"Potere al popolo": una lettera alla sinistra - infoaut
Scorciatoie in avanti e balzi all'indietro
24 Novembre 2017 | in EDITORIALE. infoaut
Genova
L’assemblea
convocata dai compagni e dalle compagne dell’ex opg a Roma è stato un
evento che segna una netta discontinuità con le pratiche che, nel
recente passato, hanno contraddistinto la sinistra radicale. Una
discontinuità che va assolutamente evidenziata senza tuttavia omettere
quelli che a noi paiono come i limiti della proposta.
Anzitutto
la composizione della platea e degli interventi hanno evidenziato che a
essere protagonisti del progetto sono quei compagni e compagne che
vediamo nelle lotte, nei cortei e al nostro fianco
negli scioperi. Per una volta il palco è stato loro e non dei professionisti del disastro che normalmente guidano i processi, soprattutto quelli elettorali. La presenza della sinistra “ufficiale” è rimasta, dunque, sullo sfondo ed è apparso ben chiaro che, se il processo avrà senso e fortuna, a guidarlo dovrà essere quella platea di attivisti e attiviste che si sono alternati negli interventi.
negli scioperi. Per una volta il palco è stato loro e non dei professionisti del disastro che normalmente guidano i processi, soprattutto quelli elettorali. La presenza della sinistra “ufficiale” è rimasta, dunque, sullo sfondo ed è apparso ben chiaro che, se il processo avrà senso e fortuna, a guidarlo dovrà essere quella platea di attivisti e attiviste che si sono alternati negli interventi.
Inoltre,
fa ben sperare la presenza di un folto gruppo di giovani compagni e
compagne che possono garantire quel ricambio generazionale di cui
abbiamo bisogno per liberarci da una sindrome della sconfitta che ha
colpito tutti gli attivisti, anche coloro che in questi anni sono
rimasti coerentemente dal lato giusto della barricata.
L’impressione
è quindi che in assemblea ci fossero presenti i nostri compagni e non
quelli che in questi anni abbiamo verificato non essere più i nostri
amici, ma molto spesso nemici, coloro che sono abili nell’intestarsi
lotte e mobilitazioni per sfruttarle a fini carrieristici del tutto
personali.
Vogliamo
essere chiari: se non ci interessa più di tanto la retorica della
costruzione dal basso o l’idea che il problema stia semplicemente nella
forma partito novecentesca (lasciamo queste trattazioni alla cosiddetta
“società civile”, i cui danni prima o poi andranno quantificati),
dobbiamo anche affermare che siamo stufi di essere accomunati ad ex
partiti le cui strutture di base semplicemente non esistono più o si
sono trasformate in meri comitati elettorali o di gestione del potere,
che negli anni hanno distrutto ogni idea di alternativa.
Un
primo elemento positivo dell’assemblea del Teatro Italia sta tutto qui.
Non è poco, è la precondizione per fare qualcosa di serio, una
condizione che ad oggi è sempre mancata.
Potere al Popolo
Viviamo
in una società che tende ad escludere da pur minimi livelli di tutela
una larga parte della popolazione. La crisi non risparmia nessuno e se
ad essere colpite sono soprattutto le fasce più deboli (lavoratori,
precari, disoccupati e immigrati), non viene nemmeno risparmiata una
buona parte di piccola borghesia. Siamo cioè nella situazione in cui
esistono (per dirla con Laclau) ampi strati di popolazione le cui
richieste (il più delle volte legittime) non possono essere evase dai
“soliti” rappresentanti. Ciò crea quel fenomeno in cui si manifesta la
suddivisione tra gli “esclusi” e il “potere” che è tipica dell’insorgere
di una contronarrazione populista.
Ne
prendiamo atto e non riteniamo neppure particolarmente negativa l’idea
di tirare giù un programma in pochi punti facilmente comprensibili da
tutti. D’altronde, se Laclau ci insegna qualcosa è che il populismo
rappresenta, soprattutto, un elemento discorsivo e ben si adatta a
talune situazioni (specie quelle elettorali).
Contemporaneamente,
occorre avere ben presente che gli interessi dei lavoratori sono molto
diversi dagli interessi di altri settori sociali e che la differenza,
per noi, sta tra sfruttati e sfruttatori e non tra “popolo” ed “elite”.
Questa specificazione non è di poco conto.
Durante
il dibattito nell’assemblea è emersa più volte la necessità di porre
paletti precisi alla discussione. In particolare è stato toccato il tema
delle nazionalizzazioni delle imprese strategiche e dei rapporti con i
poteri della UE. Noi non crediamo che questi temi siano divisivi, anzi
siamo convinti che vadano discussi.
Per
farlo, visto che sulla questione si confronteranno ipotesi diverse,
riteniamo necessaria l’elaborazione di riflessioni attente, che
inseriscano nel dibattito un fatto al momento sottostimato rispetto al
suo potenziale dirompente. Ci riferiamo al processo di divaricazione tra
politica e potere, per cui la politica è sempre più ridotta entro i
canoni del “talent show” con cui si rappresenta la formalità dei
processi democratici, mentre il potere diventa appannaggio di una
“aristocrazia tecnica” ormai in grado di guidare la macchina
amministrativa e burocratica di uno Stato senza più la necessità di
alcun indirizzo politico, ormai determinato a livello sovranazionale e
collettivamente normalizzato da una cultura che, nonostante 10 anni di
crisi, continua a considerare l’ordine del profitto privato come l’unico
orizzonte delle relazioni sociali, politiche e produttive di una
società.
Quanto
appena affermato, inevitabilmente cozza con la “urgenza elettorale” che
accompagna il progetto dei compagni napoletani, ma svela un tema più
strategico: la mancanza di una organizzazione di classe adeguata
all’assetto con cui il modo di produzione capitalista ha, oggi,
ristrutturato la gestione del potere nella società in cui viviamo.
Unire le lotte esigenza primaria
Siccome
non nasciamo ieri sappiamo benissimo che se i compagni dell’ex Opg
avessero lanciato una assemblea nazionale in cui la piattaforma
prevedesse la creazione di una struttura permanente di sostegno a lotte e
mobilitazioni o un abbozzo di organizzazione politica plurale, senza
mettere in campo l’ipotesi elettorale, il risultato non sarebbe stato lo
stesso.
La
riuscita dell’assemblea è, dunque, un segnale che va colto ma ne vanno
colti anche i limiti. L’idea di sviluppare una organizzazione politica
plurale fatta dai compagni e dalle compagne che oggi sono attivi e che
il lavoro sporco, quotidiano, lo sanno fare, è un obiettivo che richiede
tempi lunghi, che non fa balenare risultati immediati e che sconterebbe
ancora più censura di quella già totale che ha oscurato l’assemblea del
Teatro Italia.
Ma
se questa condizione la conosciamo bene, se capiamo effettivamente
l’esigenza di farci i conti, rimane comunque l’idea che senza
organizzazione il tutto rischia di morire in culla. Noi non crediamo
infatti che una lista elettorale possa essere propedeutica alla
costruzione di un’organizzazione. Crediamo che quest’ultima sia
esattamente ciò che manca di più in questo momento.
Ovviamente
è un dibattito che lasciamo aperto. Non esiste una teoria meccanica da
applicare alla storia, troppe cose cambiano, e cambiano i contesti in
cui si opera. Sappiamo però che il rischio dell’operazione è elevato.
Perché, come abbiamo imparato in questi anni col naufragio di Syriza,
nei balbettii di Podemos sulla Catalunya o in altre occasioni, è
assolutamente necessario attrezzarsi per combattere nemici molto potenti
e organizzati, altrimenti si rischia di fare il gioco dell’avversario.
Inoltre,
è concreto il rischio di non raggiungere il risultato atteso bloccando
l’intero processo riaggregativo che, al contrario, si pensava di
sostenere, come spesso si è verificato in anni recenti. D’altra parte,
le organizzazioni del movimento operaio sono state costruite per questo,
hanno sempre considerato le elezioni un mezzo e non un fine, hanno
subito sconfitte ma hanno mantenuto le strutture, hanno sviluppato
resistenze, avanzamenti, ritirate.
Tutte
cose che solo una organizzazione può fare e che un cartello elettorale
difficilmente può mettere in campo, pur con tutta la buona volontà del
caso e al netto delle buone intenzioni.
Conclusioni
Abbiamo
scritto queste poche riflessioni di getto, dopo un primo giro di
discussione al nostro interno. Il fatto stesso che un collettivo
comunista come il nostro, poco abituato a ragionare in termini
elettorali, lo abbia fatto significa comunque che ciò che abbiamo visto
al Teatro Italia è per noi, effettivamente, una novità di cui occuparci.
Come
avrete notato il discorso non arriva a conclusioni. Tuttavia, la
proposta dell’ex Opg ha per noi un valore fondamentale: ha squarciato il
velo sulle difficoltà in cui si dibatte la sinistra di classe, su un
mondo di militanti imprescindibile per chiunque di noi. Per tutti coloro
che da anni, nonostante l’azione militante, sono impossibilitati ad
intervenire in un discorso politico escludente; stretti tra
una destra sempre aggressiva e reazionaria e una sinistra
istituzionalizzata, che non possiamo neppure nominare senza provare un
moto di disgusto.
Occuparci
della questione è, quindi, un nostro problema, ringraziamo dunque i
compagni dell’ex opg per la sterzata. Chi fa politica tra la gente e tra
i lavoratori sa che queste cose servono. Servono muscoli, coraggio e
cuore. Ma serve anche intelligenza e sguardo lungo.
D’altra
parte ciò che vogliamo raggiungere è noto a tutti: la rivoluzione. Per
farla serve coscienza di classe, sguardo sulla società e ambizione
politica. Il dibattito sul “che fare” nell’immediato per noi è aperto. E
tutto questo è un bene.
Scorciatoie in avanti e
balzi all'indietro
24 Novembre 2017 | in
EDITORIALE. infoaut
Negli scorsi giorni una
dichiarazione di Gentiloni è passata sottotraccia rispetto al suo
peso specifico. In Svezia per un meeting Ue il premier, parlando
della
situazione economica in Italia, ha affermato che nonostante la
qualità dei posti di lavoro, quelli creati dal governo sono oltre
un milione in tre anni e che sempre di crescita economica si tratta.
Con il discorso della
qualità si faceva un evidente riferimento alla temporaneità, alla
precarietà e allo sfruttamento che contraddistinguono i rapporti
lavorativi. In breve, Gentiloni ha sancito lo scollamento tra una
concezione positiva dello stato dell'economia che è quella delle
aziende che accumulano utili sul lavoro precario, ed una negativa che
è quella vissuta dalla forza-lavoro. Le istituzioni ovviamente, si
schierano e lavorano nel campo degli interessi delle prime, definiti
di carattere generale. L'onestà stupefacente di un discorso così
classista è passata sotto silenzio, a conferma della durezza dei
nostri in termini di egemonia politica del capitale sulla
forza-lavoro e di una certa tenuta dei livelli di accettazione
sociale complessivi.
Eppure le parole di
Gentiloni non sono isolate al caso italiano, ma risuonano in quanto
succede Oltralpe. Sia in Francia dove Macron prosegue a mietere
vittime una volta placato il ciclo di lotte contro la Loi Travail,
sia in Germania dove la Merkel non ha trovato un accordo sul nuovo
governo anche per l'opposizione di alcune forze politiche a progetti
di liberalizzazione totale degli orari di lavoro. Su scala europea il
capitale denazionalizza sempre di più i flussi dell'economia,
imponendo le sue logiche su scala sovranazionale in maniera ancora
più accelerata e riprendendo la sua marcia speculativa e
distruttrice di diritti.
Non a caso tornano ad
agitarsi letterine di raccomandazioni di Bruxelles sui conti
pubblici, proprio mentre si entra in campagna elettorale e il governo
cerca di guadagnare voti con qualche mancetta cosmetica stile reddito
di inclusione. Nemmeno quella va concessa, per quanto si parli di
briciole. Il governo, di conseguenza, conscio di dover tirare i remi
in barca sui temi reali continua invece a teatralizzare la sovranità
dove ancora il capitale globale gli permette di esercitarla, ovvero
sulla gestione dei confini, sempre più assassina come vediamo
dall'aggravarsi delle condizioni dei migranti nei campi di
concentramento Minniti-made in Libia.
Tornando al teatrino della
politica, i fatti tedeschi - con i partiti del paese guida
dell'Unione Europea incapaci di trovare un accordo per formare un
governo - ci pongono di fronte un nodo centrale di questi tempi,
ovvero la direzione divergente tra sovranità politica nazionale e
processi di governo sempre più globali. La crescente disaffezione
del corpo elettorale verso il suo rito civile legittima sempre meno
il giochino delle elezioni, ormai palesemente non in grado di
incidere sulle condizioni di vita. Nonostante questo il rito continua
a costruire i suoi simulacri, sempre più riconosciuti come tali,
sempre meno credibili e legittimati socialmente.
Stando agli attuali
sondaggi elettorali rispetto all'Italia, qualunque sia la coalizione
che vincerà, nessuna di esse avrà i numeri, a meno di particolari
avvenimenti ora non prevedibili, per governare da sola. Ergo le
alternative diventerebbero nell'ordine: una grande coalizione con PD
e Fi che si staccano dalle loro "ali estreme"; un governo
di minoranza; nuove elezioni. Ognuno di questi scenari fa emergere
una realtà per la quale quello che ci troveremo davanti sarà senza
dubbio un periodo di instabilità.
Sappiamo però che
purtroppo instabilità istituzionale non vuol dire ingovernabilità e
spazio di azione per i movimenti. Può invece voler dire una
ulteriore possibilità per il governo sovranazionale del capitale di
fare passare le sue volontà e le sue letterine, senza neanche una
finta opposizione di governo, in una ulteriore divaricazione tra la
sovranità reale e la democrazia sempre più fittizia. Uno scenario
che permette a tutti i novelli Ponzio Pilato di lavarsi le mani e di
proseguire il loro ruolo di marionette. Lo stesso campo della
"opposizione" viene rappresentata da partiti che di fatto
non hanno la funzione sistemica di dover governare, come i
CinqueStelle o la Lega Nord, ma solo quella di incanalare il dissenso
in forme compatibili con la tenuta dell'ordine sovranazionale. I
viaggi americani di Di Maio lo dimostrano in maniera chiara, cosi come
gli strepiti di Salvini.
In questo scenario, il
problema per noi si crea allora nella forma dell'incapacità di
emergere come proposta alternativa nei territori sociali ai margini
dei centri di potere, dove l'astensionismo aumenta in maniera enorme
ma non si accompagna all'azione politica nel senso della rottura. Nel
fare emergere che solo da una costruzione di rete a partire dai
conflitti sociali si può dare una svolta positiva alle condizioni di
vita dei marginali, che oltre alla sofferenza devono difendersi anche
da DASPO urbani se non mantengono anche un atteggiamento decoroso nel
soffrire. Nel dare una declinazione politica dal basso
dell'ingovernabilità, che è valore solo se agita dal basso e non
dall'alto.
Un problema reale, che non
può essere a nostro avviso bypassato attraverso il passaggio
attraverso scorciatoie che rischiano di nascondere i problemi sotto
il tappeto, piuttosto di affrontarli nella durezza che esprimono. Gli
esempi che arrivano dalla tragica fine del progetto di Tsipras in
Grecia e ai disastrosi equilibrismi di Podemos rispetto alla
questione catalana, per citare solo i casi più significativi, ci
permettono di vedere che in questa fase il tema è come ricostruire
un discorso egemonico all'interno della società, a partire
dall'azione del basso, nel vuoto di legittimazione della
rappresentanza istituzionale che deriva dai profondi limiti alle sue
possibilità di azione. E se alcuni esperimenti di costruzione di
rete su scala locale possono avere avuto anche un discreto successo,
immaginarsi una tendenza simile su scala nazionale è quantomeno
avventurista, nonchè mancante di uno sguardo complessivo sulla
realtà del paese. C'è ancora tanto lavoro da fare.
Quanto avvenuto ad Ostia
ci parla non solo della presenza di intrecci tra formazioni
neofasciste e mafiose su alcuni territori, come da narrazione
interessata del mainstream alla ricerca dello scoop che è scoperta
dell'acua calda. Ma anche dell'assoluta non-presenza di compagni e
compagne attivi nel sociale, della crisi nello stesso riconoscimento
del "noi", dell'assoluta mancanza di percorsi reali di
alternativa, che non si costruisconno dall'oggi al domani. Per noi
questo è il vero nodo della fase attuale, la cifra che la descrive.
Di fronte a questo
scenario, che si riproduce quasi in ogni periferia sociale del paese,
proporsi interni allo schema elettorale in un contesto di crescente e
montante disaffezione verso quella forma rischia di scavare un solco
oppure di accorciarlo? Probabilmente, la seconda. Tenendo presente
che anche dove il voto è stato concepito come elemento utile
tatticamente, come nel referendum catalano, sono state le barricate
contro la Guardia Civil di Rajoy ad averlo reso elemento dirompente.
E non a caso è stato nello scenario del referendum veneto che
abbiamo avuto uno dei tassi di partecipazione elettorael più alti
degli ultimi tempi: posta in gioco era più l'allontanamento dallo
Stato che la sua riconquista, in una narrazione che ha convinto
poichè giocata sul riappropriarsi di elementi di decisionalità e
basata su una critica profonda delle istituzioni centrali, aldilà
della declinazione specifica proposta da Zaia.
Mettere il popolo al
potere è poi proposizione fin troppo generica se non ci si chiede
inanzitutto da chi sia composto il popolo, concetto tra l'altro ben
lungi dal soddisfare le nostre esigenze al giorno d'oggi e che anzi
possiede controindicazioni decisamente pregnanti. Dato che ogni
costruzione di popolo delinea inclusi ed esclusi, appartenenti ad
esso ed elementi ad esso estranei, la domanda da porsi se affrontata
in questi termini è piuttosto "Chi fa parte del nostro popolo
oggi?" e se una generica "cittadinanza" possa essere
il nostro soggetto di riferimento.
Vi sono compresi gli
occupanti di case e i lavoratori della logistica esclusi dalle forme
anche minime di partecipazione come il voto? Vi sono i tanti e le
tante che hanno compreso, in questa era dove non è certo raccogliere
informazioni il problema, che i margini di azione dall'interno delle
istituzioni dello Stato sono sempre più esigui, come raccontavamo
sopra? Ci sono gli studenti medi che si dibattono tra un percorso di
alternanza scuola-lavoro e una consegna per JustEat? Ci sono i
soggetti sociali delle periferie che non si attendono dal voto ormai
neanche una minima evoluzione positiva delle proprie vite? Se non si
affrontano queste domande, è probabile che ci ritroveremo ancora
meno pronti di prima ad affrontare i prossimi mesi ed anni.
Potere al popolo":
una lettera alla sinistra - infoaut
Abbiamo seguito con
attenzione l'assemblea al teatro Italia di sabato scorso a Roma:
c'era entusiasmo. La soddisfazione di aver fatto implodere a sinistra
l'ennesimo Frankenstein dei trombati della politica che si sarebbero
riuniti al Brancaccio e il trasporto per un'avventura senza
padrini.
L'operazione promossa da ex-Opg è chiara. Abbiamo negli anni apprezzato questa virtù, seguendo e in alcune occasioni interagendo con l'importante lavoro territoriale svolto dai compagni e dalle compagne di Napoli. La proposta non cerca scorciatoie, vive dentro un'esperienza viva: individua un obiettivo e sceglie un campo suo proprio. Senza fraintendimenti.
L'operazione promossa da ex-Opg è chiara. Abbiamo negli anni apprezzato questa virtù, seguendo e in alcune occasioni interagendo con l'importante lavoro territoriale svolto dai compagni e dalle compagne di Napoli. La proposta non cerca scorciatoie, vive dentro un'esperienza viva: individua un obiettivo e sceglie un campo suo proprio. Senza fraintendimenti.
Loro non ci girano
intorno, noi saremo altrettanto schietti: l'obiettivo della
candidatura alle prossime elezioni politiche e il collocarci nel
campo storico della sinistra non possono appartenerci. La sfida è
legittima ma la riteniamo sbagliata: sbagliati i presupposti, quindi
sbagliati i referenti e il terreno dello scontro che sceglie.
Non ci interessano le
grosse iperboli. Non tireremo in ballo comitati d'affari della
borghesia ai quali ci si venderebbe entrando nell'arena democratica;
non invocheremo il purismo di una lotta di classe macchiata dal
compromesso.
I feticci ideologici ci repellono.
I feticci ideologici ci repellono.
Abbiamo con questi
compagni e compagne di Napoli, spesso assieme a loro, attraversato le
lotte sociali di questi anni e sappiamo che molti accorsi al teatro
Italia sono stati, sono o possono essere dei nostri compagni e
compagne di lotta nelle piazza e negli scontri che capillarmente
innervano questo paese. Parte del dato concreto e umano di una
resistenza in questo paese. Un popolo? Non sappiamo, non crediamo.
Questa locuzione ha più
spesso negli ultimi anni nominato la crisi di coordinate politiche
classiche. C'è allora un popolo che è espressione degli interessi e
delle pulsioni contrapposte delle classi popolari, quello delle
periferie, delle pulsioni razziste e della disaffezione alla
politica. È il magma entro il quale si agita la classe, quello che
ha fatto implodere la sinistra e le sue bussole ideologiche,
culturali, politiche e antropologiche.
Non siamo orfani della
sinistra né siamo innamorati di questo popolo per così com'è, ma
sappiamo che lì stanno i nostri. Pur attraversando anche noi la sua
crisi, l'essere stati come realtà antagoniste il polo estremo,
opposto e destabilizzante di una storia di cogestione, sviluppo e
redistribuzione capitalistica, la sinistra non ci manca. La nostra
storia passa anzi non solo dalla critica alla sinistra ma
dall'ipotesi della sua rottura. I tempi ci hanno superato. Quella
storia è finita perché è finito il patto sociale che la
giustificava storicamente. Non chiederemo agli orologi di portare
indietro le lancette.
La sfida di ex-Opg si
inscrive ancora in quella cornice. Avanza un'ipotesi: è possibile,
ancora, da sinistra rappresentare il popolo. Il nodo di essere
organizzazione sociale che si fa parte contrapposta della società. È
una grossa ambizione che sconta tra gli altri, per l'arretratezza di
una sedimentazione dei conflitti, il limite di rappresentare una
parola più che l'essere strumento per prendere parola. Dare quelle
parole già note. Parlare per conto di.
Davanti a questa ipotesi,
ma non contro, ne abbiamo un'altra. Un lavorio più lungo. Pensiamo
che quel popolo vada scomposto sui conflitti e ricomposto a partire
dalla sua negazione. L'universo degli esclusi non ci appartiene.
Occorre uccidere questa falsa coscienza. Non abbiamo mai sentito un
compagno di lotta, altri proletari, dirsi esclusi dal mondo contro
cui si combatte assieme.
Non serve un fronte comune
contro la barbarie, servono lotte in grado di suscitare nuovi
desideri e ambizioni perché la priorità assoluta è per noi un
progetto antagonista maggioritario approfondendo le pulsioni
orientate dal basso verso l'alto della gerarchia sociale. Rendere la
sovversione dell'esistente un desiderio concreto e vantaggioso per i
proletari che lottano. Abbiamo poche risorse, lo confessiamo senza
paure. Un metodo, una ricerca militante, degli esperimenti di
conflitto nelle lotte sociali di questo decennio. Abbiamo
un'ambizione, non un progetto perché a oggi non si può
formalizzarlo, non in quelle forme. Allo stesso tempo non abbiamo
luoghi da presidiare: non “il movimento”, non “la sinistra”.
La proposta di ex-Opg ha
però il merito di porre una domanda, di indicare il limite più
evidente dei cicli di lotte recenti: la mancanza di uno spazio di
riconoscimento e continuità per quanti oggi si mettono in gioco in
una linea di contrapposizione. Questo nodo ci riguarda e resta aperto
anche per noi. Allora? Non ci interessa una ripresa di una forza
esplicitamente anticapitalista in questo paese? Non vediamo
alternative all'organizzazione delle possibilità del conflitto sulle
contraddizioni che attraversano la dimensione della classe dentro al
popolo e contro il popolo e questa società. Un discorso per questo
popolo senza un suo stravolgimento non ci interessa. No, compagni e
compagne, non vi diremo che state tradendo, che abbandonate le lotte.
Non lo crediamo. Ma oggi le nostre strade non si incrociano.
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