Pubblichiamo questo lungo intervento di ex lavoratrici del call center Atesia (poi Almaviva) organizzati a suo tempo come Collettivo Precariatesia (oggi "Assemblea per l'autorganizzazione" di Roma), che nel 2005 portò avanti per molto tempo una grande lotta che riuscì a strappare nel più grosso call center la trasformazione dei contratti co.co.co in contratti di lavoro subordinati.
Lo pubblichiamo, al di là che non proprio tutto condividiamo, soprattutto i toni e il metodo dell'intervento/bilancio post - noi siamo per intervenire in corso d'opera -, perchè riteniamo che sia necessaria una riflessione, prima di tutto degli stessi lavoratori più coscienti di Almaviva, sulla lotta che si è portata avanti finora, sui risultati dell'accordo negativo, delle posizioni e contraddizioni emerse, ecc.
Questo perchè la lotta e tutta la vicenda devono rimanere, per forza, aperte, e quindi devono evidentemente andare più avanti, soprattutto sciogliendo questioni come l'indipendenza dalla linea perdente dei sindacati confederali, l'affermazione nella lotta, tra i lavoratori di una posizione di classe, contro rischi anche tra i lavoratori di aziendalismo e/o corporativismo, e altro.
Nei prossimi giorni pubblicheremo anche stralci di nostri comunicati usciti nel corso della lotta, in cui affrontavamo anche ad alcune di queste questioni.
Da ex del Collettivo precariatesia - Oggi Assemblea per l'autorganizzazione
L'hastag noi siamo Almaviva è salito
agli onori della cronaca in quanto utilizzato per difendere
migliaia di posti di lavoro, in
riferimento all'annuncio dei licenziamenti da parte di Almaviva
stessa.
Ricordiamo infatti che il 31 Maggio
scadevano i contratti di solidarietà e la società dichiarava di non
riuscire più a mantenere il livello occupazionale date le condizioni
del settore dei call center. Ampio spazio su mass-media mainstream è
stato dato alla notizia. Da una parte potrebbe sembrare normale dato
che si parlava di migliaia licenziamenti a livello nazionale, in
particolare a Palermo, Roma e Napoli. Diciamo subito che ovviamente
per noi nessuna/o debba perdere il salario per gli interessi
padronali e che quindi i licenziamenti vanno sempre respinti.
Partendo da qui possiamo provare ad analizzare quello che è successo
e che succede.
La vicenda, per ora, è finita con un
pessimo accordo. Peggiore di quello che era stato respinto tramite
un
referendum da lavoratrici/tori. L’unica cosa relativamente positiva
dell’accordo sono 6 mesi di tempo. Forse bisognerebbe sfruttarli
per prepararsi al meglio al momento in cui scadranno i contratti di
solidarietà.
Quello che ci ha colpito è lo spazio
dato e come se ne sia parlato e di cosa invece non si sia parlato. A
marzo prima pagina di Repubblica online e servizi su trasmissioni Rai
per un primo sciopero a Roma “strano” ed un blocco di una strada
periferica, dove passa una macchina ogni mezzora.
A Napoli abbiamo visto manifestazioni
con bandiere di quei sindacati confederali che hanno firmato sempre
accordi al ribasso, condividendo sempre le premesse degli accordi
aziendali, che riconoscendo le difficoltà per l'impresa sono poi
utilizzate per giustificare continui peggioramenti delle condizioni
lavorative. Ci viene il sospetto che non essendo la lotta ad aver
imposto la notizia, e sappiamo che quando le lotte sono determinate
non godono di ottima stampa, forse sono altri i motivi della
visibilità. Forse agitando l'allarme sociale per le migliaia di
licenziamenti (che è reale, ci mancherebbe) si vuole fare pressione
per ottenere “aiuti”. Una conferma ci viene dal fatto che le
parole d'ordine sono quelle di Tripi e degli altri padroni del
vaporetto. Il problema è la concorrenza sleale, la delocalizzazione
e non certo quelli che partono dalle reali esigenze di chi lavora.
Neanche si è fatto un ragionamento “dal basso” sul futuro dei
call-center anche rispetto alle tecnologie o più semplicemente
quanto sia nocivo lavorare in un call-center. No, ci si vantava della
professionalità e dei sacrifici fatti per l'azienda.
In fondo una proposta, valida non solo
per i call-center, che migliori sia le condizioni di chi lavora
che la qualità del servizio ci
sarebbe, ma al momento non conviene certo ai padroni di ogni risma,
cooperative comprese:
l'internalizzazione. Cambiando condizioni normative e salariali
potrebbe convenire ai padroni in futuro, ma in questo caso sarà
imposta dall'alto, e non sarà una buona notizia.
Intanto ricordiamoci che è dal 2007
che Almaviva si appropria di soldi pubblici per tagliare il costo del
lavoro: prima per la stabilizzazione poi con sempre nuovi accordi per
accedere agli ammortizzatori sociali e insieme peggiorare
ulteriormente le condizioni di sfruttamento. Il meccanismo dal 2011
in poi (da quando cioè si sono ridotti i fondi per la
stabilizzazione) è sempre lo stesso: si dichiara un numero cospicuo
di esuberi, i sindacati presenti in azienda (in accordo da sempre con
la proprietà) indicano ai lavoratori che la colpa non è del padrone
ma di quei cattivoni che delocalizzano (sono arrivati a denunciare
“delocalizzazioni” in Calabria...) e così creano quell’allarme
sociale che gli permette di accedere ai finanziamenti pubblici e
contemporaneamente impone ai lavoratori di accettare nuovi controlli
e pressioni sul lavoro. Vedendo quello che ha prodotto l'accordo
quindi nulla di nuovo, d'altronde fondamentalmente le mobilitazioni
questo chiedevano, o no? L'interlocutore individuato è stato il
Governo Centrale, ora in campagna elettorale verso il referendum, e
gli si chiedevano fondi (per i padroni) ed il rispetto di leggi
inutili come quelle sulle delocalizzazioni che non servono a nulla,
soprattutto a chi lavora. Il mondo degli appalti spesso però ci ha
mostrato la forza lavoro battersi affinché “il padrone” non
perdesse le commesse.
Partiamo, dunque, dall'hastag in cui le
lavoratrici (che sono la maggioranza) ed i lavoratori evidentemente
si identificano nell'azienda #noisiamoalmaviva. Qualcosa non torna.
Il nome Almaviva infatti non è un riferimento latinista ad anime
vivaci ma è semplicemente l'acronimo delle iniziali della famiglia
Tripi: Alberto, Marco, Vittoria, Valeria. Prima i maschi, anche
perché il fondatore Alberto designò come erede Marco in quanto...
maschio. Parlano di tecnologia in inglese ma sono un po' antiquati
evidentemente.
Sono la famiglia proprietaria, i
padroni. Quindi Almaviva è loro, altro che noi siamo almaviva!
Questo però deve essere poco chiaro a tutti/e coloro che hanno
frequentato amabilmente l'account facebook di Marco Tripi e che nel
corso degli anni ne hanno condivisa la retorica aziendalista, perché
siamo tutti sulla stessa barca. Se l'azienda va bene i vantaggi sono
per tutti. Già sentito? Purtroppo sì e non solo dai padroni, dai
governi e sindacati confederali. Se non ci liberiamo di questo le
“agitazioni” (non sono lotte) sono funzionali ai padroni, anche
se partono dalla sacrosanta richiesta di continuità di reddito, che
invece diventa una semplice richiesta di lavoro a qualsiasi
condizione, che i padroni sono ben lieti di trasformare in maggiore
sfruttamento. Sempre con sovvenzioni pubbliche, regalando soldi ai
padroni. Sarebbe gravissimo quindi non sottolineare questo ma
purtroppo a volte ci si esalta per qualche agitazione a prescindere
da quello che dice.
L'ottimismo della volontà ed il
desiderio di individuare ad ogni costo lotte e lavoratori/trici
attivi e battaglieri possono far prendere delle cantonate. Con il
rischio ulteriore di giocare con le persone trasformandole in casi
umani, svuotando di ogni significato politico la vicenda. Di
giornalisti ce ne sono già tanti, non ne servono altri.
Non faremo la storia dell'avventura
imprenditoriale della famiglia Tripi, nella quale sono riusciti a
comprare aziende (Atesia) molto più grandi della loro (Cos) o ad
acquisire Finsiel senza presentare un piano industriale nonostante ci
fossero offerte più ricche ed aver fatto i soldi con la raccolta dei
giochi d'azzardo, settore che non convince neanche la Corte dei Conti
e l'Antimafia. Non faremo neanche la storia di tutte le loro amicizie
a destra e a sinistra (ricordiamo però che la sua “fulgida”
carriera è iniziata a fianco di Prodi nel consiglio
d’amministrazione dell’Iri). Insomma Almaviva sono loro e per noi
è la controparte. Noi chi siamo? Siamo parte di quello che fu il
Collettivo Precariatesia e di chi dall’esterno dell’azienda lo
supportò. Un collettivo autorganizzato che è riuscito a far
stipulare 20.000 contratti a tempo indeterminato nei call-center,
partendo proprio dal call-center Atesia, che nel frattempo ha
cambiato nome in Almaviva. Siamo ancora impegnati negli strascichi
legali della vicenda. Ora siamo al Consiglio di Sato per richiedere i
contributi evasi all'Inps, mentre i buchi dell'Inps vengono fatti
pagare a lavoratori/trici e pensionati/e. In Tribunale Almaviva
scrive che quello che è successo: ”...ha prodotto effetti extra
ordinem che vanno ben oltre il normale accertamento di infrazioni in
materia lavorativa: esso in realtà ha messo in discussione, e
minato, la stessa organizzazione imprenditoriale di Atesia (poi
Almaviva), producendo effetti sull'assetto di un intero comparto
economico del paese”. Questo è stato il risultato della lotta, se
vi pare poco.
Riassumiamo quella vicenda che è stata
l’occasione per tutti di cambiare davvero il settore dei call
center e che è partita dalle autonome
elaborazioni, esigenze e richieste di lavoratrici/tori: il 13 maggio
2005 vi è il primo sciopero indetto dal Collettivo PrecariAtesia con
adesione quasi totale degli oltre 4.000 addetti della sede di Roma
(nelle altre sedi la lotta non c’è mai stata); da quel momento si
sono susseguiti scioperi e iniziative di lotta che hanno imposto
all’attenzione di tutti la questione dei call center (da quella
lotta sono nati libri, articoli e film); contemporaneamente il
Collettivo ha presentato un esposto all’Ispettorato del lavoro
sostenendolo con iniziative di massa all’Ispettorato stesso che –
dopo oltre un anno di indagini e malgrado le ripetute testimonianze
dei sindacalisti a favore dell’azienda – ha potuto accertare la
completa illegalità della situazione contrattuale degli addetti del
call center e perfino l’illegalità di alcuni accordi sindacali; si
è così stabilito che tutti (sia inbound che outbound) andavano
assunti con contratto di natura subordinata a tempo indeterminato,
che lavoratrici e lavoratori avevano maturato migliaia di euro
cadauno di arretrati e di contributi previdenziali non versati e che
Atesia sia nella gestione Tim/Telecom che in quella di Tripi aveva
evaso gli obblighi con lo Stato. Per noi era la vittoria totale.
Lotta condotta contro la volontà
padronale, politica (all'epoca dei fatti Governo di sinistra con
Rifondazione Comunista), confederale (Cgil in primis) ed anche
settori di movimento (non tutti ci mancherebbe) tra chi ha ignorato,
chi si è defilato al momento politicamente meno adatto (anche per
loro) e chi ha ostracizzato più o meno apertamente quella lotta
perché non riconducibile a binari consueti e controllabili o perché
ostacolava percorsi elettorali o perché ai loro occhi confliggente
con un percorso “semi-lobbistico” per una legge sul reddito, che
non sostenuta da lotte, ha avuto una vita breve e grama.
Quando nel 2005 è partita la lotta, la
vulgata comune era quella che i contratti subordinati erano
insostenibili per l'azienda (le cui esigenze vengono sempre prima) e
che non si poteva avere qualcosa di diverso da contratti precari come
co.co.co. e progetto.
La lotta è stata dura, scioperi, licenziamenti denunce, un processo
che ha visto imputati 15 compagne e compagni, insomma quella che
possiamo ritenere la prassi di una lotta che aggredisce le
contraddizioni e non si limita ad elemosinare, giocando sul caso
umano tanto caro all’immagine mediatica del precario/a. E così
tutti sono immediatamente scesi a supporto dei padroni dei call
center (perché quanto da noi imposto in Atesia inevitabilmente
cambiava tutto il settore). Il governo del Ministro del lavoro
Damiano e del presidente della camera Bertinotti: con circolari che
interpretando fantasiosamente la realtà distinguevano fra inbound
(subordinati) e outbound (parasubordinati); con lo stanziamento di
centinaia di milioni di euro per condonare le evasioni contributive e
finanziare per 3 anni le assunzioni (come ora Renzi per fingere che
aumenta il lavoro stabile); con l’imposizione alle lavoratrici ed
ai lavoratori di dover sottoscrivere la rinuncia a tutto il pregresso
e accettare contratti part time a 4 ore (circa 550€ al mese di
salario) per vedersi riconosciuto il contratto a tempo indeterminato.
I sindacati confederali i cui segretari generali hanno sottoscritto
un avviso comune con il presidente di Confindustria per recepire
quanto stabilito dal governo prima ancora che il Parlamento lo
approvasse. Sindacati che poi hanno tradotto il tutto anche in
accordi aziendali. Sull’accordo in Atesia imponemmo ai sindacati di
fare un referendum, il cui esito è stato naturalmente che a Roma,
dove c’erano le lotte, è stato respinto l’accordo, ma i
sindacati ci hanno invece raccontato che a Palermo su 1.500 addetti
solo uno aveva votato contro e a Napoli le percentuali erano state
simili: così l’accordo è passato. A causa di ciò in questi anni
centinaia di lavoratrici e lavoratori sono stati costretti a
dimettersi per le insostenibili condizioni lavorative e salariali ma
nessuno dei responsabili (sindacati e famiglia Tripi) se ne è
preoccupato e non c’è stata alcuna solidarietà verso quei nuovi
disoccupati. E gli outbound che sono ancora precari?
Con questi presupposti, arriviamo
all’attuale vicenda Almaviva: ribadiamo che la difesa del posto di
lavoro è sacrosanta ma non sufficiente
e soprattutto non la si può spacciare per lotta; spesso è solo un
legittimo tentativo di cercare di sopravvivere. Affidarsi a chi ha
prodotto ciò non è un buon auspicio per la vertenza attuale, ma
anche ora ci si dimentica tutto e in piazza vediamo bandiere
confederali e dell’ugl, e si canta: “noi siamo italiani”. Al
padrone e ai confederali va bene ma a noi basta che ci sia
l'illusione della lotta?
Così mentre il nuovo accordo di
proroga degli ammortizzatori sociali fino a fine novembre (poi si
ricomincia?) impone un'ulteriore
intensificazione dello sfruttamento delle lavoratrici e dei
lavoratori, noi rimaniamo colpiti dal modo in cui questa vicenda è
stata condotta.
Le lavoratrici ed i lavoratori di
Almaviva (non tutti/e ci mancherebbe) si lasciano guidare dagli
interessi aziendali e dei collaborazionisti sindacali nel richiedere
il rispetto delle regole sulla delocalizzazione (che significa che
quando parli con un addetto di un call center devi poter scegliere se
chi ti chiama lo fa dall’Italia o dall’estero, la tipica logica
per mettere lavoratori contro lavoratori) e questo lo comprendiamo
anche se è assolutamente controproducente per i loro interessi
(significa cascare nell’inganno); quello che invece è
incomprensibile (se non pensando male) oltreché inaccettabile è che
queste parole d’ordine siano veicolate anche nel dibattito di
movimento; è poi normale che l’unico interlocutore diventano i
sindacalisti. Gli stessi che in Almaviva hanno firmato gli accordi
che citavamo e in tutto il settore (ma sarebbe più giusto dire
ovunque) firmano accordi per il demansionamento di lavoratrici e
lavoratori, recepiscono il jobs act e acconsentono al controllo a
distanza (in cuffia) della prestazione lavorativa dei telefonisti.
Tutto questo è funzionale al padrone e
dannoso per le mobilitazioni presenti e future. Sembra che per
parlare di lavoro serva chi di mestiere vende fumo alle lavoratrici
ed ai lavoratori (cioè i sindacalisti).
Allora ci si preoccupa più di un
dirigente della Fiom che deve tornare a lavorare e meno di chi fuori
dal sindacato confederale (con tutto ciò che comporta) viene
licenziato e denunciato, magari proprio grazie all'azione
confederale. Più in generale quando si parla di lavoro si
“idealizza” la figura del lavoratore/lavoratrice come se abbia un
valore di per se. Invece come tutti/e noi può essere opportunista,
puntare solo alla mera e immediata risoluzione (illusoria e magari
momentanea) del problema. Insomma quello che si dice è importante,
non tutto va bene. Nel caso di Almaviva abbiamo sentito tante cose
sbagliate (storicamente e politicamente) e poi come in tante
situazioni sembra che l'atteggiamento costruttivo sia quello di
azzerare il passato e ripartire dall'oggi. Non è costruttivo, è
stupido. Così chi ti frega venti volte ti può fregare pure la
ventunesima. E così la voce dei lavoratori Almaviva diventa un RSU
CGIL di Napoli che senza minimamente indicare le responsabilità, i
motivi e le prospettive della situazione di Almaviva, sorvola
sull’infame ruolo della sua organizzazione e come al solito si
atteggia a compagno per nascondere la realtà, dichiara che i
licenziamenti rientreranno ma che probabilmente si dovrà cedere su
altro. Tutto vero, ma allora si scioperava per questo? E ora, dato
che l'accordo è brutto, si dice che la lotta continua, un eterno
presente che capire non sappiamo?
In generale ci stupisce che compagni/e
che si occupano delle questioni più disparate, su posizioni avanzate
su molti campi, quando si tratta di lavoro si affidano al “sindacato”
spesso pure confederale rinunciando a priori a costruire qualcosa.
Capiamo che sia più semplice, la lotta costa. Se poi si vuole solo
fare i cantori non c'è problema, si esalta qualcosa e poi si passa
ad altro. Di sconfitta in sconfitta.
Un grosso limite che possiamo rilevare
sulle vertenze lavorative è che ci si muove spesso solo in un'ottica
difensiva: quando vengono annunciati i licenziamenti spesso è troppo
tardi. Il tutto aggravato dal fatto che non sono licenziamenti
improvvisi ma largamente annunciati, ma ci si muove solo in seguito
all'azione del padrone manifestando ulteriormente una subordinazione
ed una mancanza di autonomia.
In generale le lotte “offensive”,
che producono risultati migliori, necessitano di più tempo ed
impegno.
Quel che rimane, essendo molto brutali
è la sensazione molto sgradevole che le cose spesso vengano assunte
inconsapevolmente, ma colpevolmente, sull'onda di esigenze
padronali/confederali. Manca la capacità di valutare quello che si
muove e come si muove o manca la volontà ed il coraggio di lavorare
sulle vertenze? Non abbiamo nessuna ricetta vincente ma alcune
contraddizioni sono così evidenti che alcuni errori, questi sì,
sarebbero facilmente evitabili. Si preferisce affidarsi a chi
nominalmente “gestisce” lavoratrici e lavoratori per ritagliarsi
un ruolo di cantori ed avere l'illusione di contribuire ad una
sintesi politicamente matura? Si guarda ai grandi perché più semo
mejo stamo?
Scelte.
Assemblea per l'autorganizzazione
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