domenica 23 dicembre 2018

pc 23 dicembre - 34 anni fa la strage del rapido 904. Nessuna verità o forse troppe, ma sappiamo chi è Stato



Il 23 Dicembre del 1984, 34 anni fa, un nuovo attentato, nei pressi del punto in cui poco più di dieci anni prima, nell’estate del 1974, la cellula neofascista di Mario Tuti compì la famosa “strage dell’Italicus”, una carica di esplosivo radiocomandata distrusse la 9ª carrozza di II° classe del Rapido n. 904 proveniente da Napoli e diretto a Milano. Al contrario del caso dell’Italicus, l’esplosione, avvenuta all’interno della grande galleria dell’Appennino, in Loc. Vernio, nei pressi di San Benedetto Val di Sambro (BO), provocò un violento spostamento d’aria, che frantumò tutti i finestrini e le porte, causando 17 morti e 267 feriti.
L’ordigno si trovava all’interno di una valigia, caricata a Firenze e posta su una griglia portabagagli del corridoio della stessa carrozza, a centro convoglio. Questo attentato è stato indicato dalla “Commissione Parlamentare Stragi” come l’inizio dell’epoca della “guerra di mafia” dei primi anni novanta del XX° secolo.
Dalle successive indagini e dai molti processi, vennero a galla diverse linee di collegamento tra mafia, camorra napoletana, gli ambienti del terrorismo neofascista, la Loggia P2, e persino con la “Banda della Magliana”: questi rapporti vennero chiariti da diversi personaggi vicini a questi ambienti, tra cui Cristiano e Valerio Fioravanti, Massimo Carminati e Walter Sordi. Le deposizioni che spiegavano i legami tra questi diversi ambienti della criminalità emersero anche al maxiprocesso dell’8 novembre 1985, di fronte al giudice istruttore Giovanni Falcone.
Per la “Strage di Natale”, come fu definita in seguito, sono stati condannati, con sentenza divenuta definitiva nel 1992, l’ex capo della famiglia mafiosa di Porta Nuova, Pippo Calò, Guido Cercola (suicida in carcere nel 2005), Franco Di Agostino e Friedrich Schaudinn, esperto di elettronica e artefice del congegno che fece esplodere la bomba mentre il treno correva in galleria.
Il 18 Febbraio 1994 la Corte di Assise di Appello di Firenze concluse il giudizio anche per il parlamentare dell’MSI, il noto fascista Massimo Abbatangelo, il quale, assolto dal reato di strage, venne condannato a sei anni di reclusione per aver consegnato dell’esplosivo a Giuseppe Misso nella primavera del 1984. Le famiglie delle vittime fecero ricorso in Cassazione contro quest’ultima sentenza, ma persero e dovettero rifondere perfino le spese processuali. “Nella sentenza non c’è scritto mafia”, questa la motivazione addotta dal “Comitato di solidarietà per le vittime dei reati mafiosi” per respingere le richieste dell’”Associazione Feriti e Familiari delle Vittime della Strage sul Treno 904 del 23 Dicembre 1984″.
Il 27 Aprile 2011 la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli emise un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti del boss mafioso Totò Riina ritenuto il mandante della strage, sulla base di dichiarazioni di nuovi pentiti, tra i quali Giovanni Brusca.
Il quadro emerso nelle varie indagini, in cui elementi provenienti dall’eversione nera si sono rivelati come legati a doppio filo alla manovalanza mafiosa e camorristica, viene giustamente inserito in quel progetto destabilizzante riconducibile alla cosiddetta “strategia della tensione”, senza però riuscire mai ad individuare un più ampio ambito di responsabilità, e senza chiarirne in alcun modo il disegno criminale complessivo e a quali “eventuali” funzionalità più grandi le stragi sono collocate. La cosa certa, dalla Strage del 12 Dicembre ’69 (Piazza Fontana a Milano) in poi, è che si lavorò ad accreditare la sciagurata tesi degli “opposti estremismi”, cercando di accreditare anche compagni della “estrema sinistra” come possibili autori di “fatti di sangue” indirizzati a “colpire nel mucchio”, per spingere così “l’opinione pubblica” verso le forze politiche del cosiddetto “arco costituzionale”, in primis la D.C., tese a difendere la “convivenza civile”.
Il lavoro della Commissione Parlamentare Stragi, all’epoca presieduta dal Senatore Gualtieri, nel 1994 aveva puntato il dito sulla “distrazione e assenza” dei servizi segreti italiani, Sismi e Sisde, che avrebbero dovuto cogliere e segnalare ogni attività di tipo terroristico; inoltre aveva evidenziato atti e dichiarazioni compiuti allo “scopo di turbare e condizionare lo svolgimento della vita democratica del Paese”, mettendo in luce un’opera sistematica di disinformazione, che si è avvalsa di un supporto informativo e logistico che va certamente oltre il semplice supporto criminale. Insomma, hanno accertato che il disegno, volto a generare terrore, “c’è sicuramente stato”, ma ciò è stato funzionale a condizionare la libera espressione politica “dei cittadini”, usando sangue di malcapitati, e questo è un filo rosso che unisce stragi e/o uccisioni irrisolte nel nostro Paese.
I molti episodi stragisti negli anni ’70 (Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, Italicus) e ’80 (Stazione di Bologna e Rapido 904), per arrivare all’omicidio dei cronisti Alpi e Hrovatin, comprendendo le stragi di Capaci, Via D’Amelio, di Roma, Milano e Firenze, videro, molto probabilmente tutte, un incontro criminale e silenzioso di strutture parallele e segrete, il cui comune interesse era quello di mantenere “la particolarità italiana” ancorata ad interessi specifici.
Molti documenti relativi agli atti dell’organizzazione Gladio (organizzazione della quale il cugino di Berlinguer, Senatore Francesco Cossiga, se ne attribuì, addirittura, direttamente la paternità, affermandone la “legittimità”) continuano a rimanere in gran parte coperti dal segreto, chiusi negli archivi di Forte Braschi, tutelati dalle bocche cucite dei militari che condussero l’operazione “stay-behind”, promossa dalla NATO, per alcuni decenni, tenendo all’oscuro lo stesso Parlamento.
Il senatore Giovanni Pellegrino, altro presidente della Commissione stragi, spiegò in un libro intervista (“Segreto di Stato, la verità da Gladio al caso Moro”, scritto con Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri, per le Edizioni Einaudi) che la stessa Commissione non ravvisò alcun elemento per provare responsabilità di Gladio nella strategia della tensione; tuttavia, vi si legge: “….non vorrei violare segreti istruttori, tuttavia posso dire che da un’indagine giudiziaria sta emergendo un’ipotesi clamorosa: cioè che quando Andreotti parlò per la prima volta di Gladio volesse in realtà gettare in qualche modo un osso all’opinione pubblica per coprire qualcosa di più segreto, di più occulto e probabilmente anche di più antico rispetto a Gladio”.
Questa storia di sangue è (stata?) troppo lunga e piena di “lati oscuri”; il riferimento ad “una struttura sovranazionale e al di sopra delle parti” ricorre incessantemente nella lettura che investigatori, storici o inchieste giornalistiche hanno dato nell’approfondire questi avvenimenti.
Le prime dichiarazioni in proposito erano state pubblicate dall’Europeo il 17 ottobre 1974, con l’intervista a Roberto Cavallaro, arrestato per cospirazione politica su ordine di cattura della Procura di Padova: “…L’organizzazione esiste di per sé in una struttura legittima, con lo scopo di impedire turbative alle istituzioni. Quando queste turbative si diffondono nel Paese (disordini, tensioni sindacali, violenze e così via) l’organizzazione si mette in moto per cercare di ristabilire l’ordine. E’ successo questo: che, se le turbative non si verificavano, venivano create ad arte dall’organizzazione attraverso tutti gli organi di estrema destra (ma guardi che ce ne sono altri di “estrema sinistra”…)”. Sentito dal giudice Tamburino, Cavallaro ripeterà le stesse considerazioni, specificando che, ai vertici dell’organizzazione, vi erano “i servizi segreti italiani ed americani, ma anche alcune potenti società multinazionali…”.
Si trattò di rivelazioni prorompenti che, seppur prese con le pinze, indussero il giudice a chiederne conto al Tenente colonnello Amos Spiazzi, che, per la sua lunga permanenza all’ufficio “I” (Informazioni) del Sid (Servizio Informazioni Difesa), non poteva essere all’oscuro dell’esistenza di un eventuale Sid parallelo o Supersid: “… Ricevetti ordini dal mio superiore militare, appartenente all’Organizzazione di sicurezza delle Forze armate, che non ha finalità eversive ma che si propone di difendere le istituzioni contro il marxismo”.
Una celebre citazione dello scrittore Hans Enzensberger dice : “… il segreto di Stato è diventato uno strumento di dominio di prim’ordine (…). Il numero dei segreti di Stato che uno conosce diventa la misura del suo rango e dei suoi privilegi in una gerarchia sottilmente graduata. La massa dei dominati è senza segreti: non ha, cioè, nessun diritto di partecipare al potere, di criticarlo e di sorvegliarlo”. E’ la sintesi dell’essenza politica della democrazia capitalistica.
Per la sentenza che ha messo fine a questo lungo processo, nella decisione, organizzazione ed esecuzione della strage "non può escludersi che abbia trovato coagulo un coacervo di interessi convergenti di diversa natura". Per i giudici nessuno dei pentiti "ha avuto conoscenza che la strage fosse riconducibile a un mandato, istigazione o consenso di Riina".
Nella sentenza giudici ricordano che per la strage sono già stati condannati il cassiere della mafia, Pippo Calò, i suoi collaboratori Guido Cercola e Francesco Di Agostino, e un artificiere tedesco, Friedrich Schaudinn. Per la detenzione di esplosivo sono stati invece condannati l'ex parlamentare del Msi Massimo Abbatangelo e quattro camorristi: Giuseppe Missi, Giulio Pirozzi, Alfonso Galeota e Lucio Luongo.
 "Missi vantava spiccate simpatie neofasciste e coltivava progetti politico eversivi - scrivono i giudici - mentre i legami con esponenti della banda della Magliana già ponevano Calò come tramite tra il potere mafioso ed ambienti eversivi di destra". Quindi secondo i giudici Calò, considerato il maggiore responsabile della strage, intratteneva con un certo grado di autonomia delle relazioni collaterali alla mafia e questo, concludono i giudici, avvalora il dubbio che per la strage del Rapido 904 "non abbia avuto la necessità di avere impulso, autorizzazione o consenso di Riina".
Un’altra strage senza mandanti quindi?
Affatto, i mandanti li conosciamo eccome, come pure gli esecutori. C’era uno slogan che si gridava sempre in quegli anni e che oggi dovremmo sparare in faccia ai populisti: “le stragi nelle piazze, le bombe sui vagoni le hanno messe i fascisti e pagate i padroni”. E il loro grado di mafiosità si misura con la loro impunità,  con la loro internità allo Stato, alle istituzioni, al potere politico ed economico.



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