E' in atto sulla scena internazionale una "guerra" economica, politica, strategica che ha come principali protagonisti l'imperialismo Usa e l'imperialismo russo, fatta in questo caso non con le armi, ma con il petrolio, usato dagli Usa per approfondire la crisi della Russia e affermare la sua egemonia economica, e chiaramente non solo, a livello internazionale.
Questa guerra viene fatta con un gioco al ribasso del prezzo del petrolio frutto essenzialmente del mantenimento di una sovrapproduzione del greggio (30 milioni di barili al giorno i sauditi), mentre vi è una domanda e consumi in calo frutto della crisi.
quali Iraq e Nigeria continuano massicciamente a estrarre. Le vendite di Baghdad, nonostante i tanti e gravi problemi interni, sono ai massimi dal 1980. Situazione simile anche per Lagos...
L’offerta è molto ampia anche in molti altri Paesi non membri del cartello.
Insomma la situazione generale del settore non è delle più incoraggianti e giusto ieri Citigroup ha tagliato le proprie stime per i prezzi del Brent per il 2015 da 80 a 63 dollari al barile e quelle del Wti da 72 a 55 dollari....
La sovrapproduzione nel sistema del capitale è sempre fattore di crisi, perchè comporta un aumento del'offerta e di conseguenza un abbassamento dei prezzi sul mercato; in genere la contromisura del capitale per mantenere alti i prezzi e i profitti è quella di ridurre/tagliare la produzione, anche con una distruzione della merce prodotta. In questo caso viene invece mantenuta al solo scopo di una lotta interimperialista.
Detto questo, anche da questa vicenda viene chiaro come una abbondante produzione di petrolio con un calo consistente del prezzo sarebbe tutta a vantaggio delle popolazioni; nel sistema del capitale e nell'imperialismo invece è usata per peggiorare le condizioni di vita dei popoli.
(Dall'art. di Manlio Dinucci) - Mentre il crollo del prezzo del
petrolio mette alle corde la Russia che, già in crisi per le sanzioni
Usa/Ue, vede retringersi gli sbocchi delle sue esportazioni
energetiche, gli Stati uniti stanno divenendo il maggiore
produttore mondiale di greggio, spiazzando l’Arabia Saudita, e
saranno presto non solo autosufficienti ma in grado di fornire
all’Unione europea petrolio e gas in abbondanza e a buon mercato.
Questa la narrazione diffusa dai media. Cerchiamo di riscriverla
in base alla realtà, partendo dall’interrogativo: perché sta calando
il prezzo del petrolio?
Il calo è dovuto non solo a fattori economici, come il rallentamento della domanda mondiale, ma a fattori geopolitici. Anzitutto la decisione dell’Arabia Saudita, maggiore esportatore petrolifero mondiale prima della Russia, di mantenere alta la produzione così che, crescendo l’offerta, diminuisca il prezzo del greggio.
Che interesse ha l’Arabia Saudita a effettuare tale manovra, che rischia di ridurre i suoi stessi introiti petroliferi? Quello di colpire altri paesi esportatori di petrolio, soprattutto Russia, Iran e Venezuela. Riyadh può permettersi tale manovra poiché i costi di estrazione del greggio saudita sono tra i più bassi al mondo, 5–6 dollari al barile, mentre estrarre un barile di petrolio dal Mare del Nord, ad esempio, costa oltre 26 dollari. L’idea che la manovra di Riyadh sia diretta anche contro gli Stati uniti, dove è iniziato il boom del petrolio da scisti, non è fondata. Sia perché gli Usa continuano a importare petrolio saudita, la cui qualità è adatta alle loro raffinerie, mentre il petrolio da scisti va a sostituire quello prima importato da Nigeria, Angola e Algeria. Sia perché la manovra sul petrolio è stata concordata da Washington con Riyadh in base alla strategia mirante anzitutto a indebolire e isolare la Russia. In tale quadro si inserisce il boom del petrolio e gas estratto, negli Usa, da scisti bituminosi con la tecnica della fratturazione idraulica, ossia della frantumazione delle rocce in strati profondi con acqua a pressione contenente sostanze chimiche. Tale tecnica è molto costosa: secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, estrarre petrolio da scisti costa 50–100 dollari al barile, a confronto dei 10 dollari al barile del petrolio mediorientale...
C’è poi da considerare che tale tecnica provoca danni ambientali gravissimi, il cui costo ricade sulle comunità locali... Il boom petrolifero Usa è dunque spinto dai fini geopolitici di Washington: da un lato colpire la Russia e altri paesi, dall’altro far sì che gli alleati europei sostituiscano alle forniture energetiche russe quelle statunitensi. In realtà gli Usa, i maggiori importatori mondiali di greggio, non potrebbero fornire all’Europa il loro petrolio e gas naturale alle quantità e ai prezzi di quelli russi. Un vero e proprio bluff del «poker americano» della guerra"
Il calo è dovuto non solo a fattori economici, come il rallentamento della domanda mondiale, ma a fattori geopolitici. Anzitutto la decisione dell’Arabia Saudita, maggiore esportatore petrolifero mondiale prima della Russia, di mantenere alta la produzione così che, crescendo l’offerta, diminuisca il prezzo del greggio.
Che interesse ha l’Arabia Saudita a effettuare tale manovra, che rischia di ridurre i suoi stessi introiti petroliferi? Quello di colpire altri paesi esportatori di petrolio, soprattutto Russia, Iran e Venezuela. Riyadh può permettersi tale manovra poiché i costi di estrazione del greggio saudita sono tra i più bassi al mondo, 5–6 dollari al barile, mentre estrarre un barile di petrolio dal Mare del Nord, ad esempio, costa oltre 26 dollari. L’idea che la manovra di Riyadh sia diretta anche contro gli Stati uniti, dove è iniziato il boom del petrolio da scisti, non è fondata. Sia perché gli Usa continuano a importare petrolio saudita, la cui qualità è adatta alle loro raffinerie, mentre il petrolio da scisti va a sostituire quello prima importato da Nigeria, Angola e Algeria. Sia perché la manovra sul petrolio è stata concordata da Washington con Riyadh in base alla strategia mirante anzitutto a indebolire e isolare la Russia. In tale quadro si inserisce il boom del petrolio e gas estratto, negli Usa, da scisti bituminosi con la tecnica della fratturazione idraulica, ossia della frantumazione delle rocce in strati profondi con acqua a pressione contenente sostanze chimiche. Tale tecnica è molto costosa: secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, estrarre petrolio da scisti costa 50–100 dollari al barile, a confronto dei 10 dollari al barile del petrolio mediorientale...
C’è poi da considerare che tale tecnica provoca danni ambientali gravissimi, il cui costo ricade sulle comunità locali... Il boom petrolifero Usa è dunque spinto dai fini geopolitici di Washington: da un lato colpire la Russia e altri paesi, dall’altro far sì che gli alleati europei sostituiscano alle forniture energetiche russe quelle statunitensi. In realtà gli Usa, i maggiori importatori mondiali di greggio, non potrebbero fornire all’Europa il loro petrolio e gas naturale alle quantità e ai prezzi di quelli russi. Un vero e proprio bluff del «poker americano» della guerra"
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