9 agosto
1944 la 7.a Gap assalta il carcere di Bologna e libera 400 prigionieri. L’azione
ebbe un notevole impatto e perfino la stampa clandestina ne diede notiza, Il
Combattente dedico all’operazione un articolo.
Il ricordo
della brillante azione partigiana nei ricordi dei protagonisti.
Aldo Cucchi “Jacopo” Comandante della 7.a GAP
Il 4 o il 5
agosto del 1944 presi contatto con un agente di custodia delle carceri il quale
mi dette tutte le in formazioni necessarie per concretare il piano di azione:
il 9 successivo, verso le nove e tre quarti di sera arrivammo a San Giovanni in
Monte in dodici uomini su due macchine. Quattro, e cioè Paolo, Italiano, Tempesta e Terremoto, facevano la
parte di partigiani catturati in un rastrellamento; Bill, Napoli e William erano vestiti da tedeschi; io,
Ezio, Romagna, Massimo e Walter portavamo invece la divisa delle brigate nere Massimo figurava come il
sottotenente comandante la squadra. Fuori del portone erano di guardia due
agenti di polizia ausiliaria, ai quali, valendoci anche del fatto che Bill e
Napoli parlavano benissimo il tedesco, dichiarammo di aver preso quattro
partigiani e di voler consegnarli alle carceri. Gli agenti suonarono con il
segnale convenuto e subito ci fu aperta la porta interna. Io, Romagna, William
e Massimo rimanemmo fuori. Immediatamente appena entrati, i quattro che
fungevano da partigiani immobilizzarono gli impiegati dell’ufficio personale,
dove era stato segnalato il telefono, e tennero sotto la minaccia delle pistole
tre o quattro agenti di custodia e un detenuto addetto a scrivano, tagliando
poi i fili del telefono. Gli altri, impadronitisi delle chiavi, cominciarono ad
aprire le sezioni e le celle, aiutati anche dai quattro che nel frattempo
avevano rinchiuso in cella gli agenti per primi fermati. Noi intanto, trascorso
circa un quarto d’ora, ritenemmo che fosse arrivato il momento di procedere al
disarmo delle due guardie esterne. Difatti intimammo loro il “mani in alto”,
ma, data l’oscurità, non vedemmo che uno di essi, oltre il mitra, aveva la
rivoltella, ed egli senza neppure toglierla dalla cinta, sparò un colpo che
ferì Williarn gravemente a una gamba; William reagì subito con una raffica di
mitra, e afferrò la mano della guardia perchè non potesse tirare di nuovo, ma
cadde insieme ad essa. Dopo di ciò, entrammo col superstite nell’atrio delle
carceri, e udimmo quasi subito una voce che di fuori chiedeva: “che cosa
succede qui?”. Era il capoposto delle carceri, che accorreva avendo inteso la
sparatoria. Massimo uscì a chiamarlo, ed egli venne senza sospetto, poichè,
come ho detto, Massimo portava la divisa di sottotenente delle bb. nn. Fu
subito immobilizzato e messo a tener compagnia all’altro. Avevamo appena
finito, che la porta si aprì ed uscirono i nostri compagni coi politici
liberati e tutti gli altri detenuti comuni, fra i quali alcuni volevano
malmenare gli agenti, cosa a cui ci opponemmo. Essi allora si squagliarono in
tutte le direzioni. La liberazione dei comuni fu decisa a scopo di creare
confusione in città, ostacolare le ricerche della polizia, e dare modo così ai
compagni di raggiungere le montagne. Nell’interno del carcere, vi era il caos. Molti
agenti erano rinchiusi nelle celle, altri, completamente inebetiti dalla paura,
erano incapaci di qualsiasi reazione. Rimase a loro guardia soltanto Terremoto
mentre, partite le due macchine con a bordo quanti più fu possibile, io, Walter
e Romagna rimanemmo alla porta, per circa mezz’ora, allo scopo di far perdere
tempo se vi fosse stato un tentativo di inseguimento. A questo proposito, da
informazioni che avemmo più tardi, fu stabilito che nel reparto delle donne vi
era, un telefono che non ci era stato segnalato: di lì qualcuno telefonò a Tartarotti, il quale però non venne in
soccorso, adducendo la scusa della mancanza di benzina. E così pure il
direttore del carcere, che abita di fronte, preferì non intervenire. Mezz’ora
dopo di noi anche Terremoto abbandonò il carcere. L’azione era pienamente
riuscita, e senza nostre perdite, all’infuori della grave ferita di William che
ancora oggi ne porta le conseguenze. Nel rapporto fatto dal direttore delle
carceri, fu detto che cinquanta partigiani erano penetrati nelle carceri
sparando all’impazzata, e cento avevano circondato l’edificio, con carri
armati, automezzi e autoblinde. Invece eravamo in dodici, di cui soltanto sei
armati di mitra e gli altri di pistola. L’azione ebbe un grande rilievo, anche
per le conseguenze demoralizzanti fra le file dei tedeschi e delle brigate nere
e per il recupero di tanti combattenti per le formazioni partigiane.
Vincenzo Sorbi partigiano nella 7.a Brigata GAP
Eravamo in
una base di via Calvart, nella Bolognina. Alle 21,45 del 9 agosto salimmo,
travestiti, in due macchine e partimmo in direzione del carcere. Alle 22 in
punto eravamo davanti al portone e qui cominciò la messinscena. I
quattro partigiani cominciarono ad essere insultati, volavano frasi di
minaccia, poi furono fatti scendere con le mani in alto, una posizione non facile
da mantenere perché sotto erano imbottiti di armi. Cominciò la discussione con
la squadra fascista di guardia. I nostri dissero che dovevano mettere dentro
quattro ribelli. Non vi furono obiezioni e il portone fu aperto. Rispettando il
piano di attacco, alcuni di noi entrarono nel carcere, mentre altri, secondo
gli accordi, rimasero all’esterno. Io ero fra quelli che entrarono. Invademmo i
vari uffici intimando la resa alle guardie, troncammo i collegamenti
telefonici, ci impadronimmo delle chiavi, ci avviammo verso le celle dei nostri
compagni detenuti, e per creare confusione, era stato deciso di mettere in
libertà tutti i carcerati. Raggiungemmo quelli della Terza Sezione, che erano i
politici da liberare, e aprimmo le celle. In questo momento indicibilmente
strano, quasi un incubo, dall’esterno, giunsero prima colpi isolati, poi
improvvisa una raffica di mitra prolungata. È difficile descrivere che cosa
accadde in quei minuti che parvero eterni: i carcerati, disorientati e
affannati, tentarono di riguadagnare le loro celle. Da parte nostra lo stupore
si univa alla repentina decisione di approntare la più valida difesa ed offesa
contro l’ipotetico avversario. L’incertezza fortunatamente non durò a lungo.
Qualcuno di noi si avvicinò allo spioncino del cancello d’entrata ed ebbe dai
compagni all’esterno la spiegazione dell’accaduto: una delle guardie fasciste
del carcere, all’intimazione di resa, si era ribellata, aveva sparato a
William, colpendolo a una gamba e con lui aveva iniziato una collutazione, a
cui Romagnino aveva posto termine con una raffica di mitra che saldava il
conto al fascista. Non si poteva fare altrimenti. L’accaduto ci impose di
sollecitare la conclusione dell’azione. I nostri compagni detenuti vennero
liberati, caricati sulle macchine e trasportati in base. Aldo, Romagnino ed io
rimanemmo ancora a guardia dei fascisti impietriti e a copertura della
ritirata. Quando lo ritenemmo opportuno, confusi nella marea degli ex: detenuti
comuni, che si disperdevano per le vie cittadine, raggiungemmo la base di via
San Felice 119. Ultimo ad abbandonare il carcere fu Terremoto che
volle accertarsi che nessuno fosse rimasto all’interno. L’azione ebbe
termine alle 22,15 e, a parte l’incidente non previsto all’esterno del carcere,
si svolse secondo i piani. Si seppe in seguito che uno dei contatti telefonici,
quello del reparto femminile, non era stato interrotto e per quella
via Tartarotti era stato informato dell’attacco partigiano. Gli fu detto
che i partigiani erano una cinquantina e Tartarotti si tirò indietro adducendo
a pretesto che in quel momento i suoi automezzi erano privi di carburante! Che
il motivo fosse invece la paura è dimostrato dal fatto che la questura distava
non più di cinquecento metri dal carcere. A nostro favore giocarono, oltre a
questo fatto, anche molti disguidi ed incertezze che suscitarono poi in campo
fascista un gran pandemonio e un discarico di responsabilità: GNR attaccò il
questore, il questore attaccò le brigate nere e anche i tedeschi ne furono
coinvolti e alla fine la colpa di tutto fu data alla direzione del carcere.
Sonilio Parisini partigiano nella 7.a Brigata GAP
… considerai
impossibile questo tentativo perché davanti al carcere c’era, oltre la solita
guardia, una pattuglia permanente di repubblichini. Concordai che se
eventualmente fossero stati in grado di fare un colpo sul carcere, in
considerazione della organizzazione interna del carcere, per rendere più facile
e veloce l’operazione, il segnale doveva essere quello di farci pervenire un
chilo di pomodori, il che era facile dando la mancia alle guardie. Invece, alle
ore 22 del 9 agosto, venne la liberazione dal carcere, ma il segnale non fu di
proposito (così mi è stato detto) mai inviato per ragioni di segretezza. La
sorpresa per noi creò una certa confusione e perdita di tempo. Vedere entrare
in cella una pattuglia di giovani vestiti con divisa fascista, in qualsiasi ora
del giorno e della notte, a prelevare dei prigionieri, era una cosa di quasi
tutti i giorni. Quella sera i due partigiani che entrarono in cella, armati
e vestiti da fascisti, si qualificarono naturalmente come partigiani. Data
l’oscurità della cella non potemmo però riconoscerli ed era comprensibile che
noi dubitassimo che, come in altre occasioni, si trattasse di un prelevamento.
Perciò all’inizio facemmo resistenza, anche se sapevamo che questa contava ben
poco trattandosi di ritardare l’uscita soltanto di pochi minuti. In questo caso
la resistenza fu più lunga e cessò soltanto quando il partigiano Roveno
Marchesini (Ezio) comparve sulla porta della cella vestito da brigatista nero
ed a viso scoperto, cosicché lo conoscemmo immediatamente. Seminudi, con la
mano destra che impugnava la rivoltella che ci avevano dato e nell’altra mano
il fagotto dei vestiti, scendemmo di corsa le scale e raggiungemmo, Nannetti,
io e altri tre partigiani, il primo cancello interno. Non avendo le chiavi
salimmo le scale, diretti nella cella ove erano state rinchiuse le guardie.
Ordinammo ad una di queste di venire con noi con le chiavi per aprire il
cancello. Arrivati all’ultima porta d’uscita, dato il segnale a William, che
con altri due partigiani era rimasto all’esterno del carcere a chiacchierare
con la pattuglia delle brigate nere, sentimmo i colpi della rivoltella che
feriva William e quelli del mitra che atterrava il fascista feritore che non
intendeva arrendersi. Usciti, salimmo in macchina: Nannetti, Calari, io ed un
altro partigiano che non conoscevo e fummo portati in una base della Bolognina.
Al nostro arrivo la gioia dei gappisti fu grandissima, mentre la nostra non lo
fu nella stessa proporzione, non avendo partecipato a questo grande colpo che
ci restituiva la libertà e ci consentiva di riprendere la lotta.
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