Il 6 luglio 1968, prima protesta di massa organizzata dai detenuti del carcere milanese di San Vittore. L’obiettivo
era, quanto mai legale, pretendere dal ministero il rispetto di una
sentenza della Corte Costituzionale che definiva illegittima l’inchiesta
giudiziaria svolta senza l’assistenza di un difensore per l’imputato. I detenuti pretendevano inoltre l’approvazione di nuovi codici e regolamenti in sostituzione del codice Rocco
(1931) di epoca fascista, ancora in vigore. Quanta fretta!,
commentavano borghesi, burocrati e giornalisti, sono passati appena 20
anni, e poi se quei codici hanno funzionato nel periodo fascista, perché
cambiarli? In fondo il carcere persegue sempre lo stesso scopo:
annientare, distruggere l’identità della persona detenuta, renderla
sottomessa. Qualche “raro”
democratico faceva notare che la Costituzione diceva cose diverse sul sistema sanzionatorio. La Costituzione non utilizza mai la parola “carcere”, intendendo che la “sanzione” deve essere un percorso più vicino possibile alla società, non separato e ghettizzato come il carcere, ma al contrario interno e relazionante per consentire il reinserimento. Quante sottigliezze, commentavano borghesi, burocrati e giornalisti, intanto facciamo capire ai “delinquenti” che loro non possono “pretendere”, né rivendicare, devono aspettare, pazientemente. che concederemo loro qualcosa. E non devono protestare.
democratico faceva notare che la Costituzione diceva cose diverse sul sistema sanzionatorio. La Costituzione non utilizza mai la parola “carcere”, intendendo che la “sanzione” deve essere un percorso più vicino possibile alla società, non separato e ghettizzato come il carcere, ma al contrario interno e relazionante per consentire il reinserimento. Quante sottigliezze, commentavano borghesi, burocrati e giornalisti, intanto facciamo capire ai “delinquenti” che loro non possono “pretendere”, né rivendicare, devono aspettare, pazientemente. che concederemo loro qualcosa. E non devono protestare.
Difatti la repressione fu brutale: oltre 4.000 poliziotti, elicotteri
per bombardarli dall’alto col gas. Teste e ossa rotte. Isolamento e
letto di contenzione per i più attivi.
Ma qualche giorno dopo, il 16 luglio il movimento studentesco milanese raccolse l’invito dei detenuti a solidarizzare e circondò letteralmente il carcere di San Vittore.
La rivolta si propagò ovunque:
«Tot promesse, tot rivolte»
La rivolta in carcere ha unificato il paese. Crollati i luoghi comuni
sulle specificità territoriali del carcere, spazzate via le presunte
«differenze culturali», ora la lotta è una sola, un unico obiettivo da
raggiungere: cambiare radicalmente il carcere, fino alla sua
distruzione. Un solo nemico, il governo e l’apparato statale che usano
un solo linguaggio: la repressione. La nostra risposta: la rivolta. Il
15 aprile 1969 un telegramma del Ministro di Giustizia, Antonio Gava,
indirizzato agli ispettorati perché lo inoltrino alle direzioni delle
carceri, disponeva «assoluto divieto rilascio qualsiasi dichiarazione
stampa et ogni altro organo informazione da parte personale civile et
militare dipendente questa amministrazione». Il governo sceglie quindi
ancora una volta la linea dell’isolamento della protesta, ignorandone i
motivi. Una settimana dopo la Direzione Generale Degli Istituti
Prevenzione e Pena comunicava per telefono all’ispettorato distrettuale
di Firenze che «i parlamentari non possono indagare in merito ai recenti
episodi di indisciplina». Qualora si fossero presentati all’ingresso
delle carceri sarebbero stati «ricevuti coi riguardi dovuti al loro
altissimo rango ma avrebbero avuto diritto solo ai chiarimenti che non
riguardano le attuali agitazioni nelle carceri»
[Christian G. De Vito, Camosci e girachiavi, 2009]
Il «Corriere della Sera» del 7 luglio 1968: La contestazione è entrata a San Vittore:
Tutto ha avuto inizio alle 15.00 al termine della consueta ora
d’«aria». Gruppi di detenuti sparsi nei diversi raggi si sono rifiutati
di lasciare il cortile; il loro atteggiamento ostinato e provocatorio si
è trasmesso in breve tra i compagni come un fulmineo contagio. […] Il
direttore del carcere […] ha cercato quale fosse il motivo della
protesta. Ed è venuto a sapere
che i detenuti intendevano chiedere l’approvazione dei nuovi codici,
con l’assistenza dell’avvocato difensore nella prima fase dell’indagine
giudiziaria. Si ripeteva in sostanza l’agitazione già avvenuta alle
«Nuove» di Torino mercoledì scorso; anche in quel carcere i detenuti
invocavano la riforma dei codici.
Così «l’Unità» del 7 luglio 1968:
«Basta con le chiacchiere, fuori i codici!» era scritto oggi
pomeriggio alle 16.30 su un grosso cartello issato in uno dei cortili
maggiori del carcere San Vittore.
Per tutto un periodo della protesta nelle carceri «l’Unità» e i
giornali della sinistra istituzionale si pongono a metà strada:
d’accordo con i contenuti riformatori della lotta, ma… Da «l’Unità» dell’8 luglio:
“Vi sono compresi alcuni pericolosi pregiudicati, ma ciò non toglie nulla alla validità della protesta” .
Verso le nove di sera polizia e carabinieri sgomberavano i passeggi
dopo un pestaggio durissimo che procurava 13 feriti. I rivoltosi
trasferiti nelle carceri di punizione: Volterra, San Gimignano, Porto
Azzurro, Alghero, Lecce.
1969, si replica:
Sabato 12 aprile, Milano, S. Vittore. Il Procuratore della
repubblica incontra i rappresentanti dei detenuti. Nei giorni
precedenti, per due volte i detenuti non erano entrati in cella dopo
l’aria. Si protesta contro i buglioli, le bocche di lupo, si vuole l’abolizione del letto di contenzione, quella
tremenda tortura chiamata del «balilla» e la riforma del codice penale
fascista; si denuncia l’uso arbitrario della carcerazione preventiva, e
della censura della posta. La protesta è pacifica. Lunedì 14. La notizia
della rivolta del carcere Le Nuove di Torino si propaga al carcere Marassi di Genova,
Alle 16.30 tutto il carcere in rivolta è in mano ai detenuti. Se fino
ad allora sulle proteste in carcere il potere aveva imposto il silenzio
censorio, ora la tv le racconta. È uno spettacolo di immagini
rassicuranti, per i benpensanti.
Polizia e carabinieri schierati con i fucili alla mano intorno alle
mura del carcere. Le famiglie italiane possono stare tranquille, lo
Stato sa difenderle da questa teppaglia. Si vedono in alto negli
schermi, attaccati ai finestroni questi teppisti urlano, vogliono far
sentire le loro ragioni. Le inquadrature televisive li mostrano come
animali, eppure chi ha orecchie attente per ascoltare quelle urla
riferisce che quelle rivolte sono il più grande servigio reso dal 1946
al riscatto della Costituzione repubblicana schiacciata sotto il
fardello lugubre dei codici fascisti. La teppaglia se ne è fatta carico,
poiché la «brava gente» aveva altro da fare, arricchirsi e
sottomettersi, e il ceto politico democristiano ci sguazza nei codici
fascisti. Il ringraziamento non si fa attendere, prende la forma di 2000
armati, polizia e carabinieri che entrano in carcere. Tegole,
calcinacci e suppellettili da una parte; raffiche di mitra e bombe
lacrimogene dall’altra. Dopo quindici ore di battaglia San Vittore è
tutto un incendio. Un centinaio i feriti gravi tra cui una trentina di
agenti. Le guardie carcerarie prese in ostaggio vengono rilasciate sane e
salve.
Alle sette del mattino San Vittore si arrende, per
ora. I detenuti con le mani in alto contro il muro, poi incatenati l’uno
all’altro e, accompagnati da pugni, calci, manganellate, cinghiate e
catenate, trasferiti alle carceri di punizione. Dopo una notte eccitata
trascorsa a guardare le dure immagini della battaglia, i benpensanti
possono rilassarsi. I nostri, nelle vesti della celere
proveniente da Padova, Gorizia, Bolzano, Bologna hanno ripristinato
l’ordine. Eppure, chi si fosse attardato a vedere le scene del
trasferimento, della deportazione di quei corpi maciullati non avrebbe
visto una congrega di piagnucolosi sottomessi, su quei volti non c’era
ombra di sconfitta. Salutano festosi e urlano ancora slogan, alcuni
levano in alto il pugno chiuso, per quanto glielo consente la catena di
acciaio. Sono promesse di un nuovo inizio!!!
[Irene Invernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, 1973]
L’Italia repubblicana e presunta democratica continuava ad avere un
atteggiamento fascista verso la detenzione, ma non è servito mettere la
testa sotto la sabbia. I direttori delle carceri bombardavano il
Ministero: la tensione era insostenibile. I trasferimenti punitivi, dopo
ogni rivolta, portavano in giro per il paese, oltre alle sofferenze, i
motivi della proteste e la conoscenza dell’organizzazione dentro le
galere. In silenzio, il governo dovette cedere. Nel maggio ’69 una
circolare dispose la costituzione in ogni istituto di una rappresentanza
di detenuti per il controllo del vitto (non eleggibile ma estratta a
sorte). Comunque uno strumento importante per permettere ai detenuti dei
diversi reparti e bracci di comunicare tra loro. Con circolari
successive venne disposto anche un miglioramento del vitto. Poi con
l’anno nuovo il governo consentiva la circolazione della stampa politica
e delle varie associazioni (fino ad allora vietata).
Il detenuto Aldo Trevini, che fu testimone a un pestaggio avvenuto a
Rebibbia, ha denunciato alla magistratura di essere stato legato a un letto di contenzione
dopo essersi rifiutato di firmare la rinuncia a comparire al processo,
poi trasferito nel manicomio di Aversa per «incapacità di intendere e
volere». Aprile 1973.
Motivi per protestare e ribellarsi in carcere ve ne sono a iosa. Ma c’è un motivo superiore a ogni altra rivendicazione: è il non riappacificarsi mai col carcere. Il prigioniero per conservarsi umano deve coltivare tutti i giorni, in cui è costretto in quella gabbia, lo stesso disprezzo, lo stesso odio
che ha provato nei primi momenti in cui vi è stato gettato. Se il
detenuto fa pace col carcere il sistema punitivo gli entra dentro e lui
diventa carceriere di se stesso. Molti carcerati cercano e
trovano ogni occasione per scontrarsi con le guardie, è un mezzo per
verificare e confermare la propria identità opposta al sistema carcere.
Non importa quale sia il motivo: è un esercizio a mantenersi vivi.
Essere in guerra permanente col carcere è la garanzia che il carcere non
ti uccida dentro. Non chiedete mai quali ragioni hanno spinto uno o più
detenuti a un atto di ribellione individuale o a una rivolta
collettiva. Se lo chiedete non conoscete affatto la galera. Il motivo di
una ribellione, di una rivolta, è sempre, in primo luogo, l’esistenza
stessa del carcere. Lo stesso ragionamento dovrebbe valere per
ciascun sistema di potere: Stato, lavoro, famiglia, chiesa, coppia,
scuola ecc., queste «istituzioni totali» se non le contrasti giorno per
giorno ti entrano dentro, ti catturano e tu diventi parte di esse;
schiavizzata/o.
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