Il ballottaggio elettorale
nelle diverse città sta offrendo una continuità in peggio della già
ignobile campagna elettorale, conclusasi in generale con risultati scontati.
Il PD di Renzi ha perso
una montagna di voti, ma nessuno di questi voti, e sottolineiamo
nessuno, è andato a sinistra di Renzi, rendendo ancor di più la
contesa attuale, con l'eccezione di Napoli di cui abbiamo fin troppo
parlato, quella che un tempo settori di sinistra, non necessariamente
extraparlamentari, avrebbero considerato una “contesa tra due
destre”.
A Torino Fassino -
che avrebbe fatto bene a collocarsi prima là dove Renzi lo vede
meglio, su uno scranno para istituzionale del parlamento di
'nominati' che esiste e che ancor più si preannuncia - ha già fatto
nel primo turno una figura di m..., ottenendo un voto
“maggioritario”, per modo di dire, nettamente al di sotto della
storia dei Chiamparino; e davvero rischia di essere impallinato nel
ballottaggio da una delle oscure “signore” nominate da Grillo.
Ma a Torino effettivamente
nessun voto è andato a “sinistra”. E ne ha fatto le spese
quell'Airaudo che pensa ancora di rappresentare operai e sinistra a
Torino, ma che in realtà ha ricevuto i voti, per così dire, che si
merita.
Comunque, Renzi si è già
smarcato anche a Torino.
Farebbe sicuramente più
male a Renzi e agli interessi che rappresenta la perdita di Milano.
Qui le due destre sono travestite da due manager catapultati alla
poltrona di sindaco direttamente dalla postazione di affari lucrosi
di cui si sono occupati fino a ieri. Ma anche a Sala è andata molto
peggio di quanto lui stesso temesse, perchè non solo Parisi l'ha
quasi raggiunto, e non si vede dove Sala andrà a prendere altri
voti, visto che Parisi ha già messo in cassa i voti di tutte le
destre e aspetta “giulivo cantando” il voto dei grillini, per
molti aspetti più a destra di lui.
Per cui, con il
prevedibile astensionismo che si allargherà, è possibile che sul
filo di lana qui ci sia il ribaltone.
Un inciso su Milano,
perchè qui bisogna dire qualche verità che in generale viene
taciuta.
Dario Fo sta facendo una
brutta vecchiaia. Noi tutti a sinistra abbiamo amato Dario Fo, e
ancor più amavamo Franca Rame, ma da tutto il periodo della
fascinazione grillina, la mente di Dario è confusa, e non per l'età,
ma per l'abbandono di ogni riferimento di sinistra e di classe nel
suo modo di pensare, di esprimersi. Per cui, un pò sconcertati un pò
no, abbiamo assistito all'apologia dell'oscuro reazionario
Casaleggio, persona che in un qualsiasi contesto di sinistra non solo
non avrebbe diritto di parola ma neanche diritto di presenza. Ed è
di queste ore, l'intenzione esplicita di Dario Fo di votare il
candidato di destra, Parisi - sarà effetto indotto non solo del
grillismo ma della corsa al “capezzale di Berlusconi”.
A Bologna, invece,
Renzi “se la sfanga”, perchè effettivamente l'avversario di
Merola sono i leghisti. Certo, la Bologna di oggi ha, a parte la
sovversione sociale molto attiva di cui abbiamo già parlato, una
deriva umana e morale del consumarsi del modello emiliano delle
cosiddette “regioni rosse”, i cui sintomi sono molto appariscenti
in ogni angolo di Bologna. Per cui Merola vincerà in un dilagare
dell'astensionismo.
Però, per favore,
qualcuno ci risparmi gli insulti all'intelligenza, alla dignità di
persone, che l'aspirante sindaco, Merola, sta producendo. Merola
grida ora, anche lui: “Potere al popolo”, in una specie di
macchiettistica imitazione del depositario del “logo”, De
Magistris; parla di “sfruttati contro gli sfruttatori”; va al
corteo dei metalmeccanici; dice che non applicherà le tasse comunali
ai redditi fino a 15mila euro...
C'è, però, il rischio
che questo attivismo di Merola sia un boomerang. Perchè finchè ne
poteva parlare in televisione, tutto bene, ma alla prima uscita in
periferia (scrive Il Manifesto): “ha dovuto affrontare i cittadini
infuriati con l'amministrazione: “sei venuto qui perchè hai
bisogno dei nostri voti. Dove sei stato finora?”.
Poi, Merola non
sottovalutasse l'alleanza di ferro, non dichiarata, tra leghisti e
grillini, questi ultimi con l'ignobile Bugani che è molto tentato
dal segreto dell'urna, come dice lui: “dalla possibilità di
mandare a capo il tanto odiato “Pdmenoelle””.
Veniamo, quindi, a Roma
che non è mai stata 'capitale' come oggi della “cattiva politica”.
Qui la Raggi si appresta a raccogliere il plebiscito di ogni tipo di
destra reazionaria e Renzi, e tutti i suoi potentati diversamente
collocati, cercano di buttarla in caciara, chiamando a fare del voto
un referendum se Roma deve fare o non fare le olimpiadi (stiano
tranquilli... non le avranno comunque), chiamando a raccolta
innanzitutto il mondo dello sport, i palazzinari di ogni ordine e
grado, ecc. ecc.
Ma si tratta di un
agitarsi inutile. A Roma la cosa più interessante non è chi farà
il sindaco, ma il fatto che queste elezioni abbiano certificato come
tutto ciò che appare di “sinistra” o che rivendica di essere
tale, al di fuori delle lotte sociali, sia sub degradato ad
elettoralismo cialtrone, sia che si tratta di professori
universitari, sia che si tratti di quegli “attivisti permanenti del
sociale”, quasi sempre para assistiti, alla greppia delle pubbliche
amministrazioni e dell'imponente apparato parassitario del sistema
dei partiti vecchi e nuovi, del sistema delle associazioni,
comprendente anche una fetta di ex centri sociali.
Non vale la pena sprecare
parole per Fassina e fassiniani vari, che dopo l'ignominiosa fine
elettorale si scannano tra Giacchetti e Raggi, sempre con la
disgustosa boria di voler rappresentare il nuovo inizio della
“sinistra”.
Ma guardiamo a Il
Manifesto che ospita nelle sue pagine di oggi, sabato 11 giugno, due
lunghi editoriali, uno invitando al voto PD, l'altro invitando al
voto 5 Stelle.
Durante la campagna
elettorale, Il Manifesto, sia con la voce di Norma Rangeri, sia con
vari articoli, appelli, aveva invitato con enfasi a votare oltre che
Fassina anche nominativamente questo o quel candidato, presentato
come il più nobile delle persone. Spariti dalla contesa come non
pervenuti tutti questi nomi, ora tutti gli argomenti sono sprecati
per stare “con un piede in due staffe”, o, “più nobilmente”,
per tenere aggrappati lettori e redattori al carro della più
degradante delle campagne elettorali che Roma abbia vissuto.
E, quindi, Floridia in un
editoriale ci spiega che Renzi ha già avuto il colpo (con la
precedente votazione) ma che, appunto per questo, “Renzi sta
cominciando a normalizzarsi e quindi l'atteggiamento nei suoi
confronti potrebbe anche uscire da una logica che in definitiva
rischia di apparire subalterna, valutato sempre e solo in funzione di
quello che lui fa, dice o pensa di fare”. Quindi, conclude “...
non può essere considerata un'eresia il voto al candidato che
esprime comunque un'opzione democratica”. Il linguaggio contorto
del signore che scrive, e che in un giornale di “sinistra” non
avrebbe spazio neanche nella parte delle lettere, è sostanzialmente:
non teniamo conto di quello che Renzi dice e pensa di fare e votiamo
Giacchetti, chiamato, qui, “opzione democratica”!
Più articolato, meno
obnubilato, ma molto peggiore, è il lungo editoriale a firma di
Guido Liguori che invita a votare i 5 Stelle “a piccoli passi”. E
per convincere della bontà di questa scelta, deve fare il pieno
delle “stronzate”.
Parte dal dire che “le
altre liste più di sinistra o più di movimento non hanno vantato
risultati significativi”, e aggiunge, che ormai 5 Stelle sono
“vincitori e primo partito”, anzi, sono sempre meglio.
Una cosa sembrava assodata
in questa campagna elettorale, e all'inizio tutti l'hanno detto, che
Virginia Raggi era telecomandata da Grillo, la Raggi non lo aveva
negato, anzi l'aveva giustificato per le “competenze e ruolo
istituzionale” del Grillo stesso. Arriva invece questo Liguori per
dire che “il movimento di Grillo ottiene oggi il suo lusinghiero
risultato, introducendo, forse a sorpresa, un elemento di
controtendenza con la personalizzazione della
politica largamente diffusa: chi conosceva
Virginia Raggi e Chiara Appendino prima che iniziassero le comunali?
E' un fatto su cui riflettere. Esso indica che vi è un movimento di
popolo che si esprime attraverso perfetti sconosciuti... con tanti
saluti alla “democrazia del leader””. Neanche gli apologeti di
Mussolini all'epoca riuscivano in questi lambiccati culti del
movimento di popolo e del leader.
Non solo, ma ormai Liguori
cammina sicuro e recupera, con un altro ragionamento abbastanza
contorto, secondo cui un altro risultato dei pentastellari è
riuscire sulle orme di Veltroni ad amputare le eccedenze, cioè a
cancellare le “sinistre”, e, quindi, Grillo sta facendo uguale,
ma lo sta facendo attivando “un fronte di lotta di difesa della
democrazia”. Quindi, in un soprassalto aggiunge: “Rileggendo
quanto ho scritto, mi accorgo di aver usato termini “classe
politica”, “elites”, propri di quella teoria elitista che era
sì una teoria reazionaria, ma - prosegue impunito - con la quale già
Antonio Gramsci aveva capito che si doveva fare i conti”. E, qui,
parte filato per descrivere con ampie citazioni di politologhi che
“il popolo dei 5 Stelle ha riempito le piazze anche rispondendo a
parole d'ordine demagogiche, alla famosa antipolitica... Populismo si
dirà. Certo. Ma non tutti i populismi sono uguali, vi sono populismi
di destra e populismi di sinistra”.
Quindi, dopo un richiamo a
Podemos in Spagna, al Fronte ampio in Uruguay, tira nel suo campo:
“populista è anche De Magistris”, e, quindi, continua, dicendo
che De Magistris aveva alle spalle i ritratti di Che Guevara e
Berlinguer (populisti anche loro, intende Liguori). Da tutto questo
scaturirebbe che “è possibile un'alleanza tra la sinistra e un
partito populista per far saltare il tappo delle elites al potere...
le condizioni in Italia non ci sono ancora, possiamo però provare a
costruirle, iniziando da queste elezioni comunali”. Pertanto, che
indicazioni di voto dare? E qui, Liguori sottolinea: “alle compagne
e ai compagni, a questo 5% che ancora si raccoglie intorno alle
bandiere rosse della sinistra? Nessuna indicazione? Tutti liberi di
disperdersi... tra astensione, Pd, 5 Stelle? Sarebbe solo la non
scelta di chi ha paura di dividersi. Bisognerebbe, invece, con
coraggio fare un passo. Offrire apertamente questi voti ai candidati
5 Stelle... In cambio di cosa? Non di posti o di potere, certo. In
cambio di gesti simbolici e politici... la collocazione a Strasburgo,
per esempio... - Liguori sa bene che a Strasburgo il M5S è parte del
gruppo delle destra con l'inglese Farage – che facciano intendere a
noi e a tutti che i 5 Stelle sono e vogliono essere, per dirne una,
antifascisti e antirazzisti”.
I 5 Stelle sono il
partito, compresi i deputati e larga parte dei suoi elettori, meno
antifascisti e meno antirazzisti – a parte i leghisti dichiarati –
che ci siano nel panorama politico italiano, e Grillo ha sempre avuto
questa posizione di 'pancia' e di 'testa'. Ma Liguori ben sapendo di
aver scritto un insulto alla verità dice: “I 5 Stelle credo non
accetterebbero oggi... ma non aspettiamo di subire gli eventi,
prepariamoli... Da qui potrebbe partire un discorso nuovo per la
sinistra in Italia”.
La pensa lo stesso CONTROPIANO - RETE DEI COMUNISTI E ALLEATI- USB?
si direbbe di si visto l'ampiezza e il risalto con cui pubblica il testo di LIGUORI
La pensa lo stesso CONTROPIANO - RETE DEI COMUNISTI E ALLEATI- USB?
si direbbe di si visto l'ampiezza e il risalto con cui pubblica il testo di LIGUORI
Perchè si può votare Cinquestelle
Ma non c'era bisogno degli
argomenti di Liguori...! Larga parte dei seguaci della sinistra anti
euro ha già votato al primo turno per il M5S; anche illustri
studiosi di “sinistra” dello Stato quali Giannulli hanno già sponsorizzato dalle
pagine di Contropiano il M5S; a Torino Airaudo ha detto che “i
nostri voti sono già andati a Grillo”.
Mentre, chiaramente, tutti
i rottami dell'ex sinistra, Rifondazione, Vendola, ecc., seguaci
indiretti dell'ignobile carrierista Gennaro Migliore, ora urlano “la
scheda bianca è un tragico errore. Votiamo Giacchetti”.
Insomma, la misura è
colma, diciamo noi.
Come abbiamo scritto nel
precedente testo e nell'ultimo numero del giornale proletari
comunisti, lavoratori, giovani, movimenti di lotta, devono non solo
non partecipare a questo 'gioco', ma rafforzare la convinzione che lo
scontro di classe con governo, padroni, poteri locali, domanda il
liberarsi dalle 'mosche cocchiere' e dagli 'agenti nelle nostre
fila', dalla cosiddetta “sinistra romana”.
dal manifesto 11 giugno
Il voto del 5 giugno non può essere definito soddisfacente per la sinistra, che conferma uno zoccolo duro del cinque per cento oltre il quale oggi sembra non riesca ad andare. L’eccezione significativa è Napoli, e ci tornerò più avanti. Mentre il risultato di Cagliari non costituisce una eccezione, basandosi sulla alleanza tra sinistra e Pd, improponibile se proiettata su scala nazionale. I casi più evidenti sono quelli di Roma e Torino, con candidati noti e largamente condivisi come Fassina e Airaudo.
Sarebbe ingeneroso imputare loro colpe specifiche: questi due risultati non fanno che confermare un dato non locale e non solo momentaneo. Né altre liste “più di sinistra” o “più di movimento” possono vantare risultati significativi, anzi. Alcune riflessioni e alcune ipotesi non scontate dunque si impongono.
I 5s sono gli unici a uscire vincitori dal voto, e il secondo turno, comunque vada, non cambierà il fatto che essi sono oggi il primo partito in Italia, o possono diventarlo. I 5s prosciugano al momento l’area della protesta: lo si è detto e ripetuto, si è tentato e sperato di annullare o aggirare questo fatto, ma nonostante la zona di insofferenza per il renzismo si allarghi nel paese, la sinistra non intercetta lo scontento e sono solo loro a trarne giovamento. Intanto annotiamo che il movimento fondato da Grillo ottiene oggi il suo lusinghiero risultato introducendo forse a sorpresa un elemento in controtendenza con la personalizzazione della politica largamente diffusa: chi conosceva Virginia Raggi o Chiara Appendino prima che iniziasse la campagna per le comunali? È un fatto su cui riflettere. Esso indica che vi è un movimento di popolo che si esprime attraverso perfetti sconosciuti, tanta è forte la insofferenza per la classe politica. Con tanti saluti alla “democrazia del leader”.
Un altro risultato importante che va riconosciuto ai pentastellati è il fatto che essi hanno fatto saltare il letto di Procuste a cui ci ha condannato nel 2008 il democratico Veltroni, cercando di amputare le “eccedenze”, come il celebre bandito della mitologia greca. Certo, tra le eccedenze c’era anche e soprattutto la sinistra, e Veltroni è riuscito per il momento nell’intento. Ma inaspettatamente altri soggetti sono usciti dal sottosuolo e hanno gridato il loro no. C’è chi dice no a una idea di democrazia “occidentale” a uso e consumo delle élites, dunque. In vista del prossimo referendum questo è un dato decisivo, per difendere la Costituzione e poi anche per affossare quell’Italicum che è la peggiore legge maggioritaria che abbia mai visto questo paese, peggiore della legge del fascista Acerbo del 1924 e della “legge truffa” del 1953. Questo fronte di lotta, di difesa della democrazia, resta quello fondamentale e va ricordato sempre, anche quando si vota per le comunali, poiché la difesa della democrazia è più importante dei treni in orario e delle strade pulite, che pure sono obiettivi a cui non rinunciare.
Rileggendo quanto ho scritto, mi accorgo di aver usato termini (“classe politica”, “élite”) propri di quella teoria elitista che era sì una teoria reazionaria, ma con la quale già Antonio Gramsci aveva capito che si doveva fare i conti, anche se certo con l’intenzione di superarla, introducendo uno scarto democratico, una possibilità reale di autogoverno, non prevista da quella storia vista dagli elitisti come sempre uguale a se stessa. È contro una classe politica eternamente solidale nella difesa del privilegio e dell’imbroglio, che sono per Gaetano Mosca la vera essenza del parlamentarismo trasformistico, che il popolo del sottosuolo si è ribellato.
È contro la legge della “circolazione delle élite” (le élites invecchiano e inevitabilmente vengono sostituite da élites più giovani, ma nulla cambia nella sostanza) di cui parla Vilfredo Pareto, che agiscono senza saperlo i peones che si ribellano nelle urne o nelle strade. È anche contro la “legge ferrea della oligarchia” operante persino nei partiti sedicenti di sinistra, legge denunciata dall’ex-militante della Spd di inizio ’900 Robert Michels, che il popolo dei 5s ha riempito le piazze, anche rispondendo a parole d’ordine demagogiche, alla famosa “antipolitica”, che certo però non è nata sotto i cavoli.
Populismo, si dirà. Certo. Ma non tutti i populismi sono uguali. Vi sono populismi di destra e di sinistra. Vi è il populismo della Le Pen e il populismo di Podemos, ad esempio: hanno segni, cifre, orizzonti del tutto opposti. Se votassi in Spagna voterei per Izquierda Unida, senza dubbio. Ma sono molto contento che questo fronte di sinistra (nel quale da molti anni sono anche i comunisti) sia oggi alleato con Podemos nella coalizione elettorale Unidos Podemos, una sfida politica che ha per posta il governo del paese iberico. (E ripeto en passant che anche in Italia l’idea di una “izquierda unida”, di un “frente amplio” come quello che ha governato l’Uruguay per tanti anni, non era – e continua a non essere – affatto peregrina per la sinistra).
Populista è anche De Magistris, si dice. E infatti aggira i partiti e instaura un contatto diretto col suo popolo. E attacca frontalmente il peggior populismo esistente, quello di Palazzo Chigi, che non sfonda anche per il servaggio che esibisce verso i vari potentati economico-finanziari. A Napoli De Magistris vince: è l’unico caso in cui la sinistra vince. Quando il sindaco di Napoli iniziò la sua avventura politica, fece notare in una intervista i due ritratti che aveva alle spalle nel suo ufficio: Che Guevara ed Enrico Berlinguer, il Berlinguer che andava in barca a vela scrutando l’orizzonte, affrontando a inizio anni ’80 – aggiungo –, dopo la brutta parentesi della “solidarietà nazionale”, il mare aperto del “rinnovamento della politica”, della questione morale, del ritorno alle lotte e ai movimenti. De Magistris non è né Che Guevara, né Berlinguer, per carità. Ma l’indicazione simbolica, benché parzialmente sincretica, era forte, e non è mai stata rinnegata. Piaccia o no, se ne vedono i frutti.
Dunque, è possibile una alleanza tra la sinistra e un partito populista, per far saltare il tappo delle élites al potere? Forse sì. Ma ve ne sono le condizioni in Italia? No, oggi no. Possiamo però provare a costruirle. Iniziando da queste elezioni comunali. Che indicazioni di voto dare per i ballottaggi alle compagne e ai compagni, a questo cinque per cento che ancora ostinatamente si raccoglie intorno alle bandiere rosse della sinistra? Nessuna indicazione, tutti liberi di disperdersi tra astensione, voto masochista al Pd, voto in ordine sparso ai 5s? Sarebbe solo la non scelta di chi ha paura di dividersi. Bisognerebbe invece, con coraggio, fare un passo: offrire apertamente questi voti ai candidati 5s. In cambio di cosa? Non di posti o di potere, certo.
In cambio di gesti simbolici e politici (la collocazione a Strasburgo, ad esempio) che facciano intendere, a noi e a tutti, che i 5s sono o vogliono essere, per dirne una, antifascisti e antirazzisti. La sinistra è nata due secoli fa per abolire il privilegio, per distribuire democraticamente potere e risorse: ci dicano se questo ci unisce o ci divide. Sarebbe, in caso di risposta positiva, un riconoscimento reciproco.
I 5s credo non accetterebbero, oggi, come non ha in un primo tempo accettato Podemos in Spagna l’offerta di alleanza di Izquierda Unida. Beninteso, Podemos e 5s sono diversi. Ma la cocciutaggine dei fatti è la stessa, e opera potentemente in Italia come in Spagna. Non aspettiamo di subire gli aventi: prepariamoli.
Anche molte compagne e molti compagni della sinistra che oggi giudicherebbero questa alleanza improponibile dovrebbero pian piano iniziare a pensarne la fattibilità e l’opportunità. Da qui potrebbe partire un discorso nuovo per la sinistra in Italia.
dal manifesto 11 giugno
Il voto del 5 giugno non può essere definito soddisfacente per la sinistra, che conferma uno zoccolo duro del cinque per cento oltre il quale oggi sembra non riesca ad andare. L’eccezione significativa è Napoli, e ci tornerò più avanti. Mentre il risultato di Cagliari non costituisce una eccezione, basandosi sulla alleanza tra sinistra e Pd, improponibile se proiettata su scala nazionale. I casi più evidenti sono quelli di Roma e Torino, con candidati noti e largamente condivisi come Fassina e Airaudo.
Sarebbe ingeneroso imputare loro colpe specifiche: questi due risultati non fanno che confermare un dato non locale e non solo momentaneo. Né altre liste “più di sinistra” o “più di movimento” possono vantare risultati significativi, anzi. Alcune riflessioni e alcune ipotesi non scontate dunque si impongono.
I 5s sono gli unici a uscire vincitori dal voto, e il secondo turno, comunque vada, non cambierà il fatto che essi sono oggi il primo partito in Italia, o possono diventarlo. I 5s prosciugano al momento l’area della protesta: lo si è detto e ripetuto, si è tentato e sperato di annullare o aggirare questo fatto, ma nonostante la zona di insofferenza per il renzismo si allarghi nel paese, la sinistra non intercetta lo scontento e sono solo loro a trarne giovamento. Intanto annotiamo che il movimento fondato da Grillo ottiene oggi il suo lusinghiero risultato introducendo forse a sorpresa un elemento in controtendenza con la personalizzazione della politica largamente diffusa: chi conosceva Virginia Raggi o Chiara Appendino prima che iniziasse la campagna per le comunali? È un fatto su cui riflettere. Esso indica che vi è un movimento di popolo che si esprime attraverso perfetti sconosciuti, tanta è forte la insofferenza per la classe politica. Con tanti saluti alla “democrazia del leader”.
Un altro risultato importante che va riconosciuto ai pentastellati è il fatto che essi hanno fatto saltare il letto di Procuste a cui ci ha condannato nel 2008 il democratico Veltroni, cercando di amputare le “eccedenze”, come il celebre bandito della mitologia greca. Certo, tra le eccedenze c’era anche e soprattutto la sinistra, e Veltroni è riuscito per il momento nell’intento. Ma inaspettatamente altri soggetti sono usciti dal sottosuolo e hanno gridato il loro no. C’è chi dice no a una idea di democrazia “occidentale” a uso e consumo delle élites, dunque. In vista del prossimo referendum questo è un dato decisivo, per difendere la Costituzione e poi anche per affossare quell’Italicum che è la peggiore legge maggioritaria che abbia mai visto questo paese, peggiore della legge del fascista Acerbo del 1924 e della “legge truffa” del 1953. Questo fronte di lotta, di difesa della democrazia, resta quello fondamentale e va ricordato sempre, anche quando si vota per le comunali, poiché la difesa della democrazia è più importante dei treni in orario e delle strade pulite, che pure sono obiettivi a cui non rinunciare.
Rileggendo quanto ho scritto, mi accorgo di aver usato termini (“classe politica”, “élite”) propri di quella teoria elitista che era sì una teoria reazionaria, ma con la quale già Antonio Gramsci aveva capito che si doveva fare i conti, anche se certo con l’intenzione di superarla, introducendo uno scarto democratico, una possibilità reale di autogoverno, non prevista da quella storia vista dagli elitisti come sempre uguale a se stessa. È contro una classe politica eternamente solidale nella difesa del privilegio e dell’imbroglio, che sono per Gaetano Mosca la vera essenza del parlamentarismo trasformistico, che il popolo del sottosuolo si è ribellato.
È contro la legge della “circolazione delle élite” (le élites invecchiano e inevitabilmente vengono sostituite da élites più giovani, ma nulla cambia nella sostanza) di cui parla Vilfredo Pareto, che agiscono senza saperlo i peones che si ribellano nelle urne o nelle strade. È anche contro la “legge ferrea della oligarchia” operante persino nei partiti sedicenti di sinistra, legge denunciata dall’ex-militante della Spd di inizio ’900 Robert Michels, che il popolo dei 5s ha riempito le piazze, anche rispondendo a parole d’ordine demagogiche, alla famosa “antipolitica”, che certo però non è nata sotto i cavoli.
Populismo, si dirà. Certo. Ma non tutti i populismi sono uguali. Vi sono populismi di destra e di sinistra. Vi è il populismo della Le Pen e il populismo di Podemos, ad esempio: hanno segni, cifre, orizzonti del tutto opposti. Se votassi in Spagna voterei per Izquierda Unida, senza dubbio. Ma sono molto contento che questo fronte di sinistra (nel quale da molti anni sono anche i comunisti) sia oggi alleato con Podemos nella coalizione elettorale Unidos Podemos, una sfida politica che ha per posta il governo del paese iberico. (E ripeto en passant che anche in Italia l’idea di una “izquierda unida”, di un “frente amplio” come quello che ha governato l’Uruguay per tanti anni, non era – e continua a non essere – affatto peregrina per la sinistra).
Populista è anche De Magistris, si dice. E infatti aggira i partiti e instaura un contatto diretto col suo popolo. E attacca frontalmente il peggior populismo esistente, quello di Palazzo Chigi, che non sfonda anche per il servaggio che esibisce verso i vari potentati economico-finanziari. A Napoli De Magistris vince: è l’unico caso in cui la sinistra vince. Quando il sindaco di Napoli iniziò la sua avventura politica, fece notare in una intervista i due ritratti che aveva alle spalle nel suo ufficio: Che Guevara ed Enrico Berlinguer, il Berlinguer che andava in barca a vela scrutando l’orizzonte, affrontando a inizio anni ’80 – aggiungo –, dopo la brutta parentesi della “solidarietà nazionale”, il mare aperto del “rinnovamento della politica”, della questione morale, del ritorno alle lotte e ai movimenti. De Magistris non è né Che Guevara, né Berlinguer, per carità. Ma l’indicazione simbolica, benché parzialmente sincretica, era forte, e non è mai stata rinnegata. Piaccia o no, se ne vedono i frutti.
Dunque, è possibile una alleanza tra la sinistra e un partito populista, per far saltare il tappo delle élites al potere? Forse sì. Ma ve ne sono le condizioni in Italia? No, oggi no. Possiamo però provare a costruirle. Iniziando da queste elezioni comunali. Che indicazioni di voto dare per i ballottaggi alle compagne e ai compagni, a questo cinque per cento che ancora ostinatamente si raccoglie intorno alle bandiere rosse della sinistra? Nessuna indicazione, tutti liberi di disperdersi tra astensione, voto masochista al Pd, voto in ordine sparso ai 5s? Sarebbe solo la non scelta di chi ha paura di dividersi. Bisognerebbe invece, con coraggio, fare un passo: offrire apertamente questi voti ai candidati 5s. In cambio di cosa? Non di posti o di potere, certo.
In cambio di gesti simbolici e politici (la collocazione a Strasburgo, ad esempio) che facciano intendere, a noi e a tutti, che i 5s sono o vogliono essere, per dirne una, antifascisti e antirazzisti. La sinistra è nata due secoli fa per abolire il privilegio, per distribuire democraticamente potere e risorse: ci dicano se questo ci unisce o ci divide. Sarebbe, in caso di risposta positiva, un riconoscimento reciproco.
I 5s credo non accetterebbero, oggi, come non ha in un primo tempo accettato Podemos in Spagna l’offerta di alleanza di Izquierda Unida. Beninteso, Podemos e 5s sono diversi. Ma la cocciutaggine dei fatti è la stessa, e opera potentemente in Italia come in Spagna. Non aspettiamo di subire gli aventi: prepariamoli.
Anche molte compagne e molti compagni della sinistra che oggi giudicherebbero questa alleanza improponibile dovrebbero pian piano iniziare a pensarne la fattibilità e l’opportunità. Da qui potrebbe partire un discorso nuovo per la sinistra in Italia.
- Guido Liguori è docente di storia del pensiero politico contemporaneo all’università della Calabaria e uno dei messimi studiosi di Gramsci. Una lunga militanza nel PCI e poi nel PRC. Questo intervento è stato pubblicato oggi, 11 giugno, su Il M
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