’erano i capannoni e si cominciò a togliere l’amianto dai treni con un raschietto e senza tute e maschere sul piazzale della stazione di Avellino. 2276 tonnellate di amianto raschiate nel corso degli anni e finite nei corpi dei 300 operai. Fibre invisibili ma mortali disperse nell’aria.
Un quartiere popolare a poche centinaia di metri dalla fabbrica, quintali di veleni interrati sotto i capannoni o smaltiti altrove, ma sempre illegalmente. Graziano era il padrone della città. Poteva tutto perché era il Presidente della squadra di calcio che in quegli anni Ottanta da bere veleggiava in serie A. La politica lo proteggeva. La Legge guardava altrove.
Nel bel libro Il silenzio della polvere, scritto dall’equipe di ricercatori dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli coordinata da Antonello Petrillo, c’è il racconto della convocazione di Elio Graziano negli uffici del procuratore: “A fine campionato 1985-1986, fui chiamato dall’allora sindaco Venezia, mi disse che il procuratore ci aveva convocati e che bisognava andarci. Andammo e il procuratore ci parlò. Graziano, mi disse, voglio che la squadra di calcio vada nelle sue mani, ho raccolto informazioni ben precise e so che lei è un grande lavoratore, onesto, pulito, e ha disponibilità finanziarie per mantenere la squadra in serie A”.
Ecco, così Lo Stato tradì gli operai dell’Isochimica. Avvelenati, uccisi, derubati del futuro. Per la giustizia hanno atteso trent’anni e l’arrivo di un nuovo procuratore interessato più al rispetto della Legge che al calcio. Il processo per le morti dell’Isochimica è iniziato solo da pochi mesi. “Me li ricordo i racconti del mio povero Alessandro – ricorda la signora Massidda –, mi sembravano storie da non credere. Ricordo i suoi compagni di lotta, Nicola Abrate, Carlo Sessa. Sono stati sempre con lui, anche loro hanno respirato veleno…”.
Gli operai dell’Isochimica aspettano ancora uno straccio di legge che riconosca i loro diritti alle cure e a una vecchiaia più o meno serena. La lotta continua. “Ma quello che più mi interessa – ci dice interrotta dalle lacrime Annalisa – è che sia fatta giustizia, che una corte metta nero su bianco le responsabilità di Graziano e delle Ferrovie, dei politici e delle istituzioni che hanno lasciato che questa strage di lavoratori si compisse senza muovere un dito. Il più grande rimpianto di Alessandro è stato quello di morire prima di poter partecipare alla prossima udienza del processo”. Ad Annalisa Massidda, che per seguire il suo uomo ha abbandonato la sua professione di chef, piace ricordare come conobbe quell’uomo che aveva sempre la tosse.
“Se ne andò a Termoli dietro consiglio dei medici per respirare aria di mare. Anch’io ero lì e lavoravo in un ristorante di pesce. Ci capimmo subito, e subito ci innamorammo. Gli sono stato accanto fino alla fine. Ma devo chiedervi un favore: non pubblicate quella foto con lui morente. L’ho fatto per una volta sola perché me lo aveva chiesto lui, ma ora basta. Non voglio più vederlo così”.
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