SAMOS, L’ISOLA DIVENTATA UNA
«Siamo esseri umani ma ci trattano
come animali. Questa è una prigione, aiutateci». È il messaggio
lanciato da un gruppo di pachistani, afgani e migranti del
Bangladesh reclusi da sabato nel Blamari camp dell’isola di
Samos, a un miglio marino dalla costa turca.
Quello che fino alla scorsa
settimana era un centro di accoglienza cui si poteva accedere
liberamente, è stato trasformato in hotspot a seguito
dell’accordo tra Ue e Turchia. Di fatto è diventato una
prigione. Il cancello è chiuso con un lucchetto, pertanto è
impossibile entrare o uscire, nemmeno fuggire vista la doppia
recinzione di rete metallica sormontata da una fitta corona di
filo spinato. L’area è presidiata da agenti di polizia ed
esercito ma nessuno sa di preciso chi abbia la responsabilità del
campo, pertanto i militari si limitano ad allontanare il personale
non autorizzato. «Siamo qui da venti giorni, le autorità greche
non ci rilasciano il documento necessario a proseguire verso il
continente», protestano alcune decine di ragazzi del Gujarat pachistano, da ieri impegnati in uno sciopero della fame collettivo.
continente», protestano alcune decine di ragazzi del Gujarat pachistano, da ieri impegnati in uno sciopero della fame collettivo.
Gli spazi all’interno dell’hotspot
sono esigui, la capacità ricettiva è sottodimensionata rispetto
al numero dei presenti, e le aree di passaggio in gran parte
occupate da decine di tende, dove in molti trascorrono la notte
malgrado il forte vento che due giorni spazza l’Egeo. Un paio di
famiglie afgane sono riuscite ad ottenere la documentazione
necessaria a lasciare il campo, quindi messe alla porta e
indirizzate (a piedi) verso il piccolo centro di accoglienza al
porto, con la promessa di trovare riparo in attesa dell’imbarco.
«Ci hanno cacciati dal campo. Siamo stati al porto, ma è già
pieno di gente» spiega Ahmad Agha 28enne di Kandahar stringendo
in mano il documento valido per lui, la moglie e i due figli, «ora
siamo per strada, senza un posto in cui andare, non abbiamo soldi
ma dobbiamo prendere da mangiare. Il traghetto per Atene arriverà
tra qualche giorno».
Poco lontano, un altro giovane
afgano sosta all’esterno del doppio cancello di Blamari. Stringe
in mano un sacchetto contenente un po’ di frutta e qualche
biscotto acquistati in paese. Li ha presi per degli amici in
attesa dall’altra parte, e dopo una certa insistenza un
poliziotto apre il lucchetto del primo cancello, lo richiude a
chiave alle sue spalle, quindi apre il cancello esterno e ordina
al ragazzo di depositare i viveri nello spazio di sicurezza posto
tra le due barriere metalliche. Richiude il cancello esterno e
solo allora concede ad uno dei reclusi di raccogliere la borsetta
e il suo contenuto. Un modus operandi che lascia pochi dubbi,
ulteriore conferma della natura carceraria del campo.
A complicare ancora le cose è la
mancanza di informazioni, origine del profondo senso di incertezza
vissuto dai detenuti di Blamari, terrorizzati all’idea di poter
essere deportati in Turchia, che per i non siriani o iracheni
significa il ritorno forzato in patria. «Vogliamo rimanere qui»
si legge su un cartello schiacciato contro la recinzione dal
gruppo di pachistani, e con le lacrime agli occhi danno sfogo al
timore che li affligge: «stiamo fuggendo dal terrorismo del
nostro paese, tornare indietro significa poter essere uccisi».
Per loro tuttavia è solo questione di tempo. Essendo giunti in
gommone prima degli accordi di Bruxelles non rischiano il
respingimento in Turchia, e prima o poi saranno imbarcati su un
traghetto diretto al porto di Eleusina o al Pireo, quest’ultimo
trasformato in enorme tendopoli da migliaia di nuovi arrivi.
Diverso il destino dei 17 rifugiati approdati l’altro ieri a
Samos dopo la pericolosa traversata via mare dalla costa turca di
Bodrum. Nei loro confronti è scattata la denuncia per il reato di
immigrazione clandestina, quindi posti in stato di arresto
all’interno di Blamari e mescolati agli altri ‘detenuti’.
Vista la palese disorganizzazione al campo, è lecito sollevare
dubbi sull’effettiva capacità delle autorità di riuscire in
seguito ad identificare chi è arrivato prima e chi dopo l’entrata
in vigore degli accordi il 20 marzo. Ad ogni modo, il destino dei
nuovi arrivati siriani e iracheni prevede due sole opzioni. O
decidono di avanzare richiesta di asilo in Grecia, o vengono
trasferiti in Turchia.
Nel caso di afgani, pachistani e
altri migranti il ritorno sul suolo turco equivale al rimpatrio,
senza possibilità di scelta. Questo accade malgrado l’Afghanistan
continui ad essere flagellato dalla guerra, con i Taliban
impegnati ad estendere il controllo su ampie porzioni del paese,
poi si aggiunge l’ombra di Daesh la cui influenza cresce anche
nella Tomba degli Imperi. Se non bastasse, ieri Amnesty
International ha denunciato il rimpatrio forzato dalla Turchia di
30 afgani cui è stato negato l’accesso alla procedura di
richiesta di asilo. Secondo Amnesty il fatto è accaduto dopo gli
accordi di Bruxelles, in violazione alle leggi europee e
internazionali.
La trasformazione dei centri
accoglienza in hotspot è stata condannata anche da Unhcr e Msf.
Nel comunicato diffuso lunedì dalla portavoce dell’Alto
Commissariato per i Rifugiati Melissa Flemming si comunica la
sospensione di ogni forma di collaborazione con i “centri di
detenzione forzata” allestiti nelle isole greche, in particolare
i trasporti da e per gli hotspot. Vengono comunque mantenuti in
funzionare i servizi di assistenza legale e organizzativa per i
migranti, in particolare quelli volti a facilitare le procedure di
richiesta di asilo.
Intanto a Samos continua lo sciopero
della fame, mentre nella tendopoli di Idomeni si temono nuove
manifestazioni estreme dopo i fatti di martedì, quando due
siriani si sono cosparsi il corpo di benzina dandosi fuoco a pochi
passi dal confine macedone, rimasto chiuso al pari degli occhi
dell’Europa.
Emanuele Confortin da il
manifesto
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