venerdì 16 maggio 2014

pc 16 maggio - Padroni schiavisti da ammazzare - "Dopati per lavorare di più" nel basso lazio

«Dopati per lavorare di più»
Ogni tanto una notizia arriva anche dal "nuovo manifesto". Sarà un caso, ma viene dall'ex vicedirettore, Angelo Mastrandrea, che si messo fuori dalla nuova cooperativa di gestione, preferendo andare a fare l'inviato a caccia di segnali veri provenienti dal profondo della società reale.
Questo è un tuffo nel raccapricciante, in ogni caso. Che ci riporta a Manchester 1844, alla situazione descritta magistralmente da Friedrich Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra. Al posto delle ragazzine imbottite di cherry per non sentire dolore, fatica, frustrazione, orrore, abbiamo dei migranti "dopati" con eccitanti per tenere i ritmi di lavoro alti, oppure con oppiace per non sentire i dolori.
E per fortuna che staremmo nel "post-moderno"....
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L’ovetto che aiuta a sop­por­tare la fatica costa appena dieci euro, al mer­cato nero dello schia­vi­smo pon­tino. Singh ha due pos­si­bi­lità: scio­gliere il con­te­nuto diret­ta­mente in bocca o mesco­larlo al chai, il tè dei sikh. Sce­glie la seconda per­ché «se lo man­gio fa più male, allo sto­maco e alla gola». Così, di prima mat­tina, quella che gli indiani di Bel­la­far­nia chia­mano «la sostanza» can­cella la fatica e i dolori del giorno pre­ce­dente e si pre­para ad affron­tare quello che sta per comin­ciare «dopato come un cavallo», come sostiene Marco Omiz­zolo, un gio­vane socio­logo che, con l’associazione In migra­zione, ha rea­liz­zato un dos­sier che è un j’accuse nei con­fronti di padron­cini e capo­rali del basso Lazio.
I tanti Singh dell’agro pon­tino – i nomi non sono di fan­ta­sia: i sikh reli­giosi por­tano tutti lo stesso cognome, che vuol dire «leone», men­tre le donne pren­dono l’appellativo Kaur, «prin­ci­pessa» — da que­ste parti lavo­rano quasi tutti nelle cam­pa­gne, a col­ti­vare ortaggi in maniera inten­siva, sotto il sole o in serre arro­ven­tate che si tra­sfor­mano in camere a gas quando ven­gono costretti a spruz­zare agenti chi­mici senza nes­suna pro­te­zione. Sot­to­po­sti ad anghe­rie e soprusi, sfrut­tati all’inverosimile, costretti a chia­mare «padrone» il datore di lavoro, sot­to­pa­gati e con il rischio di essere deru­bati della misera paga men­tre tor­nano a casa in bici­cletta. Come far fronte a tutto ciò? Rac­conta B. Singh in un ita­liano sten­tato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno a rac­co­gliere zuc­chine e coco­meri o con il trat­tore a pian­tare altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la dome­nica. Non credo sia giu­sto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Per­ché gli ita­liani non lavo­rano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani, al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle sostanze chi­mi­che. Ho sem­pre la tosse. Il padrone è bravo ma paga poco e vuole che lavori sem­pre, anche la dome­nica. Dopo sei o sette anni di vita così, non ce la fac­cio più. Per que­sto assumo una pic­cola sostanza per non sen­tire dolore, una o due volte durante le pause dal lavoro. La prendo per non sen­tire la fatica, altri­menti per me sarebbe impos­si­bile lavo­rare così tanto in cam­pa­gna. Capi­sci? Troppo lavoro, troppo dolore alle mani».
Eccola qui, la nuova fron­tiera dello sfrut­ta­mento del lavoro migrante: gli schiavi delle cam­pa­gne ven­gono dopati per pro­durre di più e non sen­tire la fatica. Dall’inizio dell’anno, le forze dell’ordine hanno seque­strato tra Latina, Sabau­dia e Ter­ra­cina una decina di chili di sostanze stu­pe­fa­centi: «metan­fe­ta­mine», con­te­nute negli ovetti spac­ciati soprat­tutto dai capo­rali. Ma anche bulbi di papa­vero da oppio essiccati.
Nelle comu­nità sikh di Bel­la­far­nia e di Borgo Her­mada di tutto ciò si parla poco. I sikh, spe­cie se irre­go­lari, rara­mente denun­ciano i soprusi di cui sono vit­time. Se subi­scono una rapina fanno buon viso a cat­tivo gioco. Lo stesso accade quando il padrone non dà loro il dovuto o tarda nei paga­menti. Le dro­ghe sono proi­bite dalla loro reli­gione, chi ne fa uso è restio a par­larne e quando si decide a farlo non rie­sce a repri­mere il senso di colpa: «Noi siamo sfrut­tati e non pos­siamo dire al padrone ora basta, per­ché lui ci manda via. Allora alcuni di noi pagano per avere una sostanza che non fa sen­tire dolore a brac­cia, gambe e schiena. Il padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, ma dopo 14 ore nei campi com’è pos­si­bile lavo­rare ancora? Per la rac­colta delle zuc­chine lavo­riamo pie­gati tutto il giorno. La sostanza ci aiuta a vivere e lavo­rare meglio. Ma non tutti lo fanno: solo pochi indiani la usano. Ma a loro serve per arri­vare a fine mese e por­tare a casa i soldi per la fami­glia», dice K. Singh. Quello delle dro­ghe sta diven­tando un vero e pro­prio pro­blema sociale, in una comu­nità coesa, orga­niz­zata, «ope­rosa e silen­ziosa», come la defi­ni­sce Omiz­zolo, che mi accom­pa­gna in un tour per i campi e i paesi di que­sto pezzo d’India ita­liana. Per defi­nirlo, ha coniato un neo­lo­gi­smo: «Punjitalia».
Il resi­dence Bel­la­far­nia mare ne è la capi­tale. A pochi metri dalle dune di Sabau­dia, lon­tano dalla vista delle ville dei vip, vive un pezzo della più nume­rosa comu­nità sikh dopo quella emi­liana di Novel­lara: 12 mila abi­tanti cen­siti uffi­cial­mente tra que­sto vil­lag­gio di seconde case per i vil­leg­gianti subaf­fit­tate agli immi­grati e l’edilizia low cost anni ’80 che già cade a pezzi e fa da con­torno al razio­na­li­smo fasci­sta di Borgo Her­mada, un pugno di abi­ta­zioni nelle cam­pa­gne di Ter­ra­cina. In realtà, con­tando gli “irre­go­lari”, le pre­senze aumen­tano deci­sa­mente: 30 mila, forse per­sino di più. La Flai Cgil è arri­vata a distri­buire ben 40 mila casac­che cata­ri­fran­genti ai lavo­ra­tori che si spo­stano in bici­cletta, per ten­tare di limi­tare i nume­rosi inci­denti stra­dali che li coin­vol­gono, soprat­tutto d’inverno, nelle strade di cam­pa­gna poco illuminate.
Omiz­zolo ha impie­gato anni per con­qui­starsi la fidu­cia della comu­nità, è andato con loro nei campi e ha com­piuto il per­corso migra­to­rio inverso, dall’Italia al Pun­jab, dove ha incon­trato le fami­glie di pro­ve­nienza e rian­no­dato i fili della dia­spora. Ha rac­colto le sto­rie di sfrut­ta­mento e, con il dos­sier dell’associazione In migra­zione, denun­cia che «per soprav­vi­vere ai ritmi mas­sa­cranti e aumen­tare la pro­du­zione dei padroni ita­liani» i lavo­ra­tori sikh «sono let­te­ral­mente costretti a doparsi con sostanze stu­pe­fa­centi e anti­do­lo­ri­fici che ini­bi­scono la sen­sa­zione di fatica». Si tratta, spiega, di «una forma di doping vis­suta con ver­go­gna e pra­ti­cata di nasco­sto per­ché con­tra­ria alla loro reli­gione e cul­tura, oltre a essere seve­ra­mente con­tra­stata dalla loro comunità».
«Eppure si tratta dell’unico modo per soprav­vi­vere ai ritmi di lavoro»: dodici ore al giorno a semi­nare, dis­so­dare, rac­co­gliere, spruz­zare veleni. Per quat­tro euro l’ora, nel migliore dei casi, spesso costretti a subire torti, anghe­rie e ves­sa­zioni dai datori di lavoro, a volte non pagati per mesi come sta acca­dendo a un gruppo di una tren­tina di lavoratori-schiavi che recla­mano un sala­rio che non arriva da sei mesi. Una situa­zione non dis­si­mile a quelle di Rosarno, della Capi­ta­nata e degli altri luo­ghi dello sfrut­ta­mento delle brac­cia in agri­col­tura. Solo più taci­turna, poco incline alla ribel­lione e meno visi­bile: i sikh non vivono in barac­co­poli o in rifugi di for­tuna e non arri­vano soli come molti afri­cani che sbar­cano a Lam­pe­dusa. Si spo­sano tra loro – anche se, mi spiega Omiz­zolo, comin­ciano a regi­strarsi i primi casi di matri­moni misti, in genere tra maschi sikh e donne rumene cono­sciute al lavoro nei campi — molti sono qui ormai da trent’anni e i loro figli sono ita­liani. Le abi­ta­zioni sono ben tenute, nono­stante accada che in qua­ranta metri qua­dri si ammas­sino fino a sei per­sone, i giar­dini sono in fiore. La dome­nica nel Gurd­wara Singh Saba, un ex capan­none agri­colo tra­sfor­mato in edi­fi­cio reli­gioso, è un trionfo di colori e nelle cucine comuni si fa da man­giare per tutti. Hanno anche un gior­nale, Pun­jab express, che trovo distri­buito davanti a un nego­zietto al cui interno un anziano col tur­bante attende pigra­mente i rari visitatori.
Dil­lon Singh è il capo della comu­nità: gesti­sce uno spac­cio di generi ali­men­tari che vende anche capi d’abbigliamento, nella piaz­zetta di Bel­la­far­nia. È un poli­tico – in India è stato molto vicino a Indira Gan­dhi, la pre­mier assas­si­nata da due guar­die del corpo sikh nel 1984 — e in que­sti giorni è inquieto per­ché il nuovo cen­tro reli­gioso, il cui pro­getto è affisso alle vetrate del tem­pio, si è bloc­cato. Que­stione di per­messi e varianti urba­ni­sti­che, ma soprat­tutto di intralci buro­cra­tici frap­po­sti dalla destra che regge il comune. È pre­oc­cu­pato per­ché dovrà dar conto alla comu­nità dell’utilizzo delle risorse rac­colte: «Abbiamo rac­colto i soldi ma non riu­sciamo ad andare avanti. Finirà che le per­sone tor­ne­ranno a man­dare le rimesse in Pun­jab invece di inve­stire i loro gua­da­gni in Ita­lia», osserva sconsolato.
Alla fine di feb­braio, nasco­sti tra i cas­soni di frutta e ver­dura tra­spor­tati da due indiani, i finan­zieri di Sabau­dia hanno tro­vato 6 chili di bulbi di papa­vero e 300 grammi di anfe­ta­mina. Altri tre chili e mezzo sono stati seque­strati nel baga­gliaio di un’auto ed è stata sco­perta per­sino una pic­cola pian­ta­gione di papa­vero da oppio a Ter­ra­cina. Chi gesti­sce il busi­ness? «Gli ita­liani danno la sostanza agli indiani, che a loro volta la ven­dono e danno i soldi agli ita­liani», spiega K. Singh. Vuol dire che a monte del traf­fico ci sareb­bero datori di lavoro che affi­de­reb­bero il lavoro sporco ai capo­rali, con­se­gnan­do­gli la «roba» per­ché a loro volta la ven­dano agli schiavi delle campagne.
In alcuni casi, però, a gestire la ven­dita al det­ta­glio sono diret­ta­mente «gli ita­liani». A soste­nerlo è H. Singh: «Cono­sco per­sone che usano que­sta sostanza. Le com­prano da ita­liani e loro la uti­liz­zano quando lavo­rano oppure la danno ad amici. La sciol­gono nell’acqua calda e poi la bevono. Si può anche man­giare ma fa male allo sto­maco e alla gola». Accade per­sino che, fiu­tata la pos­si­bi­lità di rita­gliarsi una torta del pic­colo busi­ness, alcuni lavo­ra­tori riven­dano a loro volta le dro­ghe acqui­state. Rac­conta S. Singh: «Alcuni indiani, soprat­tutto gio­vani che lavo­rano nelle cam­pa­gne, le com­prano per non sen­tire i dolori, però poi ne riven­dono una parte. Così fanno un po’ di soldi e allo stesso tempo la sera non si sen­tono stan­chi e pos­sono uscire. Da dove ven­gono que­ste sostanze? Alcuni le por­tano dall’India, altri le com­prano da ita­liani». Che in que­sto modo gua­da­gnano due volte, dallo spac­cio e dallo sfrut­ta­mento del lavoro.
da ilmanifesto.it

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