martedì 28 novembre 2017

pc 28 novembre - "Potere al popolo" - la proposta di Je so' pazzo al vaglio di altri collettivi - il nostro giudizio di fondo negativo è stato già sinteticamente espresso - un testo più approfondito è in uscita nei prossimi giorni - Intanto pubblichiamo alcuni pareri di movimento per documentazione e dibattito - pareri e considerazioni possono essere espressi anche a commento nel nostro blog o a pcro.red@gmail.com

 Potere al popolo?

"Potere al popolo": una lettera alla sinistra - infoaut
Scorciatoie in avanti e balzi all'indietro
24 Novembre 2017 | in EDITORIALE. infoaut

Genova


L’assemblea convocata dai compagni e dalle compagne dell’ex opg a Roma è stato un evento che segna una netta discontinuità con le pratiche che, nel recente passato, hanno contraddistinto la sinistra radicale. Una discontinuità che va assolutamente evidenziata senza tuttavia omettere quelli che a noi paiono come i limiti della proposta.

Anzitutto la composizione della platea e degli interventi hanno evidenziato che a essere protagonisti del progetto sono quei compagni e compagne che vediamo nelle lotte, nei cortei e al nostro fianco
negli scioperi. Per una volta il palco è stato loro e non dei professionisti del disastro che normalmente guidano i processi, soprattutto quelli elettorali. La presenza della sinistra “ufficiale” è rimasta, dunque, sullo sfondo ed è apparso ben chiaro che, se il processo avrà senso e fortuna, a guidarlo dovrà essere quella platea di attivisti e attiviste che si sono alternati negli interventi.
Inoltre, fa ben sperare la presenza di un folto gruppo di giovani compagni e compagne che possono garantire quel ricambio generazionale di cui abbiamo bisogno per liberarci da una sindrome della sconfitta che ha colpito tutti gli attivisti, anche coloro che in questi anni sono rimasti coerentemente dal lato giusto della barricata.
L’impressione è quindi che in assemblea ci fossero presenti i nostri compagni e non quelli che in questi anni abbiamo verificato non essere più i nostri amici, ma molto spesso nemici, coloro che sono abili nell’intestarsi lotte e mobilitazioni per sfruttarle a fini carrieristici del tutto personali.
Vogliamo essere chiari: se non ci interessa più di tanto la retorica della costruzione dal basso o l’idea che il problema stia semplicemente nella forma partito novecentesca (lasciamo queste trattazioni alla cosiddetta “società civile”, i cui danni prima o poi andranno quantificati), dobbiamo anche affermare che siamo stufi di essere accomunati ad ex partiti le cui strutture di base semplicemente non esistono più o si sono trasformate in meri comitati elettorali o di gestione del potere, che negli anni hanno distrutto ogni idea di alternativa.
Un primo elemento positivo dell’assemblea del Teatro Italia sta tutto qui. Non è poco, è la precondizione per fare qualcosa di serio, una condizione che ad oggi è sempre mancata.
Potere al Popolo
Viviamo in una società che tende ad escludere da pur minimi livelli di tutela una larga parte della popolazione. La crisi non risparmia nessuno e se ad essere colpite sono soprattutto le fasce più deboli (lavoratori, precari, disoccupati e immigrati), non viene nemmeno risparmiata una buona parte di piccola borghesia. Siamo cioè nella situazione in cui esistono (per dirla con Laclau) ampi strati di popolazione le cui richieste (il più delle volte legittime) non possono essere evase dai “soliti” rappresentanti. Ciò crea quel fenomeno in cui si manifesta la suddivisione tra gli “esclusi” e il “potere” che è tipica dell’insorgere di una contronarrazione populista.
Ne prendiamo atto e non riteniamo neppure particolarmente negativa l’idea di tirare giù un programma in pochi punti facilmente comprensibili da tutti. D’altronde, se Laclau ci insegna qualcosa è che il populismo rappresenta, soprattutto, un elemento discorsivo e ben si adatta a talune situazioni (specie quelle elettorali).
Contemporaneamente, occorre avere ben presente che gli interessi dei lavoratori sono molto diversi dagli interessi di altri settori sociali e che la differenza, per noi, sta tra sfruttati e sfruttatori e non tra “popolo” ed “elite”. Questa specificazione non è di poco conto.
Durante il dibattito nell’assemblea è emersa più volte la necessità di porre paletti precisi alla discussione. In particolare è stato toccato il tema delle nazionalizzazioni delle imprese strategiche e dei rapporti con i poteri della UE. Noi non crediamo che questi temi siano divisivi, anzi siamo convinti che vadano discussi.
Per farlo, visto che sulla questione si confronteranno ipotesi diverse, riteniamo necessaria l’elaborazione di riflessioni attente, che inseriscano nel dibattito un fatto al momento sottostimato rispetto al suo potenziale dirompente. Ci riferiamo al processo di divaricazione tra politica e potere, per cui la politica è sempre più ridotta entro i canoni del “talent show” con cui si rappresenta la formalità dei processi democratici, mentre il potere diventa appannaggio di una “aristocrazia tecnica” ormai in grado di guidare la macchina amministrativa e burocratica di uno Stato senza più la necessità di alcun indirizzo politico, ormai determinato a livello sovranazionale e collettivamente normalizzato da una cultura che, nonostante 10 anni di crisi, continua a considerare l’ordine del profitto privato come l’unico orizzonte delle relazioni sociali, politiche e produttive di una società.
Quanto appena affermato, inevitabilmente cozza con la “urgenza elettorale” che accompagna il progetto dei compagni napoletani, ma svela un tema più strategico: la mancanza di una organizzazione di classe adeguata all’assetto con cui il modo di produzione capitalista ha, oggi, ristrutturato la gestione del potere nella società in cui viviamo.
Unire le lotte esigenza primaria
Siccome non nasciamo ieri sappiamo benissimo che se i compagni dell’ex Opg avessero lanciato una assemblea nazionale in cui la piattaforma prevedesse la creazione di una struttura permanente di sostegno a lotte e mobilitazioni o un abbozzo di organizzazione politica plurale, senza mettere in campo l’ipotesi elettorale, il risultato non sarebbe stato lo stesso.
La riuscita dell’assemblea è, dunque, un segnale che va colto ma ne vanno colti anche i limiti. L’idea di sviluppare una organizzazione politica plurale fatta dai compagni e dalle compagne che oggi sono attivi e che il lavoro sporco, quotidiano, lo sanno fare, è un obiettivo che richiede tempi lunghi, che non fa balenare risultati immediati e che sconterebbe ancora più censura di quella già totale che ha oscurato l’assemblea del Teatro Italia.
Ma se questa condizione la conosciamo bene, se capiamo effettivamente l’esigenza di farci i conti, rimane comunque l’idea che senza organizzazione il tutto rischia di morire in culla. Noi non crediamo infatti che una lista elettorale possa essere propedeutica alla costruzione di un’organizzazione. Crediamo che quest’ultima sia esattamente ciò che manca di più in questo momento.
Ovviamente è un dibattito che lasciamo aperto. Non esiste una teoria meccanica da applicare alla storia, troppe cose cambiano, e cambiano i contesti in cui si opera. Sappiamo però che il rischio dell’operazione è elevato. Perché, come abbiamo imparato in questi anni col naufragio di Syriza, nei balbettii di Podemos sulla Catalunya o in altre occasioni, è assolutamente necessario attrezzarsi per combattere nemici molto potenti e organizzati, altrimenti si rischia di fare il gioco dell’avversario.
Inoltre, è concreto il rischio di non raggiungere il risultato atteso bloccando l’intero processo riaggregativo che, al contrario, si pensava di sostenere, come spesso si è verificato in anni recenti. D’altra parte, le organizzazioni del movimento operaio sono state costruite per questo, hanno sempre considerato le elezioni un mezzo e non un fine, hanno subito sconfitte ma hanno mantenuto le strutture, hanno sviluppato resistenze, avanzamenti, ritirate.
Tutte cose che solo una organizzazione può fare e che un cartello elettorale difficilmente può mettere in campo, pur con tutta la buona volontà del caso e al netto delle buone intenzioni.
Conclusioni
Abbiamo scritto queste poche riflessioni di getto, dopo un primo giro di discussione al nostro interno. Il fatto stesso che un collettivo comunista come il nostro, poco abituato a ragionare in termini elettorali, lo abbia fatto significa comunque che ciò che abbiamo visto al Teatro Italia è per noi, effettivamente, una novità di cui occuparci.
Come avrete notato il discorso non arriva a conclusioni. Tuttavia, la proposta dell’ex Opg ha per noi un valore fondamentale: ha squarciato il velo sulle difficoltà in cui si dibatte la sinistra di classe, su un mondo di militanti imprescindibile per chiunque di noi. Per tutti coloro che da anni, nonostante l’azione militante, sono impossibilitati ad intervenire in un discorso politico escludente; stretti tra una destra sempre aggressiva e reazionaria e una sinistra istituzionalizzata, che non possiamo neppure nominare senza provare un moto di disgusto.
Occuparci della questione è, quindi, un nostro problema, ringraziamo dunque i compagni dell’ex opg per la sterzata. Chi fa politica tra la gente e tra i lavoratori sa che queste cose servono. Servono muscoli, coraggio e cuore. Ma serve anche intelligenza e sguardo lungo.
D’altra parte ciò che vogliamo raggiungere è noto a tutti: la rivoluzione. Per farla serve coscienza di classe, sguardo sulla società e ambizione politica. Il dibattito sul “che fare” nell’immediato per noi è aperto. E tutto questo è un bene. 

Scorciatoie in avanti e balzi all'indietro
24 Novembre 2017 | in EDITORIALE. infoaut

Negli scorsi giorni una dichiarazione di Gentiloni è passata sottotraccia rispetto al suo peso specifico. In Svezia per un meeting Ue il premier, parlando parlando della situazione economica in Italia, ha affermato che nonostante la qualità dei posti di lavoro, quelli creati dal governo sono oltre un milione in tre anni e che sempre di crescita economica si tratta.

Con il discorso della qualità si faceva un evidente riferimento alla temporaneità, alla precarietà e allo sfruttamento che contraddistinguono i rapporti lavorativi. In breve, Gentiloni ha sancito lo scollamento tra una concezione positiva dello stato dell'economia che è quella delle aziende che accumulano utili sul lavoro precario, ed una negativa che è quella vissuta dalla forza-lavoro. Le istituzioni ovviamente, si schierano e lavorano nel campo degli interessi delle prime, definiti di carattere generale. L'onestà stupefacente di un discorso così classista è passata sotto silenzio, a conferma della durezza dei nostri in termini di egemonia politica del capitale sulla forza-lavoro e di una certa tenuta dei livelli di accettazione sociale complessivi.
Eppure le parole di Gentiloni non sono isolate al caso italiano, ma risuonano in quanto succede Oltralpe. Sia in Francia dove Macron prosegue a mietere vittime una volta placato il ciclo di lotte contro la Loi Travail, sia in Germania dove la Merkel non ha trovato un accordo sul nuovo governo anche per l'opposizione di alcune forze politiche a progetti di liberalizzazione totale degli orari di lavoro. Su scala europea il capitale denazionalizza sempre di più i flussi dell'economia, imponendo le sue logiche su scala sovranazionale in maniera ancora più accelerata e riprendendo la sua marcia speculativa e distruttrice di diritti.
Non a caso tornano ad agitarsi letterine di raccomandazioni di Bruxelles sui conti pubblici, proprio mentre si entra in campagna elettorale e il governo cerca di guadagnare voti con qualche mancetta cosmetica stile reddito di inclusione. Nemmeno quella va concessa, per quanto si parli di briciole. Il governo, di conseguenza, conscio di dover tirare i remi in barca sui temi reali continua invece a teatralizzare la sovranità dove ancora il capitale globale gli permette di esercitarla, ovvero sulla gestione dei confini, sempre più assassina come vediamo dall'aggravarsi delle condizioni dei migranti nei campi di concentramento Minniti-made in Libia.
Tornando al teatrino della politica, i fatti tedeschi - con i partiti del paese guida dell'Unione Europea incapaci di trovare un accordo per formare un governo - ci pongono di fronte un nodo centrale di questi tempi, ovvero la direzione divergente tra sovranità politica nazionale e processi di governo sempre più globali. La crescente disaffezione del corpo elettorale verso il suo rito civile legittima sempre meno il giochino delle elezioni, ormai palesemente non in grado di incidere sulle condizioni di vita. Nonostante questo il rito continua a costruire i suoi simulacri, sempre più riconosciuti come tali, sempre meno credibili e legittimati socialmente.
Stando agli attuali sondaggi elettorali rispetto all'Italia, qualunque sia la coalizione che vincerà, nessuna di esse avrà i numeri, a meno di particolari avvenimenti ora non prevedibili, per governare da sola. Ergo le alternative diventerebbero nell'ordine: una grande coalizione con PD e Fi che si staccano dalle loro "ali estreme"; un governo di minoranza; nuove elezioni. Ognuno di questi scenari fa emergere una realtà per la quale quello che ci troveremo davanti sarà senza dubbio un periodo di instabilità.
Sappiamo però che purtroppo instabilità istituzionale non vuol dire ingovernabilità e spazio di azione per i movimenti. Può invece voler dire una ulteriore possibilità per il governo sovranazionale del capitale di fare passare le sue volontà e le sue letterine, senza neanche una finta opposizione di governo, in una ulteriore divaricazione tra la sovranità reale e la democrazia sempre più fittizia. Uno scenario che permette a tutti i novelli Ponzio Pilato di lavarsi le mani e di proseguire il loro ruolo di marionette. Lo stesso campo della "opposizione" viene rappresentata da partiti che di fatto non hanno la funzione sistemica di dover governare, come i CinqueStelle o la Lega Nord, ma solo quella di incanalare il dissenso in forme compatibili con la tenuta dell'ordine sovranazionale. I viaggi americani di Di Maio lo dimostrano in maniera chiara, cosi come gli strepiti di Salvini.
In questo scenario, il problema per noi si crea allora nella forma dell'incapacità di emergere come proposta alternativa nei territori sociali ai margini dei centri di potere, dove l'astensionismo aumenta in maniera enorme ma non si accompagna all'azione politica nel senso della rottura. Nel fare emergere che solo da una costruzione di rete a partire dai conflitti sociali si può dare una svolta positiva alle condizioni di vita dei marginali, che oltre alla sofferenza devono difendersi anche da DASPO urbani se non mantengono anche un atteggiamento decoroso nel soffrire. Nel dare una declinazione politica dal basso dell'ingovernabilità, che è valore solo se agita dal basso e non dall'alto.
Un problema reale, che non può essere a nostro avviso bypassato attraverso il passaggio attraverso scorciatoie che rischiano di nascondere i problemi sotto il tappeto, piuttosto di affrontarli nella durezza che esprimono. Gli esempi che arrivano dalla tragica fine del progetto di Tsipras in Grecia e ai disastrosi equilibrismi di Podemos rispetto alla questione catalana, per citare solo i casi più significativi, ci permettono di vedere che in questa fase il tema è come ricostruire un discorso egemonico all'interno della società, a partire dall'azione del basso, nel vuoto di legittimazione della rappresentanza istituzionale che deriva dai profondi limiti alle sue possibilità di azione. E se alcuni esperimenti di costruzione di rete su scala locale possono avere avuto anche un discreto successo, immaginarsi una tendenza simile su scala nazionale è quantomeno avventurista, nonchè mancante di uno sguardo complessivo sulla realtà del paese. C'è ancora tanto lavoro da fare.
Quanto avvenuto ad Ostia ci parla non solo della presenza di intrecci tra formazioni neofasciste e mafiose su alcuni territori, come da narrazione interessata del mainstream alla ricerca dello scoop che è scoperta dell'acua calda. Ma anche dell'assoluta non-presenza di compagni e compagne attivi nel sociale, della crisi nello stesso riconoscimento del "noi", dell'assoluta mancanza di percorsi reali di alternativa, che non si costruisconno dall'oggi al domani. Per noi questo è il vero nodo della fase attuale, la cifra che la descrive.
Di fronte a questo scenario, che si riproduce quasi in ogni periferia sociale del paese, proporsi interni allo schema elettorale in un contesto di crescente e montante disaffezione verso quella forma rischia di scavare un solco oppure di accorciarlo? Probabilmente, la seconda. Tenendo presente che anche dove il voto è stato concepito come elemento utile tatticamente, come nel referendum catalano, sono state le barricate contro la Guardia Civil di Rajoy ad averlo reso elemento dirompente. E non a caso è stato nello scenario del referendum veneto che abbiamo avuto uno dei tassi di partecipazione elettorael più alti degli ultimi tempi: posta in gioco era più l'allontanamento dallo Stato che la sua riconquista, in una narrazione che ha convinto poichè giocata sul riappropriarsi di elementi di decisionalità e basata su una critica profonda delle istituzioni centrali, aldilà della declinazione specifica proposta da Zaia.
Mettere il popolo al potere è poi proposizione fin troppo generica se non ci si chiede inanzitutto da chi sia composto il popolo, concetto tra l'altro ben lungi dal soddisfare le nostre esigenze al giorno d'oggi e che anzi possiede controindicazioni decisamente pregnanti. Dato che ogni costruzione di popolo delinea inclusi ed esclusi, appartenenti ad esso ed elementi ad esso estranei, la domanda da porsi se affrontata in questi termini è piuttosto "Chi fa parte del nostro popolo oggi?" e se una generica "cittadinanza" possa essere il nostro soggetto di riferimento.
Vi sono compresi gli occupanti di case e i lavoratori della logistica esclusi dalle forme anche minime di partecipazione come il voto? Vi sono i tanti e le tante che hanno compreso, in questa era dove non è certo raccogliere informazioni il problema, che i margini di azione dall'interno delle istituzioni dello Stato sono sempre più esigui, come raccontavamo sopra? Ci sono gli studenti medi che si dibattono tra un percorso di alternanza scuola-lavoro e una consegna per JustEat? Ci sono i soggetti sociali delle periferie che non si attendono dal voto ormai neanche una minima evoluzione positiva delle proprie vite? Se non si affrontano queste domande, è probabile che ci ritroveremo ancora meno pronti di prima ad affrontare i prossimi mesi ed anni.

Potere al popolo": una lettera alla sinistra - infoaut

Abbiamo seguito con attenzione l'assemblea al teatro Italia di sabato scorso a Roma: c'era entusiasmo. La soddisfazione di aver fatto implodere a sinistra l'ennesimo Frankenstein dei trombati della politica che si sarebbero riuniti al Brancaccio e il trasporto per un'avventura senza padrini.

L'operazione promossa da ex-Opg è chiara. Abbiamo negli anni apprezzato questa virtù, seguendo e in alcune occasioni interagendo con l'importante lavoro territoriale svolto dai compagni e dalle compagne di Napoli. La proposta non cerca scorciatoie, vive dentro un'esperienza viva: individua un obiettivo e sceglie un campo suo proprio. Senza fraintendimenti.
Loro non ci girano intorno, noi saremo altrettanto schietti: l'obiettivo della candidatura alle prossime elezioni politiche e il collocarci nel campo storico della sinistra non possono appartenerci. La sfida è legittima ma la riteniamo sbagliata: sbagliati i presupposti, quindi sbagliati i referenti e il terreno dello scontro che sceglie.
Non ci interessano le grosse iperboli. Non tireremo in ballo comitati d'affari della borghesia ai quali ci si venderebbe entrando nell'arena democratica; non invocheremo il purismo di una lotta di classe macchiata dal compromesso.
I feticci ideologici ci repellono.
Abbiamo con questi compagni e compagne di Napoli, spesso assieme a loro, attraversato le lotte sociali di questi anni e sappiamo che molti accorsi al teatro Italia sono stati, sono o possono essere dei nostri compagni e compagne di lotta nelle piazza e negli scontri che capillarmente innervano questo paese. Parte del dato concreto e umano di una resistenza in questo paese. Un popolo? Non sappiamo, non crediamo.
Questa locuzione ha più spesso negli ultimi anni nominato la crisi di coordinate politiche classiche. C'è allora un popolo che è espressione degli interessi e delle pulsioni contrapposte delle classi popolari, quello delle periferie, delle pulsioni razziste e della disaffezione alla politica. È il magma entro il quale si agita la classe, quello che ha fatto implodere la sinistra e le sue bussole ideologiche, culturali, politiche e antropologiche.
Non siamo orfani della sinistra né siamo innamorati di questo popolo per così com'è, ma sappiamo che lì stanno i nostri. Pur attraversando anche noi la sua crisi, l'essere stati come realtà antagoniste il polo estremo, opposto e destabilizzante di una storia di cogestione, sviluppo e redistribuzione capitalistica, la sinistra non ci manca. La nostra storia passa anzi non solo dalla critica alla sinistra ma dall'ipotesi della sua rottura. I tempi ci hanno superato. Quella storia è finita perché è finito il patto sociale che la giustificava storicamente. Non chiederemo agli orologi di portare indietro le lancette.
La sfida di ex-Opg si inscrive ancora in quella cornice. Avanza un'ipotesi: è possibile, ancora, da sinistra rappresentare il popolo. Il nodo di essere organizzazione sociale che si fa parte contrapposta della società. È una grossa ambizione che sconta tra gli altri, per l'arretratezza di una sedimentazione dei conflitti, il limite di rappresentare una parola più che l'essere strumento per prendere parola. Dare quelle parole già note. Parlare per conto di.
Davanti a questa ipotesi, ma non contro, ne abbiamo un'altra. Un lavorio più lungo. Pensiamo che quel popolo vada scomposto sui conflitti e ricomposto a partire dalla sua negazione. L'universo degli esclusi non ci appartiene. Occorre uccidere questa falsa coscienza. Non abbiamo mai sentito un compagno di lotta, altri proletari, dirsi esclusi dal mondo contro cui si combatte assieme.
Non serve un fronte comune contro la barbarie, servono lotte in grado di suscitare nuovi desideri e ambizioni perché la priorità assoluta è per noi un progetto antagonista maggioritario approfondendo le pulsioni orientate dal basso verso l'alto della gerarchia sociale. Rendere la sovversione dell'esistente un desiderio concreto e vantaggioso per i proletari che lottano. Abbiamo poche risorse, lo confessiamo senza paure. Un metodo, una ricerca militante, degli esperimenti di conflitto nelle lotte sociali di questo decennio. Abbiamo un'ambizione, non un progetto perché a oggi non si può formalizzarlo, non in quelle forme. Allo stesso tempo non abbiamo luoghi da presidiare: non “il movimento”, non “la sinistra”.
La proposta di ex-Opg ha però il merito di porre una domanda, di indicare il limite più evidente dei cicli di lotte recenti: la mancanza di uno spazio di riconoscimento e continuità per quanti oggi si mettono in gioco in una linea di contrapposizione. Questo nodo ci riguarda e resta aperto anche per noi. Allora? Non ci interessa una ripresa di una forza esplicitamente anticapitalista in questo paese? Non vediamo alternative all'organizzazione delle possibilità del conflitto sulle contraddizioni che attraversano la dimensione della classe dentro al popolo e contro il popolo e questa società. Un discorso per questo popolo senza un suo stravolgimento non ci interessa. No, compagni e compagne, non vi diremo che state tradendo, che abbandonate le lotte. Non lo crediamo. Ma oggi le nostre strade non si incrociano.

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