Reportage
Dove l’India brucia i vivi
A Jharia tutto è fuoco e cenere.
Un inferno di carbone che fornisce energia all’industria. Il sottosuolo qui è
ricchissimo: sono le persone che non valgono nulla
C’erano palme una volta, qui. E campi,
e risaie. La sera, la gente sedeva a chiacchierare davanti alla porta di casa,
gli uomini sotto un albero al centro del villaggio. C’erano animali, e fiori,
ed erbe medicinali. Ci sono ancora, da qualche parte. Ci sono ancora ai margini
di questa terra desolata e grigia, dove non c’è più cielo e dove la terra è
diventata nemica. Adesso, arrivare qui è come arrivare su un altro pianeta. Un
pianeta fatto di scheletri carbonizzati di alberi, di mozziconi di case avvolte
da una nube tossica che le stringe come un sudario, di rovine che spuntano
dalla terra, inghiottite dalle voragini aperte dalle esplosioni sotterranee.
Non è mai notte a Jharia, perché la notte splende del chiarore sinistro della
terra che brucia e del rosso arancio delle fiamme che segnano le linee di
percorrenza dei nuovi fuochi che trasformano la terra in magma. E se la notte è
arancio e rossa e nera, il giorno è grigio ferro e avvolto da una coltre
costante di gas e nebbia tossica. Non è mai notte, a Jharia. E non è mai
davvero giorno da tanto, troppo tempo. Da quando la terra ha cominciato a
bruciare, ed è stato tento tempo fa.
Jharia, nello stato indiano del
Jharkhand, si trova nel cosiddetto corridoio del carbone, al centro del
triangolo industriale che si è sviluppato in una delle zone più ricche di
minerali dell’India, un triangolo che tocca il West Bengal, l’Orissa, il Bihar
e lo stesso Jharkhand. È la zona in cui si trova la maggior parte della
ricchezza mineraria dell’India: oro, rame, uranio, ferro e, per l’appunto,
carbone. Carbone che si estrae, fin dai primi anni del secolo scorso,
prevalentemente nella zona compresa tra Dhanbad e Jharia. Le estrazioni sono
cominciate all’inizio del novecento, seguendo il metodo
“tradizionale”: miniere sotterranee in cui i minatori si calavano per estrarre il carbone.
“tradizionale”: miniere sotterranee in cui i minatori si calavano per estrarre il carbone.
Il primo fuoco è divampato nel 1916,
e da allora la terra ha continuato a bruciare: si dice che i fuochi sotterranei
di Jharia siano tra i più antichi del pianeta. Siccome si trattava di fuochi
sotterranei difficili da estinguere, in principio non è stato preso alcuni tipo
di provvedimento. Le aree coinvolte sono state abbandonate, sono state aperte
altre miniere poco lontano e i fuochi sono stati lasciati a se stessi nella
speranza che prima o poi si estinguessero da soli. Non è stato così. E il
crescente fabbisogno di energia dell’India, la spinta all’industrializzazione
cominciata a metà degli anni settanta, ha reso di importanza fondamentale le
miniere di Jharia che producono carbone di qualità altissima necessario ad
alimentare le acciaierie che sorgevano nella zona, costruite prima dalla Tata e
poi dalla Archelor-Mittal negli ultimi anni. Così, nel 1973, la Bharat Coaking
Coal Ltd cominciava o meglio, ricominciava a estrarre carbone, questa volta su
larga scala, dalle miniere di Jharia. L’impatto ambientale e sociale si è
rivelato devastante. La Bccl ha infatti deciso di adottare metodi di estrazione
più rapidi ed efficienti rispetto a quelli adoperati in passato: le cosiddette
miniere a cielo aperto. “L’idea”, racconta Ashok Agrawal, che è il presidente
della Jharia Coalfield Bachao Samiti, un’organizzazione che lotta da tempo
perché la situazione disperata di Jharia venga in qualche modo sanata e risolta
“era di estrarre carbone velocemente e a costi contenuti… La Bccl non aveva
calcolato però che nella stessa zona in cui sono state aperte le miniere a
cielo aperto, esistevano le vecchie miniere sotterranee. Il sottosuolo era
pieno di gallerie e cunicoli scavati in precedenza per permettere ai minatori
di estrarre il carbone dal sottosuolo. E le gallerie sono piene, sempre, di pezzetti
di carbone che prendono fuoco facilmente. Nelle gallerie si sviluppa del gas-
così, quando hanno abbattuto le pareti e le volte delle gallerie per scavare a cielo
aperto, l’impatto dell’aria è stato devastante. Il carbone rimasto nei cunicoli
ha preso fuoco per via dell’ossigeno e di gas combustibili, e ha continuato a
bruciare sempre più in profondità e in aree sempre più estese”.
Al momento, nel cosiddetto
corridoio del carbone tra Jharia e Dhanbad ci sono 110 miniere legali e,
secondo stime non ufficiali, altrettante miniere illegali. È uno dei posti più
inquinati del pianeta, si dice. Le miniere di carbone coprono un’area di 450
chilometri quadrati, e la terra brucia in circa settanta zone. Brucia a una
temperatura di 700 gradi, come un vulcano. Delle circa settecentomila persone
che vivono nella zona delle miniere, soltanto un quinto lavora per la Bccl: gli
altri, sopravvivono con mezzi di fortuna. Raccolgono i pezzi di carbone che
cadono dai camion ufficiali, trasportano enormi sacchi scuri su biciclette che
sembrano minuscole sotto il peso caricato. Rivendono per poche rupie il carbone
al mercato nero, alla criminalità organizzata e alla mafia locale che lo
rivenderà a sua volta per un profitto ben maggiore. La storia di Jharia è al
tempo stesso unica e simile a molte altre che si trovano al centro e ai margini
del triangolo industriale. Una storia che fa parte di una storia più ampia, la
storia dello scontro in atto orami da moltissimi anni tra due delle molte anime
dell’India: la legittima aspirazione alla modernizzazione al progresso, e la civiltà
tribale e dei villaggi sopravvissuta ai secoli e alla Storia. Secondo la legge
indiana, le popolazioni tribali hanno diritto a conservare la propria terra, i
propri usi e costumi, le loro tradizioni. Per legge, i rappresentanti delle
tribù e dei villaggi devono essere consultati ogni volta che nelle vicinanze
delle loro terre si costruisce qualcosa. Qualunque cosa, anche i fili dell’energia
elettrica, anche una strada o una casa cantoniera: figuriamoci una miniera. Ma
la tecnica è sempre la stessa: si espropriano i tribali della loro terra con
mandato governativo, gli si attribuisce una ricompensa in denaro, si promette
un posto di lavoro e un certo numero di moderne comodità. Le donne, ovviamene, che
non hanno legalmente alcun diritto sulle proprietà terriere, non vengono
neanche consultate. E sono quelle che più risentono della distruzione
dell’ambiente causata dalle compagnie minerarie e della disgregazione del
tessuto sociale; proprio perché ricoprono un ruolo tanto importante all’interno
dell’economia tradizionale.
“La trasformazione dell’economia
agraria in economia mineraria degrada lo stato sociale, economico e culturale
delle donne. E favorisce l’instaurarsi di mali sociali fino a quel momento
sconosciuti come la violenza domestica, l’alcolismo, i debiti, gli abusi fisici
sessuali, la prostituzione e l’abbandono”, sostiene Urmi Basu, un’attivista sociale
che ha fondato l’Ong New Light a Calcutta e che in Jharkhand svolge parte della
sua attività. Per sopravvivere, la popolazione di Jharia non ha più ormai da
anni altro mezzo che le miniere: le miniere illegali, quelle in cui si lavora
senza attrezzatura professionale e senza precauzione alcuna. I minatori entrano
con fiamme libere, candele o lanterne, provocando esplosioni e ulteriori
fuochi. “A causa dei gas tossici”, dice uno dei medici del locale ospedale,
“c’è un numero altissimo e sempre in crescita di casi di tubercolosi, asbestosi
e altre malattie respiratorie, così come di allergie e altre malattie della
pelle”.
Negli anni passati il governo e
la Bccl avevano creato la Jharia Rehabilitation and Development Authority, che aveva
elaborato un piano di evacuazione e riallocazione dei settecentomila abitanti
della zona di Jharia. Qualcosa, però, non ha funzionato. Dopo otto anni sono
state riallocate soltanto diecimila persone: gli altri rifiutano di andarsene,
perché a quanto pare le famiglie evacuate sono state semplicemente spostate
altrove, nel mezzo del nulla dove non possono trovare lavoro né provvedere a se
stesse.
Da anni i tribali e le Ong
protestano contro il governo e contro la Bccl, ma nulla è cambiato. A
complicare il tutto, si sono unite alle proteste di tribali e Ong anche i
guerriglieri naxaliti, che usano sempre più di frequente il Jharkhand come base
logistica, come sede di campi di addestramento dei guerriglieri o di
reclutamento di giovani tribali; la povertà, la rabbia e l’insoddisfazione,
unite alla pressoché totale latitanza delle istituzioni nella zona, hanno fornito
ai Naxaliti una solida piattaforma su cui operare più o meno indisturbati
sfruttando e acuendo abilmente le diseguaglianze sociali ed economiche. Dal
2006 la guerriglia maoista è cresciuta in modo esponenziale nella zona, e
colpisce di preferenza obiettivi legati all’industria e alle miniere. E la situazione
è destinata a peggiorare. Nonostante lo stesso premier Narendra Modi abbia più
volte citato la situazione di Jharia nei suoi discorsi, il fabbisogno di
energia di una economia in pieno sviluppo come quella indiana non consente
pause né passi indietro: l’India è il terzo paese al mondo per consumo di
energia e importa la maggior parte del suo fabbisogno energetico. Ha un bisogno
disperati di incrementare la produzione domestica, e di attrarre investimenti
esteri nel triangolo industriale il resto è secondario. L’India dei villaggi e
dei tribali è destinata a perdersi per sempre nelle nebbie della storia,
respinta ai margini di un mondo che non riesce a capire né ad accettare. E per
Jharia, secondo Agarwal, non c’è più speranza: “Il fuoco continua ad avanzare
ed espandersi”, conclude, “Non sappiamo di quanto e per quanti chilometri, ma
si diffonde sempre più. Se la Bharat Coking Coal Ltd va avanti con il suo
progetto di raddoppiare la produzione entro il 2020, apriranno nuove miniere e
sempre più gente dovrà abbandonare le proprie case. Questo posto un giorno morirà,
è destinato a morie. È solo questione di tempo, e di Jharia rimarrà traccia
soltanto nei libri di storia”.
L’Espresso 13 gennaio 2019
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