Sul 15 ottobre. Bilancio e prospettive di un corteo
Cerchiamo, con questo comunicato di dare una lettura nostra alla giornata del 15. L’analisi e le riflessioni che escono sono il frutto ragionato di discussioni con tutti quegli studenti che hanno condiviso questa giornata nella sua totalità e che come noi hanno sentito l’esigenza di confrontarsi e di dialettizzare le loro impressioni circa il corteo, sottolineando a piu’ riprese la necessità di cominciare un percorso di lotta all’interno delle facoltà e fuori per le strade per riappropriarci di ciò che è nostro.
“Davanti a tutti i pericoli, davanti a tutte le minacce, le aggressioni, i blocchi, i sabotaggi, davanti a tutti i seminatori di discordia, davanti a tutti i poteri che cercano di frenarci, dobbiamo dimostrare, ancora una volta, la capacità del popolo di costruire la sua storia.”
EL CHE.
Partiamo dalla necessità di estendere il dibattito oltre il becero dualismo tra vittoria o sconfitta che il 15 ha rappresentato e rappresenterà, per far in modo che dal ragionamento emergano, tanto aspetti di criticità sullo sviluppo della giornata; quanto l’analisi di alcuni dati oggettivi da cui la costruzione di un percorso di lotta reale non può prescindere.
Ci sembra che ciò che si è espresso con maggiore evidenza sia stata l’inadeguatezza del movimento, tutto, di canalizzare, sin dal principio, la rabbia e la radicalità delle persone e dei soggetti scesi in piazza verso un obiettivo preciso e condiviso. E questa lacuna di indirizzo della propria azione politica, è necessario dirlo con altrettanta chiarezza, non è figlia della giornata del 15, ma di tutta l’organizzazione che è derivata dai momenti preparatori del 15 stesso. E in ultima istanza quindi frutto di un più generale scollamento tra chi pretende di “gestire” la piazza e la piazza stessa.
A tal proposito abbiamo da fare alcune considerazioni.
Cominciamo dalle parole d’ordine. Dobbiamo purtroppo riconoscere che molte di quelle che, nostro malgrado, hanno finito per diventare caratterizzanti quella giornata, non sono per niente in grado di esprimere rivendicazioni che vadano nel senso di un avanzamento .
Su questo aspetto siamo consapevoli che un semplice comunicato non può pretendere di essere esaustivo di un ragionamento che necessariamente deve essere complessivo, ma ci sembra utile cominciare a porre alcuni elementi di critica, proprio perché legati alla nostra analisi sulla mobilitazione del 15.
Vorremmo soffermarci, anche se brevemente, sulla questione del “diritto all’insolvenza”, che ci pare una rivendicazione che inevitabilmente scivola in un’ottica statal/nazionalista, in cui per uscire della crisi sembra necessario appellarsi al proprio stato, di fronte all’ingerenza della cattiva finanza internazionale e degli altri cattivi Stati europei che vogliono costringerci nei parametri del debito zero. Assolvendo così totalmente i “padroni nostrani” dalle loro responsabilità e non immettendo nessuna prospettiva unificante per il proletariato europeo che sta subendo da decenni gli stessi attacchi!
A nostro parere, in quest’ottica, cioè quella dell’individuazione di un nemico chiaro, i padroni, e di una prospettiva, altrettanto chiara, da costruire, cioè l’unificazione internazionale delle lotte e della classe sfruttata, parlare di “noi il debito non lo paghiamo” è già un passo avanti purché si riesca a declinare in modo più specifico e analitico: questo debito non ci riguarda, non lo hanno prodotto i lavoratori e quindi non è sulle spalle dei lavoratori che deve gravare!
E’ responsabilità di chi detiene i mezzi di produzione, è responsabilità di chi, per il proprio esclusivo profitto, ha generato le attuali condizioni economiche sia a livello nazionale che mondiale.
Per cui l’unico aspetto del debito che ci interessa è la necessità di rispedirlo al mittente, affinché a pagare questa crisi non siano, come sta purtroppo avvenendo, i soggetti sociali più ricattabili e sfruttati (lavoratori, studenti, disoccupati, immigrati, etc.) e che l’unica rivendicazione reale, che ci appartiene, è la riappropriazione dei nostri diritti; riappropriazione che va dall’opposizione a queste manovre di lacrime e sangue, che trasformano diritti conquistati con la lotta in privilegi per pochi (pensioni, sanità, trasporti,istruzione, etc.); fino ad arrivare all’ormai cancellato diritto allo sciopero.
Assumere parole d’ordine di questo tipo, avallate, anche, dalle compagini istituzionali ed istituzionalizzate, il cui unico interesse è mantenere i propri privilegi di ceto politico, non ha fatto altro che accentuare la mancanza di una reale compattezza del movimento stesso. Così come affrettarsi a dire che bisognasse violare la zona rossa, che fosse necessaria una forzatura verso i palazzi del potere, affinché la rabbia esplodesse in modo significativo, ma soprattutto in modo comprensibile, non è sufficiente a valutare il problema. Dire la cosa più giusta non necessariamente mette dalla parte del giusto.
Certo crediamo anche noi che non aver cercato di raggiungere i cosiddetti “i palazzi del potere”; luoghi simbolo di quelle misure che peggiorano le nostre già disastrate condizioni di vita (dai tagli ad ogni residuo di welfare alle leggi che, sempre più, precarizzano la condizione lavorativa) rappresenti un paradosso, proprio perché quei luoghi erano stati individuati, dai movimenti di tutto il mondo scesi in piazza il 15, come obiettivo da colpire.
Riteniamo che il movimento debba essere in grado di praticare una reale autocritica su quanto avvenuto, senza incolpare qualcuno della mancata capacità di capire la cosa giusta da fare o dell’impreparazione dimostrata nel realizzarla. L’opportunismo di chi non voleva che il corteo raggiungesse il centro, era stato smascherato già da un mese; il tempo per provare a dare alle cose una direzione differente, esisteva. Dovremmo tutti chiederci con onestà cosa ognuno di noi ha fatto affinché si riuscisse a violare la zona rossa; fino a dove ci si è spesi per riuscire a determinare la piazza e le discussioni che hanno preceduto il corteo. In che modo ci si è preparati, in piazza e fuori, ad assediare i palazzi dei bottoni? Senza queste risposte si rischia di uscire dal terreno della politica.
Sottolineiamo questi aspetti perché crediamo che il 15 debba esserci d’insegnamento. E riteniamo che uno di questi sia che occorre un’assunzione collettiva di responsabilità per caratterizzare gli appuntamenti in termini differenti da quelli aconflittuali proposti dai soliti opportunisti.
Un altro elemento che crediamo vada assolutamente posto in rilievo, è quello della composizione sociale dei soggetti protagonisti di quanto avvenuto in piazza S. Giovanni. Una questione che ci sembra tenga banco, riguarda la gente che non ha capito il significato di quanto stesse avvenendo. Molti condannano le pratiche delatorie ma al contempo tendono ad essere comprensivi verso quei manifestanti “spauriti” verso ciò che stava accadendo.Quelli che a piazza san giovanni accerchiavano la gente per consegnarla alla polizia.al contrario, capivano benissimo quello che accadeva e hanno cercato di fare in modo che non accadesse. E tutto questo non perché non fossimo vicino ai palazzi del potere, ma perché gli si stava rovinando il LORO (così dicevano…) corteo… cioè un corteo pacifico e privo di elementi di conflitto. Questi infami non hanno nulla della gente normale, basti pensare che avevano tra le mani le bandiere di partiti vari. Molto più rilevante è il fatto che la resistenza nella piazza non è stata preparata né gestita, né prevista da nessuna struttura. E’ stato proprio in quell’incrocio prima di San Giovanni in cui si è determinato il seguito di tutta la giornata: una volta incanalati dalle cariche non si è potuto far altro che resistere, non far occupare la piazza da celerini e blindati, non far raggiungere il corteo dai caroselli di camionette pronte ad investire chiunque si fosse trovato davanti. E’ proprio in questo frangente che è importante esprimere la nostra rivendicazione, rivendicazione di chi di fronte a lanci di lacrimogeni CS, cariche, caroselli e idranti sparati contro la gente non ha indietreggiato ed ha resistito per ore con rabbia e determinazione.
La piazza ha esondato scavalcando assemblee, strutture e reti varie. Questo dato è forse il più rilevante perché dimostra nitidamente che il protagonista della giornata è senza dubbio un soggetto sociale giovanissimo, rapidamente proletarizzato e che non ha alcun legame, storico e politico con i partiti. Una componente della classe verso cui le strutture del movimento non dimostrano di sapersi, o volersi, rivolgere. Questa inadeguatezza non si colma con una ridefinizione linguistica, ma con un ripensamento politico dei nostri interventi complessivi.
La rabbia di chi ha resistito in quella piazza è manifestazione diretta di un malessere economico e sociale, che inevitabilmente si acuisce nei periodi di endemica crisi del sistema capitalistico, rabbia e determinazione a cui anche noi siamo tenuti a dare uno sbocco.
E’ in quest’ottica che riscontriamo una differenza sostanziale con il 14 dicembre 2010, laddove percorsi portati avanti da studenti, lavoratori e disoccupati, hanno riversato in Piazza del Popolo quella radicalità espressa nei mesi precedenti di mobilitazione; in quella giornata si è riusciti ad individuare un obiettivo, come il Parlamento, simbolica sintesi di tutte quelle logiche di profitto e sfruttamento protette e sostenute dal sistema politico.
E’ proprio l’origine, o meno, da un percorso di lotta reale che distingue queste due giornate di forte conflittualità e ribadisce che, lì dove esiste un percorso di rivendicazione strutturato, l’elemento opportunista viene più facilmente marginalizzato. Con tutte le contestualizzazioni dovute, i percorsi di lotta messi in campo sia a Terzigno, sia in Val Susa, sono ulteriori esempi di come le lotte popolari riescano, con un lavoro quotidianamente portato avanti, a vivere di una rabbia consapevole, che diriga la propria azione politica verso l’individuazione e il raggiungimento di obiettivi comuni, tramite esperienze e pratiche di lotta che diventano patrimonio della collettività.
Di fronte ad esplosioni di dissenso di questa natura e portata non ci stupisce la violenza con cui l’apparato repressivo si scaglia a difesa dell’ordine costituito. E lo fa con tanta brutalità non solo perché attraversiamo una fase di crisi in cui storicamente gli spazi di agibilità democratica si riducono; ma anche perché il rischio che si creino dei percorsi di lotta che mettano realmente in discussione il sistema socio-economico in cui viviamo, deve essere stroncato sul nascere.
Non è un caso che i media ufficiali portino avanti una campagna delatoria tesa a criminalizzare le lotte sociali e a eliminare quel sentimento di solidarietà di classe fra chi è oppresso ogni giorno. In quest’ottica la trita retorica dei “black bloc”,della divisione tra buoni e cattivi è sempre utile allo scopo e ha un obiettivo chiaro come il sole: sminuire la portata del conflitto e isolare chi vuole attuare pratiche di critica al sistema che vadano oltre i palloncini colorati che invadono la zona rossa. Assai meno comprensibile, per usare un eufemismo, è se un tipo di logica del genere si sviluppa, nello stesso modo, e per le stesse motivazioni, internamente al movimento.
A partire dagli elementi analizzati e dalle criticità emerse, riteniamo che il 15 ottobre debba essere considerato come un punto di partenza per delineare una prospettiva unificante per classe, necessaria prerogativa su cui costruire progettualità e percorsi di lotta reali contro il sistema capitalistico, fondato su sfruttamento e miseria.
Esprimiamo la nostra solidarietà alle compagne e ai compagni vittime della repressione.
“ognuno di noi deve dare qualcosa, per fare in modo che alcuni di noi non siano costretti a dare tutto”.
A Carlo.
Studentifederico II
Colletivo SUN
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