In pratica dice: non rompete tanto il cazzo perché Al Sisi, il dittatore sanguinario amico di Renzi, deve combattere l’Isis, e l’ala radicale dei fratelli musulmani, quindi la Polizia egiziana non può andare troppo per il sottile!
Una servile ed agghiacciante giustificazione con la quale Romano, assolve Al Sisi con tutto quello che sta facendo in Egitto, comprese le migliaia di persone egiziane “scomparse”, proprio come Giulio Regeni.
Ma non meno grave il fatto che Sergio Romano, finga anche di ignorare che Giulio Regeni, come dimostra la sua collaborazione con il Manifesto, si occupava del risveglio delle lotte operaie in Egitto,
del sindacalismo ad esso legato, spesso in contrasto col vecchio sindacalismo conservatore.
La morte di Giulio Regeni è legata al risveglio delle lotte operaie in Egitto, alle rivolte egiziane nate nelle fabbriche. Un risveglio che potrebbe portare a galla interessi e schieramenti di classi contrapposte, una situazione ieri già antagonista ai salafiti e a Morsi, oggi al regime di Al Sisi, ma soprattutto fuori e/o a prescindere dagli schemi dell’Islam.
Riproporrei da un articolo del Sole 24 ore, (ripreso l’8 febbraio da Operai Contro), un estratto che sputtana Sergio Romano con la sua malafede. Saluti da un affezionato lettore.
(Tratto dal Sole 24 ore del 7 febbraio).
“ Ma quello che Giulio studiava è lì davanti a noi, non è sparito, ammesso che vogliamo ancora vederlo.
Ogni mattina all’alba, verso le tre e mezza, a Mahalla al-Kubra, nel Delta del Nilo, 400mila abitanti, 60 chilometri a nord del Cairo, si aprono i cancelli della più grande fabbrica tessile dell’Egitto. Ventimila operai, uomini e donne, che hanno tutti i volti del Paese, da quelli barbuti dei salafiti con la fronte segnata dalla preghiera, ai giovani con pantaloni e magliette all’ultima moda. Un orologio con un campanile costruito dai britannici scandisce i turni di una forza lavoro che un tempo era più del doppio di oggi.
Le rivolte egiziane sono cominciate qui, in questa Manchester del Delta, divisa in due dalla ferrovia, dove i sindacati hanno dato vita agli scioperi del 2008 e poi al Movimento Sei aprile fondato su Facebook da Ahmad Maher che il 25 gennaio 2011 si riversò in Piazza Tahrir a chiedere che Mubarak se ne andasse. Ai generali i sindacati non piacciono, ma non sono troppo graditi neppure agli islamisti: nella regione delle fabbriche aveva vinto il “no” alla Costituzione islamica di Mohammed Morsi e dei Fratelli Musulmani. Da queste parti la maggioranza dei voti nel 2012 era andata al cartello dei partiti socialisti e comunisti, non ai salafiti o al partito di Morsi.
La morte violenta di Giulio Regeni già ci insegna qualche cosa. C’è un Egitto che non si è arreso agli islamisti ma non si vuole arrendere neppure alle derive autoritarie del generale Abdel Fattah al-Sisi. Questo volto dell’Egitto è raccontato benissimo in un libro di Giuseppe Acconcia, inviato del Manifesto, il giornale cui collaborava Regeni. Eppure da noi l’Egitto che viene raccontato quotidianamente sembra essere soltanto quello legato alle notizie degli attentati sul Mar Rosso, importanti per il turismo e la sicurezza nel Sinai, minacciata dai jihadisti, ma c’è anche un altro Egitto che non è lì soltanto per servire un calda vacanza a basso prezzo”.
Questo sotto l’articolo di Sergio Romano sul Corriere della Sera del 13 febbraio
Le domande al Cairo sul caso di Giulio Regeni.
Non sapremo mai con esattezza che cosa sia realmente accaduto al giovane Giulio Regeni quando è stato fermato dalla polizia egiziana il 25 gennaio. Il governo del Cairo continuerà a dichiararsi addolorato per la tragica morte di un cittadino italiano e prometterà che le indagini saranno indipendenti e scrupolose. Ma se le cose sono andate come è lecito supporre, il nome dei veri responsabili rimarrà un segreto di Stato e le circostanze della morte difficilmente ricostruibili. Nella prospettiva del Cairo la riparazione di un atto ingiusto e crudele è molto meno importante, in questo momento, della efficacia del dispositivo di sicurezza con cui il Paese si difende dai jihadisti dell’Isis e dalla fazione radicale della Fratellanza musulmano. E sappiamo che non vi è purtroppo un forte sistema di sicurezza, in un Paese minacciato dal terrorismo islamista, se il governo non lascia ai suoi servizi di polizia un certo margine di libertà. Possiamo indubbiamente deplorare i mezzi con cui il maresciallo Al Sisi ha conquistato il potere e la brutalità con cui impedisce alla stampa di fare il suo lavoro. Ma dubito che un governo straniero possa persuaderlo, in questo momento, a modificare i suoi metodi.
Che cosa sarebbe successo se avessimo preteso di spiegare al governo britannico quali erano i metodi accettabili per la lotta contro il terrorismo dell’Ira (Irish Republican Army). Che cosa sarebbe successo se le democrazie europee, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, avessero detto al governo americano che i metodi della Cia erano intollerabili, che Guantanamo era un orrendo lager, che non era giusto rapire un imam nelle strade di una delle nostre città per trasferirlo in un Paese (spesso, guarda caso, l’Egitto) dove sarebbe stato torturato? È probabile che in quel momento e in quelle circostanze la risposta britannica e quella americana sarebbero state meno educate di quella ipocrita, ma cortese, con cui il Cairo reagisce alle nostre sollecitazioni.
Resta naturalmente la misura a cui i governi ricorrono quando vogliono dimostrare rabbia e sdegno per il comportamento di uno Stato straniero: l’interruzione dei rapporti diplomatici. Ma una tale via d’uscita non avrebbe altro risultato fuor che quello di privarci dei nostri abituali contatti con uno dei maggiori protagonisti dalla regione. Saremmo meno informati su ciò che accade in Medio Oriente e perderemmo il capitale di amicizia che l’Italia ha costruito con quel Paese nel corso degli anni.
Occorre riconoscere che siamo in una situazione difficile e imbarazzante. Non possiamo restare indifferenti di fronte a ciò è accaduto in una via del Cairo qualche giorno fa. Ma non possiamo neppure dimenticare che l’Egitto sta combattendo contro un mostro responsabile, tra l’altro della distruzione di un aereo russo pieno di turisti nel cielo di Sharm el Sheikh il 31 ottobre dell’anno scorso e dei massacri di Parigi nello scorso novembre, che si sta difendendo da una organizzazione terroristica che considera Roma uno suoi prossimi obiettivi. Piaccia o no, l’Egitto, in questo momento, è un alleato, non un nemico. Questo non significa che i metodi del governo egiziano debbano essere necessariamente condonati. Oggi più che mai abbiamo il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra, sia pure contro il peggiore e il più crudele dei nemici, senza il sostegno dalla pubblica opinione. È una legge democratica a cui neppure l’Egitto può sottrarsi.
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