Gibuti è uno stato piccolo
(quanto la Sicilia) di quasi un milione di abitanti, indipendente formalmente
dal 1977. La svendita di fatto del paese alle forze armate di Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Olanda, Germania, Spagna, Russia, Inghilterra e
infine la Cina, permette al governo
borocratico-compradore una entrata finanziaria di circa 100 milioni di dollari
all’anno solo per le basi e di tanti altri soldi per investimenti e commercio,
come si può leggere negli articoli che in parte riportiamo, ma “…il boom economico gibutino non ha ancora
prodotto significativi benefici sociali (la disoccupazione è al 60 per cento,
l’analfabetismo al 45)…” un “boom” che continua: “…le nuove infrastrutture stanno rivoluzionando la
rete degli scambi commerciali regionali… nuova linea ferroviaria elettrificata
Addis-Gibuti: 760 chilometri costruiti
in tre anni e mezzo e costati quattro miliardi di dollari…” e adesso la “prima
base all’estero di Xi Jinping «l’africano»” come titola La Repubblica. E che serve a difendere anche le 30.000 imprese cinesi nel mondo
“…i 2500 soldati che il Dragone ha spedito sull’Oceano Indiano”
sarebbero lì, come dice La Repubblica di ieri, “soltanto per fare, come recita
la regola d’ingaggio, da peacekeeping, che letteralmente vuol dire
«mantenimento della pace». Non lo dicevano infatti già i latini che il migliore
modo di mantenere la pace è preparare la guerra?”
“Occhio ai numeri: - continua il giornalista-
2500 soldati. Un pezzo di Cina che fa armi e bagagli e si trasferisce
all’ingresso del Golfo di Aden, alle porte del Canale di Suez. A Pechino dicono
si tratti solo di una “base logistica” ma non bisogna studiare il cinese per
poter tradurre nella lingua di tutti i giorni: è un base militare, la prima della sua storia all’estero.
Operazione per carità concordata, come i cinesi ricordano, con le autorità del
posto, che fra l’altro già ospitano una nutritissima legione straniera con i francesi,
gli americani e anche i giapponesi a guardarsi reciprocamente le spalle. Ma
anche qui – sul fatto che Gibuti abbia detto sì all’invasione non ci piove,
cosa che fra l’altro laggiù non fa notizia: perché chi avrebbe mai detto di no
a un governo che ti investe 15 miliardi
di dollari nell’espansione del porto e altre delizie?
“Miracoli della nuova via della seta, il piano di infrastrutture da oltre mille
miliardi che Xi Jinping ha disegnato per diffondere nel mondo la
globalizzazione alla cinese. E sviluppato parallelamente a ben altri piani: «Da
quando è diventato presidente, nel 2012, la Cina si è a poco a poco allontanata
da quella politica di non interferenza che aveva formalmente sbandierato per 50
anni», sostiene il Financial Times.
“«Sotto il suo governo Pechino ha
stabilito una base navale nel corno d’Africa, ha approvato una legge che
permette lo stazionamento di soldati all’estero e ha rafforzato la sua
influenza nel mar del Giappone e nel Mare della Cina del Sud»: cioè nelle acque
delle isole contese.
“Anche la scelta di Gibuti come primo avamposto estero la
dice lunga. Quella è una zona infestata
dai pirati ... e proprio per questo lì si sono piazzati i
giapponesi a proteggere i loro traffici. L’arrivo di Pechino è adesso il
segnale che la musica è cambiata: siamo noi, avvertono i cinesi, i guardiani di
questa parte del mondo, siamo noi i garanti dei 5mila miliardi di beni che passano in questo spicchio di mare, un terzo del traffico marittimo mondiale.
Stazionare nel corno d’Africa, come spiega alla Cnn l’esperto Edward Paice, ha
poi più che senso «per un paese che sostiene di volere avere un ruolo sempre
maggiore di peacekeeping in Africa e ha
già truppe da combattimento in Mali e Sudan del Sud». E ha tantissimo senso
anche inquadrare lo sbarco puntando gli occhi più a Est: le scaramucce di questi giorni sul confine sono la prova della tensione
sempre più alta tra Pechino e Nuova Delhi, e le migliaia di soldati
sbarcati laggiù potrebbero anche funzionare come l’ultimo anello di quella
“catena di perle” di alleati che dal Bangladesh allo Sri Lanka passando per il
Myanmar circondano l’altra metà di quella che una volta era la Cindia che
andava d’amore e d’accordo.
“Poi, per carità, avrà ragione Wang
Yi, il ministro degli Esteri, quando dice che «come per ogni altra potenza in
ascesa, gli interessi della Cina si espandono sempre più all’estero: abbiamo ormai 30mila imprese nel resto del
mondo». Un po’ meno convincente è però quando assicura che «la Cina non
perseguirà mai nessuna egemonia», mentre è pronta a esplorare «un percorso con
caratteristiche cinesi». Ecco, è la stessa espressione usata nella costituzione
per definire la particolare forma di socialismo del paese: e non sarà il caso,
proprio per questo, di cominciare a preoccuparsi per davvero?”
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