sabato 11 gennaio 2020

pc 11 gennaio - La guerra per il petrolio in Iraq all’interno della crisi economica mondiale: Usa, Cina, Russia, Francia, Italia… fra controllo e concorrenza per la maggiore materia prima

L’Iraq è tra i grandi produttori di petrolio e potrebbe in pochi anni eguagliare l’Arabia Saudita. Lo scontro in atto fondamentalmente tra paesi imperialisti è fondato sulla necessità di impossessarsi, controllare e impedire ad altri paesi la possibilità di gestire questa fondamentale materia prima.


In particolare, l’imperialismo degli Stati Uniti, diventato esportatore di petrolio, prova a ostacolare questa concorrenza che coinvolge tutta l’area del Medio Oriente (e tutto il mediterraneo fino alla Libia) e altri paesi imperialisti come l’Italia (presente in Iraq con l’Eni).
Molti paesi, dopo che nel 2009 il governo iracheno ha aperto agli stranieri la possibilità di sfruttare i giacimenti, hanno instaurato rapporti economici con il Paese.

La Cina: “Negli ultimi 10 anni la presenza cinese nel settore degli idrocarburi iracheni è cresciuta sensibilmente. Fino a divenire il maggior operatore in Iraq, Paese con cui ha un interscambio superiore ai 30 miliardi di dollari e da cui acquista più di un terzo di tutto il petrolio che produce.”

La Russia: “Anche la Russia ha accresciuto i suoi assets energetici in Iraq. Negli ultimi 10 anni le sue compagnie energetiche hanno investito oltre 10 miliardi di dollari. Tra i contratti più significativi c’è la partecipazione di Lukoil nello sviluppo di WestQurna-2, a Bassora, che rappresenta da solo il 9% della produzione irachena.”

Sono presenti anche l’imperialismo francese, anglo-olandese, l'italiano e perfino la Malesia.

L’articolo che riproduciamo del Sole24Ore del 7 gennaio spiega, dal punto di vista della borghesia, i motivi legati al petrolio che portano a queste fiammate di guerra.

***
Iraq, potenza petrolifera che insidia l’Arabia

Se avessero immaginato cosa sarebbe accaduto il 3 gennaio del 2020, probabilmente avrebbero rinviato i loro piani. Ma non potevano sapere cosa passava per la testa del presidente americano Donald Trump. E così, meno di quattro mesi prima del raid americano che ha ucciso a Baghdad il “super generale” iraniano Qassem Soleimani, alcune compagnie energetiche cinesi (tra cui Hilong Oil Service & Engineering Co), confidando nelle grandi potenzialità petrolifere dell’Iraq, portavano avanti quel processo di “cinesizzazione” dell’industria energetica irachena, firmando un contratto per lo sviluppo di 80 piccoli pozzi dell’enorme giacimento di Majnoon. Proprio vicino a Bassora, la più
grande città dell’Iraq meridionale. Talmente vicina all’Iran che negli uffici i suoi funzionari parlano spesso la lingua farsi. 
Tra i Governi stranieri che guardano con apprensione a ciò che sta accadendo in queste ore in Iraq c’è sicuramente quello di Pechino. Più che per questioni di politica (la Cina ha sempre preferito la linea della non interferenza negli affari interni ed internazionali dei Paesi con cui commercia) [gli investimenti economici negli altri paesi sono un modo per interferire nelle loro politiche, come il cosiddetto aiuto alla ricostruzione!, ndr], per interessi economici. Negli ultimi 10 anni la presenza cinese nel settore degli idrocarburi iracheni è cresciuta sensibilmente. Fino a divenire il maggior operatore in Iraq, Paese con cui ha un interscambio superiore ai 30 miliardi di dollari e da cui acquista più di un terzo di tutto il petrolio che produce. In più occasioni quest’anno businessman cinesi e membri del Governo iracheno stavano cercando di mettere a punto un nuovo piano: “Oil for Reconstruction”. Ovvero, la ricostruzione di questo Paese, messo in ginocchio da 4 anni di guerra con l’Isis, in cambio di contratti e forniture energetiche.

Il Governo di Pechino, con il suo potente braccio (le grandi major statali cinesi) ci aveva visto bene, l’Iraq è ancora un Eldorado del petrolio. Divenuto da alcuni anni il secondo esportatore dell’Opec, ha accelerato la produzione portandola nel 2019 sopra i 4,7 milioni di barili al giorno (mbg). Il doppio rispetto a 10 anni fa. È un quantitativo perfino superiore rispetto al suo tetto produttivo. D’altronde questo Paese torrido vanta un’invidiabile dote energetico: 150 miliardi di barili di greggio, le quinte riserve del pianeta. Un volume a cui si possono facilmente aggiungere, sostengono molti geologi, almeno altri 100 miliardi di barili di riserve non accertate ma molto probabili. Se poi si considera che il greggio iracheno è uno di quelli con i costi di produzione più bassi, si capisce come gli obiettivi, resi noti dal Governo di Baghdad questa estate dopo la riconferma delle sanzioni Usa contro l’Iran, siano molto ambiziosi: portare la produzione di greggio a 6,2 milioni di barili di greggio al giorno entro il 2020 e arrivare fino a 9 milioni già nel 2023. Quasi quanto l’attuale produzione saudita.

Forse solo altri due Paesi in tutto il modo potrebbero fare così tanto in così poco tempo. Guerra permettendo. Per centrare questo traguardo sono necessari grandi investimenti infrastrutturali, soprattutto quelli per riammodernare l’industria petrolifera. Cosa che potrebbe avvenire in un quadro di stabilità. Certo non quello odierno in Iraq. Invece di dare il via a un confronto militare diretto, è più probabile che l’Iran scelga l’Iraq come terreno per portare avanti le azioni di rappresaglia contro gli americani, promesse dopo l ‘uccisione di Soleimani. Uno scenario che paralizzerebbe il paese.

Finora l’industria petrolifera irachena non ha accusato pesanti contraccolpi. Nonostante le grandi tensioni di questi giorni, le compagnie petrolifere, straniere e irachene, stanno mantenendo i consueti volumi produttivi. Ma la paura è tanta. Tanto che l’americana Exxon Mobil ha evacuato tutto il personale straniero. Altre compagnie si sono chiuse in un riservato no comment. Ma è plausibile che, se la situazione non dovesse migliorare, faranno lo stesso. Ma le major energetiche internazionali sono indispensabili per l’Iraq. Rappresentano quasi due terzi della produzione attuale. La loro tecnologia, ed i loro investimenti, sono indispensabili se Baghdad vuole mantenere gli attuali ritmi estrattivi, ancora di più se punta ad aumentarli. [Le “major” sarebbero le multinazionali dei paesi imperialisti imposte con la guerra! ndr].

Qualcosa tuttavia è cambiato. Nel dizionario dell’energia l’Iraq parla sempre meno americano e sempre di più altre lingue. Nel 2003 gli Stati Uniti dell’allora presidente George W. Bush hanno rovesciato rapidamente il regime di Saddam Hussein. La guerra ha tuttavia comportato uno sforzo economico non indifferente, cresciuto oltre ogni immaginazione nei sei anni successivi per fronteggiare la guerra contro il terrorismo portato avanti dai gruppi qaedisti. Centinaia di miliardi di dollari e migliaia di vittime tra i militari americani. Eppure, quando, nel 2009, l’Iraq ha aperto il suo tesoro petrolifero alle major straniere (la prima volta nell’era del dopo Saddam), all’appello mancava proprio chi si pensava facesse incetta dei suoi grandi giacimenti: gli americani.

I contratti vinti dalle compagnie a stelle e strisce, per quanto ancora consistenti, erano subito apparsi molti di meno di quanto ci si attendesse. Ne approfittarono le compagnie cinesi, russe, francesi, anglo-olandesi (Shell), malesi. “Abbiamo perso. I cinesi non hanno avuto alcun ruolo nella guerra ma da un punto di vista economico ne stanno beneficiando. La nostra quinta flotta e la nostra aviazione li stanno aiutando ad assicurarsi l’offerta (di greggio, ndr)”, aveva dichiarato l’anno scorso al New York Michael Makovsky, ex funzionario del Dipartimento americano della Difesa. Un punto di vista che trova riscontro sul terreno. Anche la Russia ha accresciuto i suoi assets energetici in Iraq. Negli ultimi 10 anni le sue compagnie energetiche hanno investito oltre 10 miliardi di dollari. Tra i contratti più significativi c’è la partecipazione di Lukoil nello sviluppo di WestQurna-2, a Bassora, che rappresenta da solo il 9% della produzione irachena. Non è un segreto che il Cremlino punti a consolidare la sua presenza, anche energetica, in questi Paesi mediorientali dove si è ridotta quella americana.

Il mondo attende con ansia le prossime mosse di Teheran. Una guerra aperta, che paralizzasse l’export iracheno, iraniano e in parte saudita, provocherebbe uno shock petrolifero mondiale. Ma anche se le ostilità fossero limitate all’Iraq, fare a meno del suo greggio non sarebbe indolore.

Il Sole 24 Ore 7 gennaio 2020

Nessun commento:

Posta un commento