“Perché
spetta alla Francia e alla Germania evitare che riemerga lo scenario
“afghano” di una lunga lotta anti-terrorista senza un vero sbocco
politico. Contrariamente alle operazioni anti-jihadiste in
Afghanistan e in Iraq, dirette dagli Stati Uniti, la Francia e la
Germania portano la responsabilità principale di ciò che accade in
Sahel. Noi non possiamo (…) ritirare le nostre truppe come se
niente fosse”
Nils
Schmid, deputato e portavoce della SPD per le questioni
internazionali al Bundestag, 6 luglio 2020
Venerdì
10 luglio la capitale del Mali ha conosciuto la sua più importante
manifestazione di protesta contro l’attuale Presidente, il 75enne
Ibrahim Boubacar Keïta (“IBK”), da un mese a questa parte.
La
terza contro “IBK” rieletto per 5 anni nel 2018.
Il
Presidente, nel suo secondo discorso televisivo in una settimana, ha
annunciato sabato di aver “deciso di abrogare i decreti di nomina
dei membri restanti della Corte”, di fatto sciogliendo la Corte
Costituzionale, accusata di avere convalidato i dubbi risultati
elettorali usciti dalle urne questa
primavera, che avevano premiato esponenti del partito presidenziale. E’ stato questo il tentativo di tendere la mano agli oppositori.
primavera, che avevano premiato esponenti del partito presidenziale. E’ stato questo il tentativo di tendere la mano agli oppositori.
Sempre
nella sua allocuzione di sabato, ha affermato che avrebbe fatto
proprie le raccomandazioni della CEDEAO – la Comunità degli Stati
dell’Africa Occidentale – formulate il mese scorso a favore di un
nuovo svolgimento delle elezioni contestate.
Ma
l’opposizione, per ora, rifiuta qualsiasi proposta che non siano le
sue dimissioni.
Le
proteste hanno causato 4 morti ed una decina di feriti, secondo
RFI.
Le
manifestazioni hanno visto tra l’altro l’assalto ad edifici
governativi e sono continuate anche sabato, mentre alcuni leader
dell’opposizione sono stati arrestati. Tra cui Kaou Djim,
coordinatore del CMAS, e Clément Dembélé, presidente della
piattaforma anti-corruzione, nonché l’imam Oumarou Diarra, che ha
diretto la preghiera in piazza dell’Indipendenza il giorno della
mobilitazione.
Alcuni
esponenti dell’opposizione hanno chiamato alla “disobbedienza
civile” – come lo stesso Issa Kaou Djjim – ed al blocco degli
edifici governativi, mentre altri hanno invitato “alla calma”.
Nella
capitale Bamako l’impressione è quella di una situazione inedita,
dopo che proprio il 19 giugno uno dei capi carismatici della protesta
aveva calmato decine di migliaia di persone decise a marciare verso
Kouluba, il Palazzo presidenziale, per chiedere le dimissioni di
“IBK”.
Le
mobilitazioni sono iniziate venerdì 5 giugno, giorno che ha dato il
nome al composito movimento d’opposizione che coalizza le tre
maggiori espressioni della protesta: il CMAS di Mahmoud Dicko, il
Fronte di salvaguardia della democrazia (una coalizione di partiti
d’opposizione) e il movimento Espoir Mali Koura, del cineasta
Cheick Oumar Sissoko.
Di
fatto questo movimento è riuscito a catalizzare i molteplici
risentimenti nei confronti di una classe politica incapace di gestire
le varie fragilità emerse negli ultimi anni: dalla disastrosa
situazione sociale alla catastrofica situazione della sicurezza –
dagli attacchi jihadisti all’aggravarsi dei conflitti
intra-comunitari – fino alla presenza militare straniera, incapace
di risolvere la situazione dopo i primi successi contro le milizie
islamiche armate nel Nord del Paese, nell’ormai lontano 2012.
Le
due missioni ONU – di cui una, MINUSMA, dispone di 12mila effettivi
– e quella francese “Barkhane”, erede di “Serval”, sono
viste con sempre maggiore ostilità. La formazione dell’esercito e
dei servizi di sicurezza riposa essenzialmente su due programmi
europei: EUTM e UCAP, oltre che su 70 “progetti” finanziati da
accordi bilaterali.
“Sfortunatamente,
il loro approccio rivela un modello votato all’insuccesso”,
afferma in un intervento su Le
Monde Serge
Michailof, ricercatore all’Iris ed ex direttore delle operazioni
dell’Agenzia Francese dello Sviluppo.
La
figura più carismatica ed influente è l’imam Mahmoud Dicko, per
undici anni a capo dell’Alto Consiglio Islamico del Paese (HCIM) –
per il 95% il Mali è mussulmano, ma di tradizione malikita,
influenzata dal sufismo – e fondatore dell’organizzazione che
porta il suo nome (CMAS). La formazione non ha presentato candidati
anche perché la Costituzione vieta la formazione di partiti su base
religiosa.
Il
predicatore, figlio di una famiglia di letterati mussulmani, si è
formato prima nelle scuole islamiche in Mauritania e poi a Medina, in
Arabia Saudita, centro di indottrinamento wahabita per eccellenza per
studenti provenienti da tutto il mondo mussulmano. Anche se rifiuta
l’etichetta di salafita, definendosi solamente sunnita, è
promotore di un islam “rigorista”, che si è opposto a più
riprese alla secolarizzazione del Paese.
Nel
2009 ha impedito l’adozione di un Codice di Famiglia, approvato
dall’Assemblea Nazionale, che accordava maggiori diritti alle
donne. Ha valicato quella linea rossa che separava il mondo religioso
da quello politico, rifiutando di fatto la subordinazione del primo
al secondo, volgendosi progressivamente verso i bisogni popolari
piuttosto che verso le élites, nonostante il suo conservatorismo.
Il
suo contributo è stato fondamentale per la prima elezione di “IBK”
nel 2013, come elemento di catalizzazione di differenti
organizzazioni islamiche, ed è stato una specie di “ambasciatore”
informale del Presidente nei confronti del Paesi del Golfo, prima
della rottura tra i due.
È
stato fondamentale per la cacciata dell’ex primo ministro Soumeylou
Boubèye Maïga, ritenuto corresponsabile della recrudescenza delle
violenze nel Mali centrale, causate dalla formazione di milizie su
base etniche, che hanno contrapposto soprattutto chi vive di
pastorizia contro i coltivatori.
Boubèye
Maïga era un fautore della “linea dura”, che escludeva qualsiasi
dialogo con le formazioni islamiche armate, senza che però lo
scontro militare con queste ultime abbia sortito effetti rilevanti;
ha anzi moltiplicato le gravi perdite per i militari del Paese,
nonostante la cospicua presenza di militari stranieri.
Dicko
ha un ruolo chiave nel dialogo nel 2012 con la galassia jihadista,
essendosi recato di persona a Gao, per sostenere un dialogo con gli
islamisti del Mali, in particolare con Iyad ag-Ghali, oggi leader di
un gruppo affiliato ad Al-Qaeda, e del suo luogotenente nella regione
centrale, Hamadou Kouffa.
La
galassia jihadista pone l’allontanamento delle truppe straniere dal
Paese come condizione per instaurare un vero dialogo con il governo,
.
Il
29 Febbraio di quest’anno, nel corso di un meeting dai toni
infuocati, ha invitato il popolo del mali a “prendere il suo
destino in mano a partire dal venerdì” 86 marzo). Convocato dal
procuratore per queste sue affermazioni, la sua comparsa di fronte
alla giustizia è stata annullata all’ultimo momento a causa della
mobilitazione di migliaia di suoi seguaci che hanno circondato il
tribunale.
L’imam
non ha ristretto l’arco delle sue rivendicazioni all’affermazione
di un islam rigorista, ma si è fatto interprete delle differenti
frustrazioni della popolazioni, accumulatesi nel corso degli anni,
rappresentando così una alternativa per ampi strati di giovani
istruiti e per l’intelligentsia, con una impostazione che lo
studioso del CNRS ha definito “una sorta di salafismo
repubblicano”.
La
sua critica al malgoverno si sposa con il rifiuto della presenza
militare straniera, cosa che non può che preoccupare in primis la
Francia, ma in generale i Paesi dell’Unione Europea.
La
Germania, per esempio, contribuisce fino ad un massimo di 1.100
soldati alle due missioni ONU nel Paese, ed ha aumentato a 450 i suoi
effettivi per l’EUTM, oltre ad aumentare il proprio perimetro
d’azione a tutto il Sahel.
Dicko,
chiedendo le dimissioni del Presidente e rendendosi indisponibile
finora ad una trattativa su un profilo più basso, ha di fatto
“varcato il Rubicone”, radicalizzando l’opposizione e
proponendosi come una figura chiave nella transizione dell’uscita
della crisi.
I
regimi che si erano succeduti,fino ad un certo momento, hanno di
fatto favorito l’egemonia salafita all’interno dell’Alto
Consiglio Islamico del Mali, nonostante si trattasse di una
componente “minoritaria” ma molto bene organizzata, che è
progressivamente riuscita ad insediarsi negli snodi centrali del
potere economico e politico.
Questa
è stata la base di partenza dell’estensione del suo consenso in
ambito politico.
Nel
2012, poi, il suo contributo è stato fondamentale nella prima
elezione dell’attuale presidente, per il quale uno degli stretti
collaboratori dell’imam ha mobilitato “più di duecento movimenti
islamici attorno alla coalizione Sebati 2012, contribuendo largamente
all’elezione al primo turno di IBK”, afferma Bakary Sambe,
direttore del Timbuktu Institute in un commento su Le
Monde.
In
una terza fase, dopo il già ricordato ruolo di “ambasciatore
informale”, è stato il catalizzatore del discredito politico
dell’attuale classe dirigente, mentre la situazione precipitava
nei mesi scorsi a causa dell’emergenza pandemica. Una scelta
simile a quella effettuata da altri uomini del Presidente, che da ex
ministri hanno infoltito le fila dell’opposizione.
Ora
è una delle chiavi di volta di una crisi che aumenta l’incertezza
geo-politica nella regione.
“Può
certamente mettere la Francia alla porta e chiamare russi e cinesi
alla riscossa. Può rivelarsi come un Khomeini maliano”, afferma
Serge Michailof nel citato intervento sul quotidiano francese.
Il
Sahel è uno dei terreni in cui l’asse di cooperazione militare
franco-tedesco si sta consolidando, dando così vita a quella più
volte invocata “autonomia strategica” della UE.
È
un terreno di sperimentazione di una strategia politica neo-coloniale
che non si basa solo sulla presenza militare, ma che prova ad
affrontare un dialogo con le formazione islamiche armate e la
“ricostruzione” di una autorità statale. Ma in uno scenario
politico cangiante ed incerto, nessuno assicura che l’ipoteca
neo-coloniale dell’Unione Europa non venga scalzata.
Il
passato coloniale, la “gabbia economica” costituita dal Franco
CFA – in procinto di cambiare nome, ma non la sostanza di cappio al
collo economico – una presenza militare resasi protagonista di
violenze sulla popolazione, che hanno favorito l’arruolamento nelle
file degli jihadisti, un ruolo politico che ha foraggiato una
clientela fedele all’“Africa francese” strutturalmente
corrotta, non depongono a favore degli storici attori europei nella
regione.
Un
incubo per Parigi, oltre che per Berlino e Bruxelles.
Che
sia il Mali l’anello debole della strategia neo-coloniale
dell’Unione in Sahel? Le mobilitazioni di queste settimane
sembrerebbero propendere per una risposta positiva.
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