Per i paesi imperialisti è necessario “Produrre più armi e
più munizioni. Perché un conflitto regionale quale quello in Ucraina è anche
o soprattutto una guerra industriale, di fabbriche.” Con queste frasi si apre
“pacificamente” un articolo del Sole24Ore dell’8 marzo scorso, che esprime
preoccupazione per lo svuotamento degli arsenali. Anche gli Stati Uniti che “vantano
il complesso militare industriale per eccellenza, il più vasto e potente al mondo,
oggi fanno i conti anche con improvvise carenze che preoccupano il Pentagono e
gli analisti.”
Questo “fenomeno” “è stato battezzato da questi analisti e strateghi
‘empty bins’ - casse vuote.” Per riempirle di nuovo c’è bisogno di una “solida
base manifatturiera”, insomma, detto correttamente, di grande industria,
di fabbriche, soprattutto in vista della capacità di “reggere al rischio
di un secondo scontro in agguato: un conflitto, ancora più difficile, con la
Cina che abbia in palio Taiwan.”
Anche negli Usa, come è successo all’imperialismo europeo, si sono accorti che “La base industriale
del paese ‘non è adeguatamente preparata al quadro esistente di sicurezza internazionale’. Non è tuttora al passo della nuova era di conflitti in corso o possibili.” Lo ripete ancora più chiaramente “Lo stesso Consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullilvan” che “ha sottolineato come occorra garantire che gli USA ‘siano capaci di sostenere l'Ucraina e di affrontare contingenze altrove’.”Dopo, quindi, aver affermato apertamente che il problema è
la prossima guerra con la Cina, l’articolo si diffonde sull’attuale boom
della produzione militare che fa fatica a stare dietro agli ordini “che
vanno oltre i bisogni immediati” e che valgono miliardi di dollari: “Dagli
impianti dei colossi aziendali della difesa si levano imperativi alla nuova
produzione: l'impianto di proiettili d'artiglieria della General Dynamics a
Scranton in Pennsylvania, città Natale del presidente Joe Biden, è in forte
espansione, parte di un boom nazionale del 500% da 15.000 a 70.000 al
mese. In Arkansas uno stabilimento del fornitore leader del Pentagono, Lockheed
Martin, sta ampliando le sue capacità di sfornare missili e razzi,
compresi i sofisticati sistemi difensivi Patriot. La produzione degli agili Javelin
anti-carro, targati Lockheed e Raytheon, dovrebbe raddoppiare e quella degli
altrettanto popolari missili antiaerei Stinger, Raytheon, riprendere da zero.
Lockheed, segno di spinte al riarmo che vanno oltre i bisogni immediati, è
anche reduce da una commessa da 2,2 miliardi per armi ipersoniche per marina
ed esercito di nuova generazione. A Wall Street negli ultimi sei mesi i
titoli dei protagonisti, davanti al protrarsi dei combattimenti, hanno spesso
guadagnato oltre il 10 per cento.”
Lockheed, da sola, “riceve più fondi federali
dell'intero budget combinato del dipartimento di Stato e dell'agenzia lo
sviluppo internazionale Usaid.”
L'obiettivo di questa manovra è, come detto “avere la
capacità di dotare Usa e alleati di deterrente e, in caso di bisogno, di capacità
di combattimento per vincere almeno uno o due grandi conflitti” e perciò
non servono solo i soldi: “Accanto a nuovi contratti miliardari per rimpiazzare
gli aiuti a Kiev - dei più di 50 miliardi di in aiuti militari arrivati a
Kiev oltre 30 sono statunitensi”, gli Stati Uniti devono “rafforzare il
dispositivo bellico.” Per questo è necessaria “Una nuova politica
industriale per la difesa: il presidente Joe Biden, accanto a budget del
Pentagono in ascesa e avviato a valicare la soglia dei 1000 miliardi l'anno,
ha firmato ordini esecutivi per facilitare e incentivare investimenti lungo
l'intera supply chain, da materiali critici a elettronica e qualificazione
del personale.” Tenendo conto del “nuovo clima” siamo già effettivamente
a 858 miliardi all’anno, ma c’è spazio per altri aumenti visto che “in
termini relativi, stando al Pentagono, la spesa militare in rapporto
all'economia è tuttora pari al 3,2% rispetto al 37% della Seconda
Guerra Mondiale e al 13% della guerra di Corea.”
Gli USA tengono conto, quindi, di ciò che dice il famigerato
“analista preoccupato” che prima fa la scoperta dell’acqua calda, e cioè “che
un prolungato conflitto diventa appunto una guerra industriale tale da
richiedere un settore della Difesa in grado “di produrre sufficienti munizioni,
sistemi d'arma e materiali per reintegrare scorte sotto pressione’”, e poi arriva
alla conclusione più allarmante: “in un conflitto, che lo stesso Pentagono
considera sempre più probabile e sempre più vicino, nello stretto di Taiwan
“l'uso di munizioni probabilmente eccederà le attuali riserve”. Anzi, gli
Stati Uniti “con ogni probabilità” esaurirebbero alcune munizioni essenziali -
quali quelle a lungo raggio, guidate e di precisione – ‘in meno di una
settimana’”.
È per questo che bisogna intensificare e aumentare subito la
produzione per cui sono pronti i soliti “primattori: su tutti le già citate Lockheed
e Raytheon, che hanno ricevuto 2 terzi dei recenti contratti del Pentagono,
oltre ai già citati Javelin e Stinger offrono i sistemi lanciarazzi Himars. Non
mancano tuttavia commesse minori per società quali General Dynamics, L-3 Communications,
Boeing e Northrop Grumman.”
Ma “Prima di aumentare in modo strutturale la produzione”
le aziende vogliono certezze: innanzi tutto che gli ordini non siano
più anno per anno, ma pluriennali, e poi lo snellimento delle procedure per la
vendita all’estero. In più c’è la necessità di cambiare “sistema di produzione
industriale”: l’attuale sarebbe troppo sbilanciato sul just in time (e
cioè produrre man mano che arrivano gli ordini per risparmiare l’accumulo dei
costi relativi alle giacenze in magazzino) e passare al just in case che
“comporta la sovrapproduzione di beni per poter avere a magazzino,
in qualsiasi momento, tutto il necessario nel caso di un aumento della domanda
repentino per alcune categorie specifiche di prodotti” (come dicono gli “analisti”
specializzati).
Questa scelta costringe gli imperialisti a ripensare tutto
perché richiede appunto “enormi espansione del budget del Pentagono … spesso
già accusato di essere gonfiato da sprechi e spirali di costi oltre le attese, ma anche una rete di iniziative, da riforme degli accordi con gli alleati a
revisioni delle priorità di spesa e a correzioni di tiro negli
armamenti considerati efficaci.”
E si tratta dei costi della guerra ai quali si aggiungono quelli
dell’elefantiasi burocratica degli Stati imperialisti: “Stando al Gao,
l'ufficio federale di controllo della spesa del governo, oltre metà delle
commesse nella Difesa Usa risente di ritardi, spesso indefiniti e in media di
due anni, pari a costi aggiuntivi per oltre 600 miliardi di dollari.
Simbolo che nuovi fondi per gli arsenali, da soli, non comprano sicurezza.”
Prima comprano tempo, adesso comprano sicurezza…! Ma le guerre del passato hanno già dimostrato che la borghesia non riuscirà a comprare la salvaguardia del suo sistema sociale, anzi, ogni sua guerra ne avvicina la fine. Una fine alla quale servono altre fabbriche, quelle della rivoluzione, quelle in cui lavorano le operaie e gli operai del proletariato internazionale, i “becchini del capitale”.
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