giovedì 30 luglio 2020

pc 30 luglio - Il caso Mario Paciolla in Colombia - info solidale


Mario Paciolla
Il corpo di Mario è stato ritrovato con segni di lacerazioni e in un primo momento le autorità colombiane hanno parlato di suicidio. Tuttavia le dichiarazioni di Anna Motta, la madre di Mario, hanno messo in dubbio fin da subito questa versione. Anna ha raccontato che suo figlio aveva
prenotato un volo di rientro in Italia per lo scorso 20 di luglio e che le aveva confidato di essersi messo in «un guaio», di «sentirsi sporco» e di non vedere l’ora di potersi bagnare «nelle acque di Napoli». Oltre alla madre, altre persone vicine a Mario hanno ritenuto inverosimile l’ipotesi del suo suicidio e le autorità colombiane hanno infine aperto un’indagine per omicidio.
SECONDO LA SUA AMICA Claudia Julieta Duque, giornalista e attivista per i diritti umani, già in giugno Mario aveva avuto un diverbio con la Missione di Verifica delle Nazioni unite con cui collaborava e in quell’occasione una collega lo aveva additato di essere una spia; inoltre aveva ricevuto un richiamo formale dai suoi superiori per aver manifestato il suo disaccordo per quella che riteneva una gestione discriminatoria da parte dell’Onu dell’emergenza Covid-19.
L’OMICIDIO DI MARIO Paciolla non può essere considerato un lampo a ciel sereno, ma si inserisce a pieno nel clima di violenza strutturale che attraversa il paese e nel fallimento del processo di pace che non ha portato benefici alla popolazione colombiana. Dalla firma degli Accordi del 2016, avvenuta a l’Avana sotto il governo Santos, sono stati uccisi più di 135 ex guerriglieri e 970 leader sociali e attivisti per i diritti umani. Il reintegro in società degli ex combattenti, prima attraverso il sistema delle Zone di Transizione e Normalizzazione (Zvtn), trasformate dal 15 agosto 2017 in Spazi Territoriali di Formazione e Reincorporazione, si è rivelato fallimentare. Già a un anno dagli Accordi era evidente l’ambiguità dei programmi di governo e la diffidenza dei quadri degli ex combattenti che denunciavano una sostanziale assenza da parte delle istituzioni e mostravano preoccupazione per la propria sicurezza e per l’esposizione agli attacchi dei gruppi paramilitari.

L’Avana, 2016. L’allora presidente colombiano Juan Manuel Santos, Raul Castro, e il delegato Farc Rodrigo Londono Echeverri
L’amministrazione dell’attuale presidente Ivan Duque, considerato dall’opinione pubblica un fantoccio del gruppo di potere di Álvaro Uribe – ex presidente di estrema destra contrario agli Accordi di Pace – è stata protagonista di diversi scandali e dell’implementazione di una politica della fermezza e del pugno duro. In questi mesi di emergenza Covid-19 il presidente non ha accettato la proposta di cessate il fuoco bilaterale proposto dall’altro storico gruppo guerrigliero colombiano, l’Eln. Gli scandali militari hanno fatto emergere l’altra faccia della politica intransigente dell’attuale presidente, come nel caso del bombardamento di una cellula dissidente delle Farc, avvenuto lo scorso 30 agosto proprio a San Vincente del Caguàn, che ha provocato la morte di almeno otto minori, a cui si aggiungono i casi di sequestro e stupro ai danni di bambine indigene compiuti dai soldati colombiani.
LA CORRUZIONE dell’attuale governo è stata messa in luce dal legame con il narcotrafficante Josè Guillermo Hernandèz alias Ñeñe, ucciso in Brasile nel 2019, che compare in diverse foto con i vertici della polizia, dell’esercito e dell’amministrazione di Duque, di cui è stato uno dei principali finanziatori e, secondo le intercettazioni, ha contribuito al suo trionfo elettorale con la compra-vendita di voti e l’influsso di capitale illecito. Si tratta dunque di un modello di governo corrotto e autoritario che si mostra in continuità con il suo padrino Alvaro Uribe, non a caso chiamato il Matarife (macellaio), dal titolo di una web-serie che lo accusa di genocidio e mostra le sue connessioni con i gruppi narco-paramilitari colombiani. La politica di guerra di Uribe diede il via al programma di Sicurezza democratica che promuoveva l’assassinio sistematico dei guerriglieri e che generò il fenomeno dei falsos positivos, una pratica dell’esercito colombiano che prevede il sequestro di civili dai quartieri marginali per poi ucciderli con addosso indumenti militari e dichiararli combattenti per riscuotere gli incentivi del governo.
SEMBRA CHE LO STATO colombiano, vincolato ai gruppi di potere del narcotraffico, del paramilitarismo e delle multinazionali, abbia interesse nel perpetrare il clima di violenza e conflitto contro le cellule dissidenti delle Farc e il gruppo guerrigliero Eln. Questo tipo di politica legata all’azione militare – legale e illegale – alimenta la sistematica violazione dei diritti umani e la sospensione delle garanzie costituzionali di protezione e sicurezza. Ne sono la prova l’uccisione di centinaia di leader sociali, le violenze contro le popolazioni indigene, la repressione del dissenso e l’implementazione di grandi opere estrattive senza consulta territoriale previa. Proprio San Vincente del Caguán, sede nei negoziati di pace falliti tra il 1999 e il 2002, si trova al centro degli interessi delle industrie petrolifere che ogni giorno trasportano barili di greggio sotto la supervisione e protezione dell’esercito. La militarizzazione dei territori fomenta il conflitto, distrugge il tessuto sociale e costringe intere comunità allo sfollamento forzato facilitando l’incursione delle multinazionali estrattive che non incontrano resistenza ai loro progetti.
Lo scorso autunno centinaia di migliaia di persone in tutto il paese hanno aderito allo sciopero generale indetto da decine di sigle sindacali, movimenti studenteschi, organizzazioni indigene e collettivi Lgbtqia+, al grido di «Ci hanno rubato anche la paura».
ANCHE SE LE MOBILITAZIONI sono iniziate in modo pacifico, la risposta dello Stato è stata brutale: militarizzazione delle città, coprifuoco, uccisione di manifestanti e criminalizzazione delle proteste sui media mainstream. Con l’arrivo della pandemia le proteste si sono fermate ma non la violenza contro gli attivisti e le attiviste delle comunità che difendono i territori. Dall’inizio della crisi pandemica in Colombia sono stati uccisi 95 attivisti. Il groviglio di interessi economici, criminali e politici che sorreggono la debole leadership di Duque, hanno tutto l’interesse nel mantenere alta la tensione e continuare a militarizzare il paese – principale alleato degli Stati uniti nella regione – per garantire lo sfruttamento delle materie prime e reprimere il dissenso. Come per il caso di Giulio Regeni, l’omicidio di Mario Paciolla si inserisce in uno spazio e in un tempo in cui la morte, la sparizione forzata e la tortura verso la dissidenza sociale rappresentano pratiche di repressione quotidiana. Le attiviste e gli attivisti con cui Mario ha collaborato in questi anni, facendo un lavoro di pressione sulle autorità affinché non si giungesse alle estreme conseguenze, conoscono bene il rischio che si corre nell’opporsi ai gruppi di potere che controllano il territorio colombiano. Accompagnare con il suo lavoro i movimenti sociali e la popolazione civile per limitare il rischio di attacchi violenti era una delle ragioni per cui Mario si trovava in Colombia.
NON SAPPIAMO QUALE fosse lo «sporco– con cui Mario sia entrato in contatto né quali fossero le ragioni della diatriba con i suoi superiori delle Nazioni unite che hanno preceduto la sua morte, di sicuro, però, la violenza che ha colpito il corpo di Mario va contestualizzata in un clima di guerra e di terrore che colpisce un intero Paese e che affonda le sue radici nei gruppi di interesse che lo governano. Mario è stato ammazzato come un attivista colombiano.
Gianpaolo Contestabile, Simone Scaffidi
da il manifesto

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