I governi cambiano, la scure repressiva contro le lotte resta
La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.
Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.
Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti
Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.
A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.
Il decreto Salvini- Uno
Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.
Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.
Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.
Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.
Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!
Il fatto che l’orda reazionaria rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).
Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.
All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…
Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?
Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.
Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.
E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).
Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…
Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.
Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.
Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.
E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.
Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…
Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due
Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.
Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).
E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.
Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.
E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.
Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!
Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.
Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.
Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.
E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.
Il DL Minniti-Orlando
Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.
I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.
In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…
In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.
L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).
Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.
Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.
L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas
Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.
Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.
La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.
Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.
Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).
Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.
A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.
Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.
A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.
Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.
E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.
L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.
Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.
Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.
Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.
L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.
Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.
Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.
La caduta del governo Conte Uno avvenuta lo scorso agosto e la contestuale nascita del Conte Bis “desalvinizzato”, avevano ingenerato in un settore largo della sinistra e dei movimenti sociali un sentimento diffuso di attesa per un cambiamento di passo in senso democratico.
Un attesa dettata non tanto dalla possibilità che il nuovo esecutivo “giallo-rosa”, nato in nome e per conto dell’Europa del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact, potesse imprimere un vero cambiamento nelle politiche economiche o un reale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e degli oppressi, quanto dalla speranza che l’esclusione della Lega dal governo potesse mettere almeno un freno all’ondata di odio razzista e all’escalation di misure e provvedimenti restrittivi delle cosiddette “libertà democratiche”.
Le prime dichiarazioni degli esponenti del PD (con a capo Zingaretti) e di LeU non appena insediatisi al governo, alimentavano questa speranza, nella misura in cui individuavano nei due Decreti
Sicurezza- Salvini al tempo stesso il simbolo e il cuore dell’offensiva reazionaria guidata dalla Lega, dichiarando solennemente che queste misure andavano abrogate o, quantomeno, radicalmente mutate.
A quattro mesi di distanza dall’insediamento del Conte bis, appare evidente che quella speranza si sia ancora una volta tradotta in una pia illusione, e che anche stavolta ci siamo trovati di fronte alla classica “promessa da marinaio” ad opera dei soliti mestieranti della politica borghese.
Il decreto Salvini- Uno
Dei due decreti- sicurezza targati Lega e convertiti in legge grazie al voto favorevole dei 5 Stelle si è parlato e si parla tanto, ma il più delle volte per alimentare in maniera superficiale una presunta contrapposizione tra “buonisti democratici” e “cattivisti destorsi” che per analizzare (e fronteggiare) la portata reale delle misure in essi contenute.
Già il primo DL, che si concentrava quasi esclusivamente contro i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati (imponendo una stretta feroce sugli sbarchi e sulla concessione dei permessi di soggiorno, eliminando gli SPRAR e assestando un colpo durissimo all’intero sistema dell’accoglienza facendo strumentalmente leva sulle contraddizioni e sul business che spesso ruota attorno agli immigrati) in realtà puntava già molto oltre, mettendo nel mirino l’esercizio di alcune di quelle libertà che a partire dal secondo dopoguerra venivano dai più considerate “fondamentali” e costituzionalizzate come tali in ogni stato che si (auto)definisce democratico: su tutte la libertà di sciopero e di manifestazione pubblica e collettiva del dissenso.
Nella versione originaria del Decreto, quasi mimetizzato nel mezzo di una lista interminabile di norme per il “contrasto all’immigrazione clandestina” utili a soddisfare le paranoie securitarie di un’ opinione pubblica lobotomizzata dal bombardamento mediatico a reti unificate sulla minaccia dell’“invasore immigrato brutto sporco e cattivo”, ci si imbatteva nell’articolo 23, una norma di neanche dieci righe recante “Disposizioni in materia di blocco stradale”, nella quale, attraverso un abile gioco di rimandi, modifiche e abrogazioni di leggi precedenti tipico del lessico istituzionale, in maniera pressoché imperscrutabile si introduceva la pena del carcere fino a 6 anni per chiunque prendesse parte a blocchi stradali e picchetti, fino a 12 anni per chi veniva individuato come organizzatore e con tanto di arresto in flagranza, vale a dire che se a protestare sono degli immigrati, alla luce proprio di quanto previsto dal medesimo decreto, una tale condanna si sarebbe tradotta nel ritiro immediato del permesso di soggiorno e quindi nell’espulsione dall’Italia.
Dunque, in un piccolo e apparentemente innocuo trafiletto si condensava un salto di qualità abnorme contro le lotte sindacali e sociali, con pene esemplari, contro ogni forma di manifestazione di strada e ogni sciopero che non si limitasse ad un’astensione dal lavoro meramente formale e simbolica (dunque innocua per i padroni): un idea di “sicurezza” che poco avrebbe da invidiare al Cile di Pinochet se è vero, come giustamente evidenziato dall’avvocato Claudio Novaro del foro di Torino1, che ad esempio, per i partecipanti ad un’associazione per delinquere il nostro codice penale prevede sanzioni da 1 a 5 anni di reclusione, per i capi e promotori da 3 a 7, per un attentato ad impianti di pubblica utilità da 1 a 4, per l’adulterazione di cose in danno della pubblica salute da 1 a 5. Per Salvini e i compagni di merende il reato di picchetto e di blocco stradale è considerato uguale a quello di chi recluta o induce alla prostituzione dei minorenni, di chi commette violenza sessuale contro un minore di 14 anni o di chi compie violenza sessuale di gruppo ed è addirittura più alto di quello del reato di sequestro di persona, della rapina semplice e della violenza sessuale su un adulto.
Tradotto in soldoni: per la Lega interrompere anche solo per qualche ora il flusso di merci e degli “affari” a beneficio dei padroni e contro l’ordine costituito (magari per reclamare il rispetto di un contratto collettivo nazionale di lavoro, impedire un licenziamento di massa, protestare contro la devastazione dei territori o contro megaopere nocive per la salute e l’ambiente o per denunciare il dramma della precarietà e della disoccupazione) rappresenta un “pericolo per la sicurezza” più grave e penalmente più rilevante che commettere uno stupro o far prostituire minorenni!
Il fatto che l’orda reazionaria rappresentata dalla Lega, FdI possa giungere a tali livelli di delirio non sorprende più di tanto: a meravigliare (non per noi) alcuni della sinistra politica e sociale è stato invece il silenzio assordante della quasi totalità degli organi di stampa, dell’opposizione “democratica” e dei sindacati confederali CGIL-CISL-UIL, dalle cui fila non una sola parola è stata spesa per denunciare il colpo di mano dell’articolo 23, ne tantomeno per chiedere la sua immediata cancellazione: un silenzio pari o forse ancor più rumoroso dei tamburi di guerra leghisti tenendo conto che se una norma del genere fosse stata varata nella seconda metà del secolo scorso, essa si sarebbe tradotta in anni e anni di carcere, ad esempio per migliaia di iscritti e dirigenti sindacali (compreso il tanto osannato Giuseppe Di Vittorio) che in quegli anni conducevano dure battaglie sindacali all’esterno delle fabbriche o in prossimità dei latifondi agricoli, e laddove la Cgil e la Fiom di allora facevano ampio uso del picchetto e del blocco stradale quale strumento di contrattazione (fatto storico, quest’ultimo che gli attuali burocrati sindacali, epigoni di quella Cgil, preferiscono occultare, accodandosi in nome di un ipocrita legalitarismo all’ignobile campagna di criminalizzazione del conflitto sindacale…).
Un silenzio che, d’altra parte è stato quantomai “eloquente”, se si pensa che tra i principali ispiratori della prima versione dell’articolo 23 vi era Confetra, vale a dire una delle principali associazioni imprenditoriali del settore Trasporto Merci e Logistica, la quale già il 26 settembre 2018 (quindi più di una settimana prima che il testo del decreto fosse pubblicato in Gazzetta Ufficiale) per bocca del suo presidente Nereo Marcucci si precipitava a dichiarare alla stampa che tale norma era “un ulteriore indispensabile strumento di prevenzione di forme di violenza e di sopraffazione di pochi verso molti. Certamente non limita il diritto costituzionalmente garantito allo sciopero. Con le nostre imprese ed i nostri dipendenti contiamo molto sul suo effetto dissuasivo su pochi caporioni”2.
All’epoca di tale dichiarazione il testo del decreto era ancora in fase di stesura, tanto è vero che nella suddetta intervista Marcucci indica la norma antipicchetti come “articolo 25”: lasciando così supporre che i vertici di Confetra, se non proprio gli autori materiali della scrittura dell’articolo, ne fossero quantomeno i registi e gli ispiratori…
Ma chi sono quei “pochi caporioni” che Marcucci tira in ballo confidando nell’effetto dissuasivo del DL Salvini a colpi di carcere e codice penale? E che ruolo ha avuto Confetra in tutto ciò?
Il bersaglio di Marcucci, manco a dirlo, era ed è il possente movimento autorganizzato dei lavoratori della logistica rappresentato a livello nazionale dal SI Cobas e, nel nord-est, dall’ADL Cobas, che a partire dal 2009 ha operato un incessante azione di contrasto delle forme brutali di sfruttamento, caporalato, evasione fiscale e contributiva, illegalità e soprusi di ogni tipo a danno dei lavoratori, rese possibili grazie all’utilizzo di un sistema di appalti e subappalti a “scatole cinesi” e dell’utilizzo sistematico di finte cooperative come scappatoia giuridica: un azione che nel giro di pochi anni, attraverso migliaia di scioperi e picchetti (dunque riappropriandosi di quello strumento vitale di contrattazione abbandonato da decenni dai sindacati confederali integratesi nello Stato borghese ed oramai finito in disuso anche per una parte dello stesso sindacalismo “di base”) e potendo contare solo sulla forza organizzata dei lavoratori, ha portato ad innumerevoli vittorie, prima attraverso l’applicazione integrale del CCNL di categoria in centinaia di cooperative e ditte appaltatrice, e poi finanche alla stipula di ben 3 accordi-quadro nazionali di secondo livello in alcune delle più importanti filiere facenti capo all’organizzazione datoriale Fedit (TNT, BRT, GLS, SDA) e con altre importanti multinazionali del settore.
Questo ciclo di lotta ha portato nei fatti il SI Cobas e l’Adl a rappresentare nazionalmente la maggioranza dei lavoratori sindacalizzati della categoria, ma che ha dovuto fin dall’inizio fare i conti con una pesantissima scure repressiva: cariche fuori ai cancelli dei magazzini, fogli di via, divieto di dimora, sanzioni amministrative, arresti e processi a non finire, licenziamenti discriminatori e finanche l’arresto del coordinatore nazionale del SI Cobas Aldo Milani nel gennaio 2017 con l’accusa infamante di “estorsione” come conseguenza di un’ondata di scioperi che dalla logistica aveva contaminato l’”intoccabile” filiera modenese delle carni3. Confetra e le aziende ad essa associate si sono col tempo dimostrate le principali “teste d’ariete” di questa strategia, e cioè una delle controparti maggiormente ostili, refrattarie al dialogo e propense a trasformare il conflitto sindacale in un problema di “ordine pubblico” anche di fronte alle forme più intollerabili e plateali di sfruttamento e di caporalato.
E non è un caso se proprio Confetra risulta essere la parte datoriale “amica” di Cgil-Cisl-Uil, come dimostra non solo una condotta decennale tesa ad escludere i cobas dai tavoli di trattativa nazionali, ma anche la vera e propria comunione d’intenti, al limite della sponsorizzazione reciproca da essi operata sia dentro che fuori i luoghi di lavoro (appelli comuni alle istituzioni, eventi, convegni, biografie dei dirigenti Confetra in bella mostra sui siti nazionali dei confederali, “tavoli della legalità”, ecc.).
Una tale condotta da parte di Cgil-Cisl-Uil, che ha da tempo abbandonato il conflitto (seppur per una politica tradeunionista) per farsi concertativa e infine a tutti gli effetti consociativa, non poteva di certo tradursi in una qualsivoglia opposizione alle misure “antipicchetto” ideate da Salvini su suggerimento di Confetra…
Discorso analogo per l’intero panorama della sinistra istituzionale, del mondo associativo e della “società civile”, per le ragioni che vedremo in seguito.
Dunque, nell’autunno del 2018 gli unici ad opporsi coerentemente, organicamente e radicalmente al primo DL Salvini sono stati, ancora una volta, il sindacalismo conflittuale con in prima fila il SI Cobas, i movimenti per il diritto all’abitare (in particolare a Roma e Milano), alcuni centri sociali e collettivi studenteschi, la parte tendenzialmente classista, estremamente minoritaria, del mondo associativo e della cooperazione, alcune reti di immigrati col circuito “no-border”, i disoccupati napoletani del movimento “7 novembre”, qualche piccolo gruppo della sinistra extraparlamentare comunista, antagonista o anarchica, i No Tav e poco altro.
Buona parte di queste realtà hanno aderito all’appello lanciato dal SI Cobas per una manifestazione nazionale che si è svolta il 27 ottobre 2018 a Roma riempendo le vie della capitale con circa 15 mila manifestanti, in larghissima maggioranza lavoratori immigrati della logistica e non solo. Ma non si è trattato di un evento isolato: a latere di quella riuscitissima manifestazione il SI Cobas, supportato al nord da centri sociali e studenti e al centrosud da disoccupati e occupanti casa, ha indetto una numerose altre iniziative nazionali e locali, fino ad arrivare al vero e proprio assedio all’allora vicepremier 5 Stelle Luigi di Maio nella sua natìa Pomigliano d’Arco con una contestazione promossa da licenziati FCA e collettivi studenteschi il 19 novembre 2018.
E ancora una volta si è avuta la riprova che “la lotta paga”, due settimane dopo, all’atto della conversione in legge del DL- Sicurezza, la norma persecutoria prevista dall’articolo 23 è stata cancellata e ripristinata la norma precedente che in caso di picchetto o blocco stradale non prevede alcuna pena detentiva bensì una sanzione amministrativa da 1000 a 4000 euro (come si vedrà nel caso delle lotte alla Tintoria Superlativa di Prato, questa misura, disapplicata e di fatto finita in desuetudine per decenni, verrà rispolverata con forza e con zelo durante tutto il 2019 contro operai in sciopero e disoccupati). Ad ogni modo, le proteste autunnali hanno probabilmente ricondotto a più “miti consigli” almeno una parte dei 5 Stelle, già all’epoca dilaniati dalla contraddizione insanabile tra le aspettative suscitate nella componente operaia del suo elettorato e le imbarazzanti performance governative fornite dai suoi vertici finiti a braccetto prima con la Lega di Salvini, poi col tanto vituperato PD.
Alla luce di questo parziale ma preziosissimo risultato, ottenuto con la mobilitazione di alcune decine di migliaia di manifestanti, qualcuno dovrebbe chiedersi cosa sarebbe rimasto del DL-Salvini se quelle organizzazioni sindacali confederali che tanto sono “maggiormente rappresentative” sui luoghi di lavoro, se non fossero ormai integrate nello stato a difesa degli interessi capitalisti si “ricordassero” quale dovrebbero essere il loro ruolo e fossero scese in piazza contro questa legge reazionaria e razzista: con ogni probabilità (e come sta insegnando in queste settimane il movimento francese contro la riforma pensionistica di Macron), quel decreto sarebbe divenuto in poche ore carta straccia…
Lega, 5 stelle e padronato ritornano alla carica: il Decreto Salvini- Due
Come insegna l’intera storia del movimento operaio, le conquiste e i risultati parziali strappati con la lotta possono essere difesi e preservati solo intensificando ed estendendo le lotte stesse.
Purtroppo, l’esempio tangibile dato dal SI Cobas e dai settori scesi in piazza contro il primo Decreto-Salvini non è riuscito a smuovere sufficientemente le acque e a portare sul terreno del conflitto reale quel settore di lavoratori, precari, disoccupati, studenti e immigrati ancora legati ai sindacati confederali e al resto del sindacalismo di base, ne è riuscito a coagulare attorno a se quel che resta dei partiti e dei partitini della sinistra “radicale”, dai comitati antirazzisti e ambientalisti spalmati sui territori, i movimenti delle donne come NUDM ( in realtà, queste ultime attive e con un seguito importante sulle tematiche di loro specifica pertinenza, ma incapaci di sviluppare un opposizione a tutto campo e di collegarsi alle lotte sui luoghi di lavoro e alle principali emergenze sociali).
E, inevitabilmente, l’offensiva di governo e padroni è ripartita in maniera incessante, prendendo la forma del “Decreto-sicurezza bis”.
Il canovaccio è stato grosso modo identico a quello del primo DL: immigrazione e “ordine pubblico” restano le due ossessioni di Salvini. A cambiare è tuttavia il peso specifico assegnato a ciascuna emergenza: il Dl bis “liquida” in soli 5 articoli il tema- immigrazione prevedendo una pesante stretta repressiva sugli sbarchi e “pene esemplari” per chi viene ritenuto colpevole di favorire l’immigrazione clandestina (dunque in primo luogo le tanto odiate ONG, i cui comandanti delle navi possono essere condannati a multe fino a un milione di euro), per poi concentrarsi con cura sulle misure tese a schiacciare sul nascere ogni possibile sollevazione di massa in chiave antigovernativa.
E così si prevede, negli articoli 6 e 8 un forte inasprimento delle pene per l’uso dei caschi all’interno di manifestazioni, per i reati di resistenza a pubblico ufficiale e finanche per l’uso di semplici fumogeni durante i cortei.
Il decreto, entrato in vigore il 15 giugno 2019, viene definitivamente convertito in legge l’8 agosto, dunque a pochi giorni dalla sceneggiata del Papeete Beach e della fine anticipata dell’esecutivo gialloverde.
Va peraltro notato che in questa occasione, contrariamente a quanto avvenuto col primo decreto, durante l’iter di conversione le pene previste, sia in caso di sbarchi di clandestini sia riguardo l’ordine pubblico alle manifestazioni, vengono addirittura inasprite: il tutto con il voto favorevole dell’intero gruppo parlamentare pentastellato!
Il resto della storia è noto come abbiamo accennato all’inizio dell’articolo.
Nel corso dei primi mesi di insediamento del Conte Bis, lungi dall’assistere a un ammorbidimento della stretta repressiva, abbiamo assistito invece ad un suo inasprimento: a partire dalla primavera del 2019 ad oggi gli scioperi nella logistica e i picchetti sono quotidianamente attaccati dalle forze dell’ordine a colpi di manganello e gas lacrimogeni, ma soprattutto si moltiplicano le misure penali, cautelari e amministrative e addirittura le Procure tirano fuori, come per magia, procedimenti pendenti per manifestazioni, scioperi e iniziative di lotta svoltesi anni addietro e tenute a lungo nel cassetto. La scure colpisce indiscriminatamente tutto ciò che sia mosso nell’ultimo decennio: scioperi, movimento No-Tav, lotte dei disoccupati, occupazioni a scopo abitativo, iniziative antimilitariste, e persino semplici azioni di protesta puramente simbolica.
Tuttavia, per mettere bene a fuoco il contesto generale che portano a questa vera e propria escalation bisogna fare un passo indietro e tornare al 2017.
E’ in questo periodo, infatti, che il governo Gentiloni a guida PD vara il Decreto- sicurezza Minniti, contenente gran parte delle norme e delle pene di cui si servono le Procure per scatenare questa vera e propria guerra agli sfruttati e agli oppressi.
Il DL Minniti-Orlando
Roma, 25 marzo 2017: in occasione del vertice dei capi di stato UE per celebrare i 60 anni dei Trattati, le strade della capitale sono attraversate da diversi cortei, tra cui quello del sindacalismo di base e dei movimenti che esprimono una radicale critica alle politiche di austerity imposte da Bruxelles. Ancor prima dell’inizio della manifestazione avviene un vero e proprio rastrellamento a macchia di leopardo per le vie di accesso alla piazza: 30 attivisti vengono fermati dalla polizia e condotti in Questura, laddove saranno sequestrati per ore e rilasciati solo a fine corteo. Questo controllo “preventivo” ha come esito l’emissione di 30 DASPO urbani per tutti i fermati: la loro unica colpa era quella di indossare giubbotti di colore scuro e qualche innocuo fumogeno. In alcuni casi gli agenti pur avendo potuto appurare la mancanza di precedenti penali, decidono di procedere ugualmente al fermo in base all’“indifferenza ed insofferenza all’ordine costituito con conseguente reiterazione di condotte antigiuridiche sintomatiche”.
I suddetti Daspo urbani rappresentano la prima applicazione concreta del DL Minniti, varato dal governo Renzi il 17 febbraio 2017 e definitivamente convertiti in legge il successivo 12 aprile contestualmente all’approvazione di un secondo decreto “Orlando-Minniti” sull’immigrazione. Tale misura, che prende a modello anche nel nome gli analoghi provvedimenti già sperimentati sulle curve calcistiche, nelle dichiarazioni di Minniti si prefigge di tutelare la sicurezza e il decoro delle città attraverso l’allontanamento immediato di piccoli criminali o di semplici emarginati (clochard, viandanti, parcheggiatori abusivi, ambulanti), con ciò svelando fin dal principio la una visione securitaria analoga a quella della Lega. Ma i fatti di Roma dimostrano in maniera chiara che il bersaglio principale del DL Minniti è il dissenso sociale e politico: la linea guida è quella di perseguire le lotte sociali in via preventiva, non più attraverso le leggi e le norme del codice penale ad esse preposte e per i reati “tipici” riconducibili a proteste di piazza, bensì attraverso l’uso estensivo e per “analogia” di fattispecie di reato ascrivibili alla criminalità comune: a sperimentarlo sulla loro pelle saranno ad esempio i 5 licenziati della FCA di Pomigliano d’Arco, che l’11 ottobre 2018 si vedono rifilare un Daspo immediato da parte della Questura a seguito di un’iniziativa simbolica e pacifica su un palazzo di piazza Barberini in cui si chiedeva un incontro col l’allora ministro Di Maio.
In realtà il Daspo urbano codifica ed accelera un processo che è già in atto e che nelle aule di Tribunale ha già prodotto numerosi precedenti: su tutti basterebbe pensare alla feroce repressione abbattutasi nel 2014 contro decine di esponenti del movimento dei disoccupati napoletani, incarcerati o condotti agli arresti domiciliari per diversi mesi con l’accusa di “estorsione” associata alla richiesta di lavoro, o al già citato caso di Aldo Milani, condotto agli arresti con la stessa accusa il 26 gennaio 2017 a seguito di un blitz delle forze dell’ordine a un tavolo di trattativa sindacale in cui si stava discutendo di 55 licenziamenti nell’azienda di lavorazione carni Alcar Uno e della possibilità di interrompere le agitazioni nel caso in cui i padroni avessero sospeso i licenziamenti e pagato quanto dovuto ai lavoratori…
In secondo luogo, il Daspo urbano va ad affiancarsi a un già ampio ventaglio di misure restrittive e limitative della libertà personale: fogli di via obbligatori, obblighi e divieti di dimora, avvisi orali, sorveglianza speciale, ecc.: riguardo quest’ultima, il caso forse più eclatante è rappresentato dalla sentenza del 3 ottobre 2016 con cui il Tribunale di Roma ha imposto un rigido regime di sorveglianza speciale a carico di Paolo Di Vetta e Luca Faggiano, due tra i principali esponenti del movimento romano per il diritto all’abitare (questa misura è poi diventata, negli ultimi anni, il principale strumento repressivo teso a colpire il movimento anarchico in varie città). D’altra parte va evidenziato che rispetto alle misure sovracitate, il Daspo Urbano si contraddistingue per la tempestività di attuazione in quanto diviene immediatamente esecutivo senza dover attendere l’iter processuale.
L’approvazione nello stesso giorno della legge Minniti, intitolata “Disposizioni urgenti per la tutela della sicurezza delle città” e della legge Minniti- Orlando intitolata “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale e per il contrasto dell’immigrazione illegale” non è casuale, bensì risponde a una precisa strategia tesa ad associare l’“emergenza-sicurezza” con l’“emergenza immigrati”, presentandole agli occhi dell’opinione pubblica come due facce della stess medaglia. D’altrone, le norme contenute nella legge immigrazione voluta dal PD, per il loro tenore discriminatorio e repressivo non si fanno mancare davvero niente. Al suo interno sono previsti, tra l’altro: l’ampliamento e la moltiplicazione dei centri di espulsione (ribattezzati CPR al posto dei CIE creati dalla Bossi-Fini) che da 5 passano a 20; l’accelerazione delle procedure di espulsione attraverso l’abolizione del secondo ricorso in appello per le richieste di asilo; l’abolizione dell’udienza (il testo del decreto, poi modificato, prevedeva addirittura la creazione di tribunali speciali ad hoc, vietati dalla Costituzione) e l’introduzione del lavoro volontario, cioè gratuito, per gli immigrati. Contestualmente, nelle stesse settimane il governo Gentiloni siglava un memorandum con il governo libico in cui veniva garantito il massimo supporto in funzione anti-Ong alla guardia costiera libica, cioè a coloro che sono universalmente riconosciuti come responsabili di violenze e torture nei campi di detenzione. Non è un caso che questa legge abbia ricevuto dure critiche persino dall’ARCI e dalle ACLI (senza però mai tradursi in mobilitazioni concrete per la sua cancellazione).
Da questa ampia disamina dovrebbe dunque apparire chiaro come i due decreti- Salvini siano tutt’altro che piovuti dal cielo, e men che meno il semplice frutto di un “colpo di mano” ad opera di un estremista di destra: al contrario, Salvini e i suoi soci hanno camminato su un tappeto di velluto sapientemente e minuziosamente preparato dai governi a guida PD.
Il messaggio di questi provvedimenti è sostanzialmente analogo: se sei italiano devi rigare dritto e non osare mai disturbare il manovratore, pena il carcere o la privazione della libertà personale; se sei immigrato, o accetti di venire in Italia, come uno schiavo non avrai alcun diritto e sarai sfruttato per 12 ore al giorno in un magazzino o in una campagna a 3-4 euro all’ora, oppure sarai rimpatriato.
L’escalation repressiva degli ultimi mesi contro il SI Cobas
Avendo a disposizione un menu di provvedimenti tanto ampio, nel corso del 2019 lo stato concentra ancor più le proprie attenzioni contro le lotte sindacali nella logistica e i picchetti organizzati dal SI Cobas col sostegno di migliaia di lavoratori immigrati.
Ancora una volta la città di Modena diviene il laboratorio di sperimentazione del “pugno di ferro” da parte di Questure e Procure. La ribellione delle lavoratrici di ItalPizza, sfruttate per anni con contratti-capestro non corrispondenti alle loro mansioni e discriminate per la loro adesione al SI Cobas, diviene il simbolo di una doppia resistenza: da un lato ai soprusi dei padroni, dall’altro alla repressione statale.
La reazione delle forze dell’ordine è durissima: lacrimogeni sparati ad altezza-uomo, responsabili ed operatori sindacali pesatati a freddo, lavoratrici aggredite mentre sono in presidio. Addirittura si mobilitano a sostegno dei padroni le associazioni delle forze di polizia con in testa il potente SAP.
Ad ottobre si arriva addirittura a un maxiprocesso a carico di ben 90 tra lavoratori, sindacalisti e solidali. Ma la determinazione delle lavoratrici è più forte di ogni azione repressiva, e nonostante l’azione congiunta di padroni, forze dell’ordine e sindacati confederali, la battaglia per il riconoscimento di pieni diritti salariali e sindacali è ancora in corso.
Ma Modena è solo la punta dell’iceberg: nella vicina Bologna, una delle principali culle del movimento della logistica, ad ottobre i PM della Procura della Repubblica tentano addirittura di imporre 5 divieti di dimora per alcuni tra i principali esponenti provinciali del SI Cobas, compreso il coordinatore Simone Carpeggiani, accusati di minare l’ordine pubblico della città per via di uno sciopero con picchetto che si era svolto un anno prima (misura alla fine respinta dal giudice).
Nelle stesse settimane alla CLO di Tortona (logistica dei magazzini Coop), dopo un innumerevole sequela di attacchi delle forze dell’ordine al presidio dei lavoratori a colpi di manganelli e lacrimogeni, il 25 novembre la Questura di Alessandria decide di intervenire a gamba tesa ed emette 8 fogli di via contro lavoratori e attivisti.
A Prato, città attraversata da più di un anno da imponenti mobilitazioni operaie nel settore tessile, dapprima (a marzo 2019) vengono emessi due fogli di via nei confronti dei responsabili SI Cobas locali; poi, a dicembre, nel pieno di una dura vertenza alla Tintoria Superlativa di Prato (in cui tra l’altro i lavoratori pachistani denunciano un consolidato sistema di lavoro nero e sottopagato), si passa ai provvedimenti amministrativi, con la Questura che commina 4 mila euro di multa a 19 lavoratori e due studentesse solidali con le proteste.
Il 9 gennaio il gip di Brescia emette otto divieti di dimora nel comune di Desenzano del Garda a seguito delle proteste del SI Cobas contro 11 licenziamenti alla Penny Market.
A queste e tante altre analoghe misure restrittive si accompagnano altrettanti provvedimenti amministrativi tesi a colpire economicamente le tasche dei lavoratori e del sindacato.
Intanto, i PM del Tribunale di Modena sono ricorsi ( seppure la macchina amministrativa giudiziaria sia intasata da milioni di processi non compiuti) in appello, contro la sentenza di assoluzione piena avvenuta in primo grado nei confronti di Aldo Milani nel già citato processo sui fatti in Alcar Uno.
E’ evidente che un azione talmente incessante e sistematica da parte di Questure e Procure risponde a un organico disegno politico: neutralizzare e decapitare un sindacato combattivo e in continua espansione serve ad assestare l’ennesimo colpo al diritto di sciopero e all’esercizio della libertà di associazione sindacale, entrambi già gravemente compromessi nella gran parte dei luoghi di lavoro e ulteriormente ridotti all’indomani dell’approvazione del Testo unico sulla rappresentanza del 10 gennaio 2014, grazie al quale il riconoscimento sindacale diviene un privilegio ottenibile solo in cambio della rinuncia sostanziale allo sciopero come arma di contrattazione.
L’oramai più che decennale processo di blindatura da parte dello Stato verso ogni forma di dissenso e di conflitto è in ultima istanza il prodotto di una crisi economica internazionale che, lungi dall’essersi risolta, si riverbera quotidianamente in ogni aspetto della vita sociale e tende ad alimentare contraddizioni potenzialmente esplosive e tendenzialmente insanabili.
Le leggi e i decreti sicurezza, i quali, una volta scrostata la sottile patina di colore ad essi impressa dai governi di questo o quello schieramento, mostrano un anima pressoché identica, rappresentano non la causa, bensì il prodotto codificato e “confezionato” di questi processi, a fronte dei quali il razzismo e le paranoie securitarie divengono forse l’ultima “arma di distrazione di massa” a disposizione dei governi per occultare agli occhi di milioni di lavoratori e di oppressi una realtà che vede continuare ad acuirsi il divario sociale sfruttatori e sfruttati, capitalisti e masse salariate.
Alla luce di ciò, è evidente che ogni ipotesi “cambiamento” reale dell’attuale stato di cose, ogni movimento di critica degli effetti nefasti del capitalismo (razzismo, sessismo, devastazione ambientale, guerra e militarismo, repressione) può avere concrete possibilità di vittoria o quantomeno di tenuta solo se saremo capaci di collegare in maniera sempre più stretta e organica il movimento degli sfruttati. Unire le lotte quotidiane portate avanti dai lavoratori, dai disoccupati, dagli immigrati, dagli occupanti casa, di chi difende i territori sottoposti a devastazione ambientale e speculazione ecc.
Come dimostra anche la storia recente, affrontare la repressione come un aspetto separato rispetto alle cause reali e profonde che generano l’offensiva repressiva, significa porsi su un piano puramente difensivo e alquanto inefficace.
L’unico reale rimedio alla repressione è l’allargamento delle lotte sociali e sindacali, così come l’unico antidoto agli attacchi alla libertà di sciopero sta nel riappropriarsi dello strumento dello sciopero. Ciò nella consapevolezza che a fronte di un capitalismo sempre più globalizzato diviene sempre più urgente sviluppare forme stabili di collegamento con le mobilitazioni dei lavoratori e degli sfruttati che, nel silenzio dei media nostrani, stanno attraversando i quattro angoli del globo (dalla Francia all’Iraq, dall’Algeria all’India), il più delle volte ben più massicce di quelle nostrane sia per dimensioni che per livelli di radicalità.
Senza la ricostruzione di un vero e forte movimento politico e sindacale di classe, combattivo e autonomo dalle attuali consorterie istituzionali e dai cascami dei sindacati asserviti, saremo ancora a lungo costretti a leccarci le ferite.
Nell’immediato, diviene sempre più necessario costruire un fronte ampio contro le leggi-sicurezza, per chiedere la loro cancellazione immediata e costruire campagne di informazione e sensibilizzazione finalizzate a fermare la scure repressiva che sta colpendo migliaia di lavoratori, attivisti, giovani e immigrati.
Per tale motivo una delle iniziative che vogliamo fare è quella di mettere in campo un’assemblea l’8 febbraio a Roma per un fronte unico di tutti quelli che si battono contro le politiche anti proletarie e repressive borghesi.
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