di Manuela Gatti e Ambra Orengo | 29 Aprile 2019
di Manuela Gatti e Ambra Orengo | 2
Al momento in Italia, secondo l’Aiom, sono 5.500 le persone affette di mesotelioma, tumore che si
sviluppa sul mesotelio, la membrana che riveste la parete interna di torace, addome e cuore. A provocarlo – fatta eccezione per casi molto rari e circostanziati – è l’esposizione all’amianto: le fibre cancerogene si depositano soprattutto sulla pleura, la pellicola che avvolge i polmoni, e lì si annidano. La patologia colpisce di più la popolazione maschile, anche alla luce della storia lavorativa individuale: dei 1.800 casi stimati per il 2018, 1.300 riguardano uomini e 500 donne. L’incidenza più alta è tra gli over 60, anche dato il lungo periodo di latenza: il tumore può palesarsi anche dopo 40 anni dall’inalazione dell’asbesto.
Tesi diverse, esiti giudiziari opposti
Milano è il simbolo della complessità giudiziaria della materia. Pirelli, Breda, La Scala, Alfa Romeo: la maggior parte dei processi in cui sono imputati i dirigenti delle aziende i cui dipendenti si sono ammalati di mesotelioma si è finora conclusa con assoluzioni. Pirelli è stata portata in tribunale sia nel capoluogo lombardo sia in quello piemontese: una vicenda giudiziaria all’apparenza speculare che però ha avuto esiti opposti. Nel maggio del 2017 il quarto processo Pirelli di Settimo Torinese ha visto condannati in primo grado sei ex dirigenti dello stabilimento. A Milano i sette ex manager dei poli di viale Sarca e via Ripamonti, imputati per la morte di 28 operai, sono stati assolti fino in Cassazione. spiegare perché i giudici a volte decidono in un senso e altre volte in un altro è Dario Mirabelli, medico, ex responsabile del Registro Mesoteliomi del Piemonte, consulente dei pubblici ministeri in diversi processi sull’amianto nei luoghi di lavoro, tra cui quelli che hanno coinvolto l’Eternit a Torino e la Montefibre a Verbania. Mirabelli spiega che l’orientamento della comunità scientifica non è univoco. Anni fa a sostegno della difesa era in voga la teoria della “dose killer”: per ammalarsi sarebbe stata sufficiente una dose “x” di amianto, ma nessuno è mai stato in grado di definire a quanto ammonti questa quantità. Oggi gli esperti che stanno dalla parte delle aziende portano avanti una teoria più articolata per impedire l’attribuzione di responsabilità ai manager. “Sostengono che vadano prese in considerazione solo le esposizioni iniziali all’asbesto che risalgono ai momenti più remoti della storia lavorativa di quella persona – spiega Mirabelli – Tutte le esposizioni successive, in base a questo ragionamento, non hanno alcuna influenza sull’insorgere della malattia”. Una tesi, dice l’esperto, che nella stragrande maggioranza dei casi non permette di perseguire penalmente i dirigenti perché si va troppo indietro nel tempo, i diretti interessati non ci sono più o il reato è prescritto.
Più amianto respiri, più sei a rischio
Un’altra fetta di ricercatori si è però schierata a favore di un’altra tesi che mette in correlazione l’esposizione prolungata all’amianto con il rischio di sviluppare il mesotelioma. Interpretazione che nei processi viene solitamente presentata dall’accusa, perché riconosce anche ai manager che si sono succeduti negli anni la responsabilità di non aver bonificato gli stabilimenti. Mirabelli concorda con questa tesi. “Chi appoggia la teoria delle esposizioni iniziali non prende in considerazione i numerosi studi a disposizione: ricerche condotte su lavoratori esposti all’asbesto da decenni e studi autoptici su persone morte di mesotelioma hanno dimostrato univocamente una relazione di proporzionalità tra la quantità di esposizione alla fibre e la probabilità di ammalarsi”. Più si respira amianto, dunque, più fibra si deposita sui polmoni e più è probabile che si formi il tumore o si acceleri la malattia
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