Possiamo dire che la questione Ilva è esemplare a livello nazionale, e internazionale, anche perchè è la dimostrazione di come il capitale si incarti da sè stesso e crei contraddizioni irrisolvibili, che solo l'eliminazione da parte dei proletari del suo sistema, può sciogliere.
Gli Usa non volevano che l'Ilva di Taranto chiudesse per frenare la concorrenza sui mercati mondiali della Cina e della Russia (VEDI NOTA 1); ora, però, l'Ilva per non chiudere deve far entrare anche la Cina tra i nuovi acquirenti.
Anche da parte dell'Italia, la contraddizione è evidente: da un lato il governo, tramite il Ministro Guidi si è fatto copromotore della manifestazione a Bruxelles (di cui parliamo in altro articolo) per chiedere più tutele per l'industria dell'acciaio europeo contro la concorrenza cinese; dall'altro si fa venire in casa la Cina, che si vuole prendere l'Ilva non per sostenere la produzione italiana, ma per fare dell'Ilva una postazione verso i mercati dell'Africa e del Medio Oriente dove vendere la sua sovrapproduzione.
Questa contraddizione è amplificata a livello europeo (e mondiale). Anche qui la recessione, provocata dalle stesse leggi interne del capitale e dalla concorrenza tra imperialismi, è conseguente alla sovrapproduzione di acciaio.
Alcuni dati parlano di un calo nel 2015 della produzione mondiale dell'acciaio del 2,8%. Gli Usa anche in questo sono all'avanguardia, nel 2015 hanno avuto un calo di produzione superiore al 10%, in parte legato alla frenata dell'industria petrolifera; segue poi la Cina - con un calo nel 2015 del 2,3% - che resta comunque il paese che produce circa la metà dell'acciaio mondiale e che ora ha "una sovracapacità di 400 milioni di tonnellate, più del doppio della produzione complessiva della UE, che si aggira intorno ai 170 milioni di tonnellate" (da Sole 24 Ore). L'Italia ha avuto un calo del 7,1% (pari a 22 milioni di tonnellate).
E' da tempo che i padroni dell'acciaio europeo lamentano la crisi da sovracapacità produttiva (VEDI NOTA 2). E ora Italia, Germania, Francia, Inghilterra, Belgio, Lussemburgo e Polonia, chiedono a gran voce di prendere "misure forti e veloci antidumping" anche solo - come chiede l'Italia - sulla base del "danno annunciato" e di impedire che alla Cina venga riconosciuto lo status di economia di
mercato, che significherebbe garantire la libertà di mercato e quindi non poter più mettere freni all'ingresso dei prodotti cinesi a prezzi stracciati, al fine di garantire la competitività delle imprese italiane ed europee. Gli Stati Uniti, chiaramente, spingono l’Unione europea a non ratificare tale status.
Vale a dire "in termini poveri", ma sostanziali, che i capitalisti europei già in concorrenza tra di loro, non vogliono che il grande capitalista cinese ora scompagini i loro piani (di "concorrenza leale" come dice la responsabile del commercio Cecilia Malmstrom), una lotta di padroni contro il padrone più grande.
C'è da dire, però, che anche l'unità dei paesi imperialisti europei su questo fronte è traballante. E si aprono evidenti contraddizioni.
Per esempio La Merkel e l'Inghilterra poi non sono così contrarie: "All’Europa servono gli investimenti cinesi, mai come in un momento come
l’attuale, in cui il piano Juncker da 300 miliardi fatica a decollare, e
serve anche avere meno ostacoli alla possibilità che proprie imprese
investano in Cina, ma vi sono molti timori che un “disarmo unilaterale”
dalle tariffe antidumping possa spazzare via interi settori
dell’economia europea, nel momento in cui la Cina avrà mano libera nel
proprio export verso il nostro continente".
Per cui, dietro l'apparente unità di intenti dei paesi europei, poi è la legge generale del capitale che ha la meglio, e le contraddizioni/contrasti tra i capitalisti sono la costante.
Mentre dicono NO alla presenza massiccia della Cina, nello stesso tempo i paesi europei competono
tutti per assicurarsi gli ingenti investimenti cinesi. "Londra si è assicurata il privilegio di divenire la prima
piattaforma commerciale in yuan favorendo l’internazionalizzazione della
moneta cinese... Quanto alla
Germania, si tratta della più importante partnership cinese in Europa. I
due paesi hanno sviluppato relazioni rilevanti in settori come
automobili, trasporti, energia... Parigi ha
i rapporti postcoloniali di cui la Cina ha bisogno in Africa...".
E l'Italia, come abbiamo visto, non è da meno.
NOTE:
1) Nel 2012 in piena esplosione della vicenda Ilva di Taranto, il New York Times, il giornale degli Usa più autorevole nel mondo dedicò due lunghi servizi al caso Ilva, in cui venivano espresse preoccupazioni per le ripercussioni sull’economia degli Usa.
Il New York Times del 2 dicembre scrisse: “Un aiuto per uno stabilimento siderurgico italiano in difficoltà”. In caso contrario, “l’economia avrebbe subito perdite di 10,4 miliardi di dollari l’anno se l’impianto fosse stato chiuso”.
Ma soprattutto, nell’articolo si esprimeva l’allarme rispetto ad una ipotesi di chiusura dell’Ilva di Taranto. Dato che "il collasso di uno stabilimento di tali dimensioni può aprire in prospettiva le porte agli acciai prodotti in nazioni non propriamente amiche degli Usa (Cina o Russia)".
Questa attenzione interessata degli Usa verso le sorti dell'Ilva di Taranto era emersa anche in un altro articolo del 28 novembre 2012, in cui si commentava con altrettanta preoccupazione l’occupazione dello stabilimento e in particolare l’invasione degli Uffici della Direzione fatta il 27 novembre, e si scriveva: “Migliaia di lavoratori hanno preso d’assalto i cancelli sbarrati della più grande fabbrica siderurgica d’Europa”. (articolo completo nel libro "Ilva la tempesta perfetta")
2) Per Marx la radice ultima delle crisi consiste nella contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Il modo di produzione capitalistico da un lato tende verso il massimo sviluppo delle forze produttive. D'altro lato, i rapporti di produzione e di proprietà che lo contraddistinguono (ossia il lavoro salariato, l'appropriazione privata della ricchezza prodotta, e l'orientamento della produzione al profitto anzichè al soddisfacimento dei bisogni sociali) inceppano periodicamente lo sviluppo delle stesse forze produttive, creando sovrapproduzione di capitale (un accumulo di capitale che non riesce a trovare adeguata valorizzazione) e sovrapproduzione di merci (un accumulo di merci che non riescono ad essere vendute a un prezzo tale da remunerare adeguatamente il capitatale impiegato per produrle).
(ndr) Per il capitale la produzione ha come solo e unico scopo il plusvalore e quindi il profitto, non gli interessa il soddisfacimento dei bisogni sociali...
Chiaramente parliamo di sovrapproduzione relativa di merci, perchè esse non sono affatto sovrabbondanti rispetto ai bisogni sociali, ma lo sono rispetto alla remunerazione del capitale investito. Per il capitale questa è la crisi, non nel senso che non può più produrre e/o non può più vendere, ma nel senso che quanto può realizzare dal capitale investito e dalla vendita delle merci non è per lui conveniente per mantenere e anche aumentare i suoi profitti...
Scrive Marx: “non vengono prodotti troppi mezzi di sussistenza in rapporto alla popolazione esistente. Al contrario. Se ne producono troppo pochi per soddisfare in modo decente e umano la massa della popolazione” Il punto è un altro: “vengono prodotte troppe merci per potere, nelle condizioni di distribuzione e nei rapporti di consumo peculiari della produzione capitalistica, realizzare il valore e plusvalore in esse contenuti e riconvertirli in nuovo capitale”...
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