mercoledì 15 marzo 2023

pc 15 marzo - L’imperialismo USA lancia la “guerra delle fabbriche” per riempire gli arsenali

 investendo quasi 1000 miliardi di dollari l’anno e proponendo di cambiare “sistema di produzione”, dal “just in time” al “just in case” 

Biden visita la fabbrica di Javelin della Lockeed Martin

Per i paesi imperialisti è necessario “Produrre più armi e più munizioni. Perché un conflitto regionale quale quello in Ucraina è anche o soprattutto una guerra industriale, di fabbriche.” Con queste frasi si apre “pacificamente” un articolo del Sole24Ore dell’8 marzo scorso, che esprime preoccupazione per lo svuotamento degli arsenali. Anche gli Stati Uniti che “vantano il complesso militare industriale per eccellenza, il più vasto e potente al mondo, oggi fanno i conti anche con improvvise carenze che preoccupano il Pentagono e gli analisti.”

Questo “fenomeno” “è stato battezzato da questi analisti e strateghi ‘empty bins’ - casse vuote.” Per riempirle di nuovo c’è bisogno di una “solida base manifatturiera”, insomma, detto correttamente, di grande industria, di fabbriche, soprattutto in vista della capacità di “reggere al rischio di un secondo scontro in agguato: un conflitto, ancora più difficile, con la Cina che abbia in palio Taiwan.”

Anche negli Usa, come è successo all’imperialismo europeo, si sono accorti che “La base industriale

del paese ‘non è adeguatamente preparata al quadro esistente di sicurezza internazionale’. Non è tuttora al passo della nuova era di conflitti in corso o possibili.” Lo ripete ancora più chiaramenteLo stesso Consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullilvan” che “ha sottolineato come occorra garantire che gli USA ‘siano capaci di sostenere l'Ucraina e di affrontare contingenze altrove’.”

Dopo, quindi, aver affermato apertamente che il problema è la prossima guerra con la Cina, l’articolo si diffonde sull’attuale boom della produzione militare che fa fatica a stare dietro agli ordini “che vanno oltre i bisogni immediati” e che valgono miliardi di dollari: “Dagli impianti dei colossi aziendali della difesa si levano imperativi alla nuova produzione: l'impianto di proiettili d'artiglieria della General Dynamics a Scranton in Pennsylvania, città Natale del presidente Joe Biden, è in forte espansione, parte di un boom nazionale del 500% da 15.000 a 70.000 al mese. In Arkansas uno stabilimento del fornitore leader del Pentagono, Lockheed Martin, sta ampliando le sue capacità di sfornare missili e razzi, compresi i sofisticati sistemi difensivi Patriot. La produzione degli agili Javelin anti-carro, targati Lockheed e Raytheon, dovrebbe raddoppiare e quella degli altrettanto popolari missili antiaerei Stinger, Raytheon, riprendere da zero. Lockheed, segno di spinte al riarmo che vanno oltre i bisogni immediati, è anche reduce da una commessa da 2,2 miliardi per armi ipersoniche per marina ed esercito di nuova generazione. A Wall Street negli ultimi sei mesi i titoli dei protagonisti, davanti al protrarsi dei combattimenti, hanno spesso guadagnato oltre il 10 per cento.”

Lockheed, da sola, “riceve più fondi federali dell'intero budget combinato del dipartimento di Stato e dell'agenzia lo sviluppo internazionale Usaid.”

L'obiettivo di questa manovra è, come detto “avere la capacità di dotare Usa e alleati di deterrente e, in caso di bisogno, di capacità di combattimento per vincere almeno uno o due grandi conflitti” e perciò non servono solo i soldi: “Accanto a nuovi contratti miliardari per rimpiazzare gli aiuti a Kiev - dei più di 50 miliardi di in aiuti militari arrivati a Kiev oltre 30 sono statunitensi”, gli Stati Uniti devono “rafforzare il dispositivo bellico.” Per questo è necessaria “Una nuova politica industriale per la difesa: il presidente Joe Biden, accanto a budget del Pentagono in ascesa e avviato a valicare la soglia dei 1000 miliardi l'anno, ha firmato ordini esecutivi per facilitare e incentivare investimenti lungo l'intera supply chain, da materiali critici a elettronica e qualificazione del personale.” Tenendo conto del “nuovo clima” siamo già effettivamente a 858 miliardi all’anno, ma c’è spazio per altri aumenti visto che “in termini relativi, stando al Pentagono, la spesa militare in rapporto all'economia è tuttora pari al 3,2% rispetto al 37% della Seconda Guerra Mondiale e al 13% della guerra di Corea.”

Gli USA tengono conto, quindi, di ciò che dice il famigerato “analista preoccupato” che prima fa la scoperta dell’acqua calda, e cioè “che un prolungato conflitto diventa appunto una guerra industriale tale da richiedere un settore della Difesa in grado “di produrre sufficienti munizioni, sistemi d'arma e materiali per reintegrare scorte sotto pressione’”, e poi arriva alla conclusione più allarmante: “in un conflitto, che lo stesso Pentagono considera sempre più probabile e sempre più vicino, nello stretto di Taiwan “l'uso di munizioni probabilmente eccederà le attuali riserve”. Anzi, gli Stati Uniti “con ogni probabilità” esaurirebbero alcune munizioni essenziali - quali quelle a lungo raggio, guidate e di precisione – ‘in meno di una settimana’”.

È per questo che bisogna intensificare e aumentare subito la produzione per cui sono pronti i soliti “primattori: su tutti le già citate Lockheed e Raytheon, che hanno ricevuto 2 terzi dei recenti contratti del Pentagono, oltre ai già citati Javelin e Stinger offrono i sistemi lanciarazzi Himars. Non mancano tuttavia commesse minori per società quali General Dynamics, L-3 Communications, Boeing e Northrop Grumman.”

Ma “Prima di aumentare in modo strutturale la produzione” le aziende vogliono certezze: innanzi tutto che gli ordini non siano più anno per anno, ma pluriennali, e poi lo snellimento delle procedure per la vendita all’estero. In più c’è la necessità di cambiare “sistema di produzione industriale”: l’attuale sarebbe troppo sbilanciato sul just in time (e cioè produrre man mano che arrivano gli ordini per risparmiare l’accumulo dei costi relativi alle giacenze in magazzino) e passare al just in case che “comporta la sovrapproduzione di beni per poter avere a magazzino, in qualsiasi momento, tutto il necessario nel caso di un aumento della domanda repentino per alcune categorie specifiche di prodotti” (come dicono gli “analisti” specializzati).

Questa scelta costringe gli imperialisti a ripensare tutto perché richiede appunto “enormi espansione del budget del Pentagono … spesso già accusato di essere gonfiato da sprechi e spirali di costi oltre le attese, ma anche una rete di iniziative, da riforme degli accordi con gli alleati a revisioni delle priorità di spesa e a correzioni di tiro negli armamenti considerati efficaci.”

E si tratta dei costi della guerra ai quali si aggiungono quelli dell’elefantiasi burocratica degli Stati imperialisti: “Stando al Gao, l'ufficio federale di controllo della spesa del governo, oltre metà delle commesse nella Difesa Usa risente di ritardi, spesso indefiniti e in media di due anni, pari a costi aggiuntivi per oltre 600 miliardi di dollari. Simbolo che nuovi fondi per gli arsenali, da soli, non comprano sicurezza.”

Prima comprano tempo, adesso comprano sicurezza…! Ma le guerre del passato hanno già dimostrato che la borghesia non riuscirà a comprare la salvaguardia del suo sistema sociale, anzi, ogni sua guerra ne avvicina la fine. Una fine alla quale servono altre fabbriche, quelle della rivoluzione, quelle in cui lavorano le operaie e gli operai del proletariato internazionale, i “becchini del capitale”.

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