pc 15 febbraio - Operai indiani - da Le Monde diplomatique
(dalla nostra inviata speciale
Naïké Desquesnes)
Sesto produttore mondiale
con due milioni di autoveicoli costruiti nel 2013 (1), l’India spera di salire
al quarto posto entro il 2016. La riforma del lavoro presentata a ottobre 2014
dal nuovo primo ministro Narendra Modi dovrebbe favorire un ritorno alla
crescita pari a quella che il settore ha conosciuto negli anni 2000 (nell’ordine
dell’8% l’anno in media). Essa impone la diminuzione degli ispettorati del
lavoro, la «semplificazione» di alcune leggi, l’allungamento della durata
dell’apprendistato, spingendo al ricorso sistematico a una mano d’opera non
stabile e pagata meno (2). Queste misure sono in
parte destinate ad attirare gli investitori stranieri, mentre la campagna del
governo «Made in India» è al suo culmine. Esse rischiano di aggravare la
precarizzazione che coinvolge l’industria da parecchi anni e che ha fatto
emergere negli operai giovani pratiche e aspirazioni nuove. Il conflitto che ha
scosso il costruttore Maruti-Suzuki nel 2011 e 2012, dove la mobilitazione
persiste malgrado la durezza della repressione, funge sempre da modello. La zona
industriale di Manesar, sorta all’inizio del millennio, si estende ai bordi
dell’autostrada che collega New Delhi a Jaipur, che si percorre in una nebbia di
polvere e inquinamento, con i taxi collettivi (autorickshaws) che faticano a
farsi strada tra i giganteschi camion. Tra un McDonald’s e un campo incolto
dall’erba ingiallita, grandi cartelli pubblicitari annunciano la prossima
nascita di un lotto di appartamenti – «lusso, calma e serenità». Una volta
superata la nuova città di Gurgaon, polmone economico di New Delhi dove si
costeggiano centri commerciali, call center, abitazioni private, fabbriche
tessili e agglomerati operai, un cartello avvisa: «Benvenuti nella zona
industriale modello». È in questa città rettilinea e senza alberi di Manesar che
si trovano le nuove unità produttive della Maruti-Suzuki. Nata sulle macerie
dell’impresa di Stato Maruti Motors Limited, creazione del figlio del primo
ministro Indira Gandhi, la società nel 1981 prende la forma di una joint-venture
con la giapponese Suzuki Motors, società straniera pioniera sul suolo indiano.
Da questo partenariato pubblico-privato nasce la prima fabbrica a Gurgaon, dove
si assembla la famosa Maruti 800, piccola utilitaria dalle forme angolose. In
una situazione di quasi monopolio, l’impresa avvia allora la «rivoluzione delle
quattro-ruote»: commercializza dei motori a buon mercato accessibili alle classi
medie-basse. Ben presto, le principali arterie urbane si riempiono di Maruti,
simbolo dell’India moderna. Nel corso degli anni ’90, decennio della
liberalizzazione dell’economia, lo Stato si disimpegna progressivamente fino
alla privatizzazione completa nel 2007 in favore di Suzuki, che detiene il 54,2
% del capitale. Quell’anno a Manesar sono costruite delle linee di produzione
supplementari progettate per diventare la fabbrica d’eccellenza del gruppo.
Dagli anni ’80 e per la prima volta nel mondo industriale indiano, il management
di Maruti-Suzuki inculca la «cultura del lavoro» attraverso la puntualità, le
scadenze rispettate, lo spirito di performance. La direzione applica il
«toyotismo», ricette di gestione del personale elaborate dal gigante giapponese
Toyota. Macchine timbra cartellini sono installate ai portoni di entrata, «anche
per i direttori», precisa R. C. Barghava, presidente del gruppo Maruti e autore
di un libro sulla sua storia (3). Gli operai arrivano
quindici minuti prima per una serie di esercizi fisici obbligatori. Secondo il
famoso principio del kaizen (messo a punto in Giappone), riunioni di emulazione
collettiva, i «cerchi di qualità» ora diffusi complessivamente nel mondo
dell’automobile intimano agli impiegati di proporre ciò che potrebbe migliorare
la produttività giornaliera. Coloro che partecipano guadagnano in più il
privilegio di pranzare con il capo. Un solo sindacato è tollerato nell’azienda:
il Maruti Udyog Kamgar Union (Muku), un sostituto della direzione impiantato nel
sito storico di Gurgaon. La fabbrica di Manesar non dispone di alcun delegato.
Aperte nel 2007, le nuove unità sono edificate «sul modello della fabbrica di
Kosai, in Giappone, per introdurvi un alto livello di automazione e le migliori
pratiche di Maruti-Suzuki» s’inorgoglisce Barghava. Venuti dai villaggi vicini –
molti precari tornano per la mietitura –, i circa quattromila operai lavorano
sei giorni su sette, otto ore e mezza al giorno, senza contare il lungo tragitto
in autobus e il quarto d’ora d’anticipo obbligatorio. Come lo raccontano Sateesh
Kumar e Kushi Ram, rimossi nell’agosto 2012, «per i figli di contadini, era
prestigioso entrare in Maruti. Ma la disillusione è stata veloce. Sulla catena
di montaggio, la pressione è permanente. Abbiamo quaranta secondi per ogni
automobile per effettuare le nostre verifiche. Ci prendono per dei robot! Quando
il collega non arriva a dare il cambio, dobbiamo continuare, e non siamo pagati
per gli straordinari». I dipendenti rifiutano l’adesione al sindacato interno
Gli operai sanno ugualmente che i loro stipendi non raggiungono – e di gran
lunga – quelli della fabbrica madre di Gurgaon, dove i lavoratori strutturati
(in minoranza) guadagnano circa 30.000 rupie al mese (350 euro), una somma che
talvolta vale loro il soprannome di «aristocratici della classe operaia». A
Manesar, la quota fissa dei salari prima del 2012 era soltanto di 5.000 rupie
(58 euro), con una retribuzione totale che raggiungeva in media 8.000 rupie (85
euro) per un interinale, e 17.000 rupie (200 euro) per un lavoratore fisso.
Qualche minuto di ritardo, e la direzione preleva la metà dello stipendio
giornaliero. Un’urgenza familiare senza aver avvertito con anticipo, e quasi
tutta la quota variabile scompare. «Gli errori sono registrati nelle lettere di
richiamo. Se tu ne hai due o tre, allora non puoi diventare un lavoratore dal
posto fisso», riferisce Bouddhi Prakash, operario presso Suzuki Powertrain, che
produce motori Diesel e trasmissioni. L’intensificazione del lavoro e la
differenza di status tra dipendenti fissi e interinali sono al centro del
conflitto che scoppia nel 2011. Nel mese di giugno, quando Maruti-Suzuki
annuncia il passaggio di ruolo per la metà soltanto dell’organico di Manesar,
gli operai presentano all’amministrazione locale una domanda di iscrizione a un
sindacato indipendente. Fin dal giorno dopo, la direzione spinge i dipendenti a
firmare una dichiarazione che attesti la loro adesione al sindacato interno.
Solo il 10% si piega all’intimazione, altri cominciano un sit-in. È l’inizio del
movimento. «Quando siamo arrivati, uscivamo tutti dagli stessi istituti tecnici.
Assieme eravamo apprendisti in fabbrica, si sono creati forti legami di
amicizia. Di colpo alcuni si sono ritrovati a essere di ruolo, altri sono
rimasti precari, per lo stesso lavoro e per metà retribuzione», testimoniano
Kumar e Ram. Oltre alle differenze di stipendio, gli interinali non hanno
accesso agli autobus aziendali e al premio di Diwali (festa delle luci,
equivalente al Natale). Provenienti da famiglie contadine povere, questi giovani
tra i 20 e i 25 anni provano un misto di invidia e rivolta nei confronti del
modo di vivere dei centri urbani e commerciali di Gurgaon ai quali non possono
accedere. Ranjana Padhi, membro dell’organizzazione non governativa People’s
Union for Democratic Rights (Pudr), analizza la mobilitazione come «il frutto di
una forte consapevolezza di ciò che lo sfruttamento vuol dire, in un contesto
dove la precarietà è la norma, mentre l’80% della mano d’opera era regolarmente
assunta negli anni 1980. È ciò che ha fatto nascere questa solidarietà inedita
tra lavoratori fissi e precari». Un’unità favorita dall’occupazione della
fabbrica, un metodo d’azione poco diffuso a Manesar, dove ci si raggruppa di
solito davanti ai cancelli del sito senza entrarvi. Dopo molte sospensioni e
scioperi bianchi, la direzione decide la chiusura (lock-out) per trenta giorni
per sciopero illegale con l’obbligo di firmare un impegno di «buona condotta»
per poter tornare al lavoro. Sebbene i sindacati siano legali dal 1927, il
diritto di sciopero non esiste in India, che non ha ratificato la convenzione
dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) sulla contrattazione
collettiva. Dopo nove mesi di lotte, nel marzo 2012, gli operai ottengono il
riconoscimento del loro sindacato, il Maruti Suzuki Workers Union (Mswu). Non si
era visto un tale braccio di ferro dal movimento contro la precarizzazione del
2005 presso il produttore della due ruote Honda Hero. Tuttavia, poiché la
direzione disdegna sempre le rivendicazioni, la tensione si accresce il 18
luglio 2012 quando un caporeparto insulta un operaio facendo riferimento alla
sua appartenenza alla casta degli intoccabili e lo licenzia. Il conflitto
degenera. Avnish Kumar Dev, direttore generale delle risorse umane, trova la
morte nell’incendio di uno degli edifici. Sono arrestati centoquarantotto
operai, tra i quali i dodici rappresentanti del nuovo sindacato. Il mese
successivo, la direzione licenzia senza preavviso più della metà del personale
organico. «I lavoratori indiani non sono degli assassini, commenta l’esperto dei
movimenti operai Djallal Heuzé. Si ricorre alla violenza quando non ci si può
più esprimere altrimenti, quando il sentimento di ingiustizia è così forte che
tutto esplode.» A seguito della carcerazione dei dodici rappresentanti
sindacali, è stato costituito un comitato provvisorio per sostenerli e
proseguire il lavoro di sindacalismo autonomo. La direzione di Maruti-Suzuki ha
fatto delle concessioni. Ha risposto a molte rivendicazioni, predisponendo degli
autobus per gli interinali, aumentando i loro salari del 25% e quelli dei
lavoratori fissi del 75%. In particolare, ha annunciato l’abbandono progressivo
del lavoro interinale, sostituito dal ricorso a lavoratori occasionali assunti
direttamente dall’impresa. Questi operai usa e getta sono pagati un po’ meglio
degli interinali, con 12.000 rupie (140 euro) al mese, ma sono rimossi ogni sei
mesi e sostituiti da altri. Essi vengono da regioni più lontane, al fine di
evitare i contatti con le persone licenziate e la solidarietà con gli abitanti
dei villaggi. Nella primavera del 2013, la casa madre giapponese ha
riorganizzato la direzione indiana e imposto due dei suoi – un amministratore
aggiunto e un consigliere alle risorse umane. «In Giappone non ci sono stati
scioperi durante gli ultimi cinquantotto anni. L’idea è di importare i metodi
delle risorse umane del Giappone in India», rivela un dirigente nel giornale
economico Mint (4). Per Suzuki, la posta in gioco è
enorme: la multinazionale punta sull’Asia, e la fabbrica indiana è la più
redditizia delle sue filiali. Polmone economico della regione, indispensabile ai
subappaltatori che impiegano circa trentamila operai nei quartieri popolari e
nelle baraccopoli di Gurgaon, Maruti-Suzuki sa esercitare il suo potere presso
le autorità locali dello Stato dell’Haryana. Essa ha più volte brandito la
minaccia della delocalizzazione, evocando allettanti proposte da altri Stati
indiani. Allora il governo regionale ha usato il metodo forte. Unione sacra tra
giustizia, Stato e multinazionale Un migliaio di poliziotti inviati
dall’amministrazione locale sono appostati in modo permanente alla fabbrica di
Manesar e all’interno dei suoi pullman. Sono state installate nuove
video-camere. Fino a oggi, i centoquaranta operai, tutti accusati di omicidio,
non hanno ottenuto la libertà provvisoria, un diritto accordato di solito dopo
alcune settimane di carcerazione. «L’incidente ha compromesso la reputazione
dell’India nel mondo. Gli investitori stranieri temono di investire i loro
capitali in India per paura dell’agitazione operaia», si può leggere nel testo
della sentenza dell’Alta Corte del Punjab, dove è stato trasferito il processo.
Nonostante quest’unione sacra tra la giustizia, lo Stato e la multinazionale, la
gioventù operaia non abbandona la sua rivendicazione di organi rappresentativi
autonomi, indipendenti dalle confederazioni sindacali. Prima confederazione
fondata nel 1920, la All India Trade Union Congress (Aituc), legata al Partito
comunista indiano, è stata a lungo la più influente sulla zona industriale
Gurgaon-Manesar. «È molto istituzionalizzata e lontana dalla gente: i suoi
dirigenti sono dei notabili anglicizzati, formati a risolvere i conflitti
dinanzi ai tribunali», spiega Heuzé. Con la liberalizzazione dell’economia e
l’arrivo delle imprese straniere, i sindacati confederali si sono ripiegati
sulla funzione pubblica e su alcune imprese di Stato. Deboli nel settore
privato, essi rappresentano solo i lavoratori dipendenti, tralasciando gli
interinali che ormai costituiscono il grosso della mano d’opera. Dopo un
tentativo di affiliazione alla All India Trade Union Congress, «gli operai hanno
deciso di agire senza il suo avallo», spiega Nayan Jyoti, studente sindacalista
e membro dell’organizzazione Krantikari Naujawan Sabha. Hanno dato vita a
sessioni di autoformazione e a modalità decisionali proprie, per essere
rappresentati dai lavoratori della fabbrica piuttosto che da quadri esterni. Una
mobilitazione che paga: nell’aprile 2014, il sindacato indipendente Mswu è stato
eletto nelle due fabbriche, Manesar e Gurgaon.
note:
*
Giornalista.(1) Cifre dell’Organizzazione internazionale di
costruttori di veicoli a motore, www.oica.net.(2) Cfr. «Shramev Jayate: Modi govt plucks some
key low-hanging fruit for labour reforms», The Indian Express, New Delhi, 17
ottobre 2014.(3) R.
C. Barghava, con Seetha, The Maruti Story. How a Public Sector Company Put India
on Wheels, HarperCollins, New Delhi, 2010.(4) Amrit Raj, «Maruti Manesar’s Fallout: A
Management Shuffle», Mint, New Delhi, 9 aprile 2013. (Traduzione di Monica
Guidolin
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