mercoledì 4 maggio 2016
pc 4 maggio - Migranti, schiavi a basso costo nelle campagne, sfruttati dai padroni e presi in giro dallo Stato. Gli ex schiavi del Salento denunciano
Li chiamavano gli schiavi della green economy. Erano più di 500. Tutti dipendenti della Tecnova, una società spagnola che tra il 2009 e il 2010 realizzò nel Salento 17 campi fotovoltaici. L’azienda assumeva prevalentemente migranti africani, molti di loro clandestini. Manodopera a basso costo per ritmi di lavoro massacranti. Le giornate lavorative non erano meno di 12 ore, alle volte anche di 24 ore. Dalle 6 del mattino fino alle 6 giorno successivo. Senza pause, senza contratto, senza assicurazione, senza contributi. Per il primo mese i lavoratori percepirono una paga di 45-55 euro al giorno, per i successivi mesi invece l’azienda non sborsò un euro. Così arrivarono le prime denunce
dei migranti e partirono le indagini della Guardia di Finanza. Nell’aprile del 2011, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Lecce e della Procura della Repubblica di Brindisi, arrivarono gli arresti a carico di 15 responsabili della società. I reati contestati furono estorsione, favoreggiamento della condizione di clandestinità di cittadini extracomunitari e truffa aggravata ai danni dello Stato. In principio era stato contestato anche il capo di riduzione in schiavitù, poi decaduto davanti ai giudici del riesame nel maggio del 2011. Il processo, non ancora iniziato, conta su 200 testimoni di giustizia.
Molti lavoratori africani hanno infatti deciso di denunciare e testimoniare, e per questo adesso sono sotto protezione sociale. In pratica lo Stato premia il migrante che collabora con la giustizia con il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Lo straniero entra così in un programma di protezione sociale che dovrebbe garantirgli un pocket money mensile, il ricovero in case rifugio e l’inserimento nel mondo del lavoro. Incubo finito, dunque? Niente affatto. La tutela dello Stato non ha impedito a questi ragazzi di finire in una nuova spirale di sfruttamento. Adesso lavorano come braccianti agricoli nelle campagne del Brindisino. Ancora una volta lavoro nero, ancora una volta giornate lavorative lunghissime. Una esigenza visto che, pur avendone diritto, non percepiscono nessun pocket money. Inoltre la maggior parte di loro non alloggia nelle case rifugio. Queste strutture non sono abbastanza per soddisfare la richiesta di un numero elevato di persone. Il risultato è che dormono in casolari fatiscenti sperduti nelle campagne, molti di questi messi a disposizione, sotto pagamento, dagli stessi proprietari terrieri. Alcuni si insediarono in una palazzina di due piani abbandonata nei campi. Per questo furono denunciati e la palazzina fu sgomberata. Ma le carenza di alloggi ha spinto i lavoratori a occuparla nuovamente. Adesso ci vivono circa 100 braccianti. Altri invece pagano affitti altissimi, 200 euro a posto letto, per dormire in palazzine fatiscenti prive di acqua, riscaldamento ed elettricità. Attorno a questi ragazzi si alimenta un business variegato.
Parlano gli ex schiavi del Salento
La tutela dello Stato è invisibile. Li abbiamo incontrati e, sotto la garanzia dell’anonimato, ci hanno raccontato che cosa significa essere sfruttati da testimoni di giustizia in un processo per sfruttamento. Adam muove nervosamente la gamba mentre è seduto sulla sedia. È spaventato e ha paura di parlare. Questo lavoro, seppur misero, è l’unica fonte di sostentamento che ha. “Vivo in un casolare abbandonato in mezzo alla campagna. Ogni mattina prendo la bicicletta e raggiungo il campo di carciofi dove lavoro. Dista 7 kilometri da dove vivo. Prima vivevo a Brindisi, in una palazzina insieme ad altri 20 compagni, tutti ex lavoratori Tecnova. Poi un uomo del luogo ha messo fuoco al palazzo perché non sopportava la nostra presenza. Siamo vivi per miracolo. Adesso viviamo tutti nel casolare. Il mio lavoro consiste nel zappare la terra e raccogliere i prodotti. In questo periodo carciofi. Lavoro più di 12 ore al giorno per 25-30 euro. Non è cambiato niente da quando lavoravo per la Tecnova”. Alla domanda su quante ore lavorative è composta la giornata Vincent, anche lui testimone di giustizia per il processo Tecnova, risponde: “Non esiste un orario. Lavoriamo finché non si riempie il camion di pomodori o carciofi. Ci possiamo mettere 12 come 15 ore, senza pause. Ci sono giornate che le passiamo a zappare e a piantare ortaggi. La paga dipende dall’azienda: alcuni ti danno 25, altri 30 euro al giorno. Noi non vogliamo lavorare a nero, sappiamo che così non ci rinnoveranno mai il permesso di soggiorno, ma dobbiamo pur mangiare”. Sul lavoro questi ragazzi sono doppiamente sfruttati. Dai datori di lavoro e dai caporali. “Dobbiamo pure dare una percentuale del nostro guadagno ai caporali” continua Vincent “anche loro sono africani ma sono da più tempo sul territorio e quindi conoscono le aziende. Per trovare lavoro dobbiamo passare prima da loro. Sono degli intermediari tra noi e il datore. Non so più che cosa significhi la parola speranza”. In alcuni casi il proprietario terriero fornisce ai braccianti un contratto, sul quale però è registrato un numero di giornate lavorative nettamente inferiore a quello che i lavoratori eseguono realmente. Questo rende impossibile il rinnovo del permesso di soggiorno e di sostituirlo da motivi umanitari a motivi di lavoro. Vincent si alza dalla sedia, mette la mano in una tasca e caccia un foglio. È un contratto di lavoro. “Ci fanno vedere questi pezzi di carta. Dicono che sono contratti regolari e noi ci crediamo. Ma sono segnate 70 giornate lavorative, quando invece noi lavoriamo tutto l’anno. E 70 giornate non ci permettono di rinnovare il permesso di soggiorno, di cambiarlo da motivi umanitari a motivi di lavoro. Ne servirebbero molte di più. Se c’è un controllo della polizia i datori di lavoro stanno tranquilli, fanno vedere che ci mettono in regola. Ma non è un contratto regolare perché sono segnate meno ore lavorative rispetto a quelle che facciamo effettivamente. Se provi a lamentarti ti licenziano”. Guidati dai ragazzi ci inoltriamo nelle campagne del brindisino, in questo periodo disseminate di carciofeti. Qui il carciofo è un prodotto pregiato, tanto da aver ottenuto la certificazione Igp (Indicazione Geografica Protetta). Chi li raccoglie sono soprattutto questi ragazzi africani. Lungo la strada li vedi con le schiene ricurve a raccogliere gli ortaggi. I padroni dei terreni, a bordo dei loro pick up, parlottano poco lontano. “Allontaniamoci da qui e poi, dopo 200 metri, gira subito a destra” dice Vincent. Accostiamo la macchina affianco ad un casolare fatiscente. Sotto una tettoia di amianto una corda appesa a due estremità sorregge dei vestiti. Nella campagna accanto un pastore controlla il pascolo del suo gregge. “Qui adesso ci vivono in 7 ma quando arriva la stagione dei pomodori ci sono più di 20 persone. Buttano i materassi per terra e si stendono sopra. Sono tutti testimoni di giustizia per il caso Tecnova” afferma mentre entriamo nello stabile. Nella prima stanzetta c’è un lavabo con delle pentole sporche. Accanto i resti di un falò con delle scatolette di legumi e una busta di sale ancora aperta. Dai muri si staccano pezzi di intonaco, il soffitto è cadente. Nelle altre stanze ci sono pancali di legno e materassi buttati per terra. Intorno valigie, scarpe, jeans e magliette. Sono i giacigli dei ragazzi. Il pavimento è disseminato di sporcizia. Nel bagno, privo di wc, ci sono delle taniche di acqua utilizzate per lavarsi. Questo è uno dei tanti casolari dove vivono testimoni di giustizia che lo Stato dovrebbe tutelare.
In trincea contro lo sfruttamento dei braccianti in Salento
Ines Rielli è la dirigente del Progetto Libera, il centro antitratta della Provincia di Lecce che raccoglie i casi di sfruttamento sessuale e lavorativo delle provincie di Taranto, Brindisi e Lecce. Più che un ufficio è una trincea. Ma sono insufficienti i mezzi a disposizione per affrontare la guerra dello sfruttamento. Con il caso Tecnova piombò sul Progetto Libera una emergenza di 200 persone a fronte di uno sportello che ha personale e finanziamenti per andare incontro a 15 persone l’anno. Finanziamenti con il passare degli anni sono sempre di meno. “In genere la nostra meda di persona in carico va sulle quindici persone annualmente” afferma Rielli “quindi abbiamo cercato di trasferire alcuni soggetti nella rete nazionale di protezione sociale. Siamo riusciti a trasferirne solo cinque. Quelli con problemi di salute li abbiamo accolti nelle case rifugio ma non abbiamo strutture per inserire tutti. Questa emergenza avrebbe richiesto un intervento della Commissione interministeriale per il sostegno alle vittime di tratta. Diciamo ai ragazzi di non accettare lavoro nero ma queste persone devono provvedere a se stessi e alle loro famiglie. Paradossalmente i migranti sotto protezione sociale, insieme ai richiedenti asilo, rappresentano una massa enorme di offerta di manodopera a basso costo. Una massa che incontra i bisogni dell’economia sommersa e illegale”.
Dopo il casolare ci dirigiamo verso la palazzina che ospita un centinaio di lavoratori. È immersa nelle campagne. Due cani abbaiano alla nostra presenza. Nel piazzale esterno c’è una poltrona, un motorino e qualche bidone. Sull’uscio un uomo guarda un punto fisso nel vuoto. All’interno le finestre sono sbarrate con dei pannelli di legno. Ci sono vestiti appesi ovunque. “Qui dobbiamo stare poco. Dobbiamo scappare” dice Vincent mentre saliamo le scale. La presenza dei caporali nei paraggi lo rende irrequieto. Rispetto al casolare lo stabile è organizzato per soddisfare meglio le esigenze di chi ci vive. C’è una televisione, una cucina, un tavolo e delle sedie. Ma le condizioni strutturali sono precarie e quelle igieniche indecenti. Incuriosito dalla nostra presenza un inquilino della palazzina scende a parlare. “Lui è uno di quelli che è stato denunciato. Non trovavano posto dove dormire e allora hanno occupato questo stabile abbandonato”. Oltre al danno la beffa. Lo Stato non garantisce a questi ragazzi un alloggio e li perseguita quando si trovano da soli un tetto dove dormire. Tra lavoro nero e occupazione abusiva di immobile sono costretti a vivere nell’assoluta illegalità. Da testimoni di giustizia. Il sole comincia a scendere sulle campagne del brindisino. Salutiamo e ci dirigiamo verso la strada del ritorno. Sui carciofeti si riflettono le sagome delle schiene ricurve di questi uomini dimenticati dallo Stato.
Comitato lavoratori delle campagne.
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