In particolare, l’imperialismo
degli Stati Uniti, diventato esportatore di petrolio, prova a ostacolare questa
concorrenza che coinvolge tutta l’area del Medio Oriente (e tutto il
mediterraneo fino alla Libia) e altri paesi imperialisti come l’Italia
(presente in Iraq con l’Eni).
Molti paesi, dopo che nel 2009 il
governo iracheno ha aperto agli stranieri la possibilità di sfruttare i
giacimenti, hanno instaurato rapporti economici con il Paese.
La Cina: “Negli ultimi 10 anni la
presenza cinese nel settore degli idrocarburi iracheni è cresciuta
sensibilmente. Fino a divenire il maggior operatore in Iraq, Paese con cui ha
un interscambio superiore ai 30 miliardi di dollari e da cui acquista più di un
terzo di tutto il petrolio che produce.”
La Russia: “Anche la Russia ha
accresciuto i suoi assets energetici in Iraq. Negli ultimi 10 anni le sue
compagnie energetiche hanno investito oltre 10 miliardi di dollari. Tra i
contratti più significativi c’è la partecipazione di Lukoil nello sviluppo di
WestQurna-2, a Bassora, che rappresenta da solo il 9% della produzione
irachena.”
L’articolo che riproduciamo del Sole24Ore
del 7 gennaio spiega, dal punto di vista della borghesia, i motivi legati al petrolio che portano
a queste fiammate di guerra.
***
Iraq, potenza petrolifera che
insidia l’Arabia
Se avessero immaginato cosa
sarebbe accaduto il 3 gennaio del 2020, probabilmente avrebbero rinviato i loro
piani. Ma non potevano sapere cosa passava per la testa del presidente
americano Donald Trump. E così, meno di quattro mesi prima del raid americano
che ha ucciso a Baghdad il “super generale” iraniano Qassem Soleimani, alcune
compagnie energetiche cinesi (tra cui Hilong Oil Service & Engineering Co),
confidando nelle grandi potenzialità petrolifere dell’Iraq, portavano avanti
quel processo di “cinesizzazione” dell’industria energetica irachena, firmando
un contratto per lo sviluppo di 80 piccoli pozzi dell’enorme giacimento di
Majnoon. Proprio vicino a Bassora, la più
grande città dell’Iraq meridionale. Talmente vicina all’Iran che negli uffici i suoi funzionari parlano spesso la lingua farsi.
grande città dell’Iraq meridionale. Talmente vicina all’Iran che negli uffici i suoi funzionari parlano spesso la lingua farsi.
Tra i Governi stranieri che
guardano con apprensione a ciò che sta accadendo in queste ore in Iraq c’è
sicuramente quello di Pechino. Più che per questioni di politica (la Cina ha
sempre preferito la linea della non interferenza negli affari interni ed
internazionali dei Paesi con cui commercia) [gli investimenti economici negli
altri paesi sono un modo per interferire nelle loro politiche, come il
cosiddetto aiuto alla ricostruzione!, ndr], per interessi economici.
Negli ultimi 10 anni la presenza cinese nel settore degli idrocarburi
iracheni è cresciuta sensibilmente. Fino a divenire il maggior operatore in
Iraq, Paese con cui ha un interscambio superiore ai 30 miliardi di dollari e da
cui acquista più di un terzo di tutto il petrolio che produce. In più occasioni
quest’anno businessman cinesi e membri del Governo iracheno stavano cercando di
mettere a punto un nuovo piano: “Oil for Reconstruction”. Ovvero, la
ricostruzione di questo Paese, messo in ginocchio da 4 anni di guerra con
l’Isis, in cambio di contratti e forniture energetiche.
Il Governo di Pechino, con il suo
potente braccio (le grandi major statali cinesi) ci aveva visto bene, l’Iraq
è ancora un Eldorado del petrolio. Divenuto da alcuni anni il secondo
esportatore dell’Opec, ha accelerato la produzione portandola nel 2019 sopra i
4,7 milioni di barili al giorno (mbg). Il doppio rispetto a 10 anni fa. È
un quantitativo perfino superiore rispetto al suo tetto produttivo. D’altronde
questo Paese torrido vanta un’invidiabile dote energetico: 150 miliardi di
barili di greggio, le quinte riserve del pianeta. Un volume a cui si possono
facilmente aggiungere, sostengono molti geologi, almeno altri 100 miliardi di
barili di riserve non accertate ma molto probabili. Se poi si considera che il
greggio iracheno è uno di quelli con i costi di produzione più bassi, si
capisce come gli obiettivi, resi noti dal Governo di Baghdad questa estate dopo
la riconferma delle sanzioni Usa contro l’Iran, siano molto ambiziosi: portare
la produzione di greggio a 6,2 milioni di barili di greggio al giorno entro
il 2020 e arrivare fino a 9 milioni già nel 2023. Quasi quanto l’attuale
produzione saudita.
Forse solo altri due Paesi in
tutto il modo potrebbero fare così tanto in così poco tempo. Guerra
permettendo. Per centrare questo traguardo sono necessari grandi
investimenti infrastrutturali, soprattutto quelli per riammodernare l’industria
petrolifera. Cosa che potrebbe avvenire in un quadro di stabilità. Certo non
quello odierno in Iraq. Invece di dare il via a un confronto militare diretto,
è più probabile che l’Iran scelga l’Iraq come terreno per portare avanti le
azioni di rappresaglia contro gli americani, promesse dopo l ‘uccisione di
Soleimani. Uno scenario che paralizzerebbe il paese.
Finora l’industria petrolifera
irachena non ha accusato pesanti contraccolpi. Nonostante le grandi tensioni di
questi giorni, le compagnie petrolifere, straniere e irachene, stanno
mantenendo i consueti volumi produttivi. Ma la paura è tanta. Tanto
che l’americana Exxon Mobil ha evacuato tutto il personale straniero. Altre
compagnie si sono chiuse in un riservato no comment. Ma è plausibile che, se la
situazione non dovesse migliorare, faranno lo stesso. Ma le major
energetiche internazionali sono indispensabili per l’Iraq. Rappresentano quasi
due terzi della produzione attuale. La loro tecnologia, ed i loro investimenti,
sono indispensabili se Baghdad vuole mantenere gli attuali ritmi estrattivi,
ancora di più se punta ad aumentarli. [Le “major” sarebbero le
multinazionali dei paesi imperialisti imposte con la guerra! ndr].
Qualcosa tuttavia è cambiato. Nel
dizionario dell’energia l’Iraq parla sempre meno americano e sempre di più
altre lingue. Nel 2003 gli Stati Uniti dell’allora presidente George W. Bush
hanno rovesciato rapidamente il regime di Saddam Hussein. La guerra ha
tuttavia comportato uno sforzo economico non indifferente, cresciuto oltre ogni
immaginazione nei sei anni successivi per fronteggiare la guerra contro il terrorismo
portato avanti dai gruppi qaedisti. Centinaia di miliardi di dollari e migliaia
di vittime tra i militari americani. Eppure, quando, nel 2009, l’Iraq ha
aperto il suo tesoro petrolifero alle major straniere (la prima volta nell’era
del dopo Saddam), all’appello mancava proprio chi si pensava facesse incetta
dei suoi grandi giacimenti: gli americani.
I contratti vinti dalle compagnie
a stelle e strisce, per quanto ancora consistenti, erano subito apparsi molti
di meno di quanto ci si attendesse. Ne approfittarono le compagnie cinesi,
russe, francesi, anglo-olandesi (Shell), malesi. “Abbiamo perso. I
cinesi non hanno avuto alcun ruolo nella guerra ma da un punto di vista
economico ne stanno beneficiando. La nostra quinta flotta e la nostra aviazione
li stanno aiutando ad assicurarsi l’offerta (di greggio, ndr)”, aveva
dichiarato l’anno scorso al New York Michael Makovsky, ex funzionario del
Dipartimento americano della Difesa. Un punto di vista che trova riscontro sul
terreno. Anche la Russia ha accresciuto i suoi assets energetici in Iraq.
Negli ultimi 10 anni le sue compagnie energetiche hanno investito oltre 10
miliardi di dollari. Tra i contratti più significativi c’è la partecipazione di
Lukoil nello sviluppo di WestQurna-2, a Bassora, che rappresenta da solo il 9%
della produzione irachena. Non è un segreto che il Cremlino punti a consolidare
la sua presenza, anche energetica, in questi Paesi mediorientali dove si è
ridotta quella americana.
Il mondo attende con ansia le
prossime mosse di Teheran. Una guerra aperta, che paralizzasse l’export
iracheno, iraniano e in parte saudita, provocherebbe uno shock petrolifero
mondiale. Ma anche se le ostilità fossero limitate all’Iraq, fare a meno del
suo greggio non sarebbe indolore.
Il Sole 24 Ore 7 gennaio 2020
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