domenica 22 marzo 2015

pc 22 marzo - L'imperialismo italiano si prepara alla guerra in Libia... “Le bandiere dell'Is minacciano gas e greggio ecco perché l'Italia schiera navi e droni”

Petrolio, gas e dati informatici per miliardi, ecco detto chiaro e tondo anche da un articolo della Repubblica di oggi qual è l'interesse del governo e dei padroni italiani in Libia. Ecco perchè nascono “missioni” dal nome accattivante del tipo “Mare sicuro”... “un migliaio di uomini tra incursori della Marina emarò del San Marco, quattronavi dotate di attrezzature sanitarie, una nave da sbarco, fregate e cacciatorpedinieri, elicotteri e droni Predator...!!


GIÙ le mani da Mellitah. Quel nome agli italiani dirà poco e nulla, ma c'è un tubo da 81 centimetri di diametro negli incubi che hanno convinto il governo a varare l'operazione militare "Mare sicuro". Le bandiere dell'Is sventolano troppo vicine al Gas & Oil complex di Mellitah da cui parte Greenstream, il gasdotto più lungo d'Europa. Affonda nella sabbia sulla spiaggia a sud di Zuwara, a 70 chilometri dal confine tunisino, e riemerge a Gela, in Sicilia, soffiando fino a otto miliardi di metri cubi di gas all'anno: è un gigante che alimenta l'energia di mezza Europa, e visti i rapporti turbolenti con il gas russo è difficile ipotizzare uno scenario peggiore, se i tagliagole dovessero prendere in mano il rubinetto libico.


Greenstream - gestito per tre quarti dall'Eni e per un quarto dalla Noc, la Compagnia nazionale libica - è un gioiello ingegneristico realizzato nel 2004 con i tubi Saipem, 520 chilometri affogati nel Mediterraneo fino a una profondità di 1.200 metri, un investimento di 7 miliardi metà dei quali messi dall'Eni: roba nostra, insomma, ma guai per tutti se cadesse nelle mani sbagliate. È lui il grande obiettivo nel mirino delle milizie. Quando Roma e Tripoli andavano d'amore e d'accordo, ai tempi in cui Gheddafi piantava tendoni beduini zeppi di odalische nel verde di villa Pamphili, più di due terzi del Pil libico arrivava dagli idrocarburi e ingrassava l'amministrazione pubblica libica, pagava stipendi e comprava serenità e buoni rapporti con tutti. Eni e la compagnia petrolifera nazionale firmarono una joint venture paritetica per realizzare il Western Libyan Gas Projects, "un'opera straordinaria, la più importante attualmente in corso nel bacino del Mediterraneo ". Il gas prodotto dai giacimenti nel deserto di Wafa e dai campi offshore di Bahr Essalam entra nei gasdotti e viene trasportato a Mellitah, sulla costa, per essere trattato. Il 20% del gas prodotto resta in Libia, l'80% viene compresso e inviato in Sicilia tramite Greenstream.

Poi c'è il petrolio, un tesoro potenziale di 48 miliardi di barili da estrarre. Dal milione e 600mila barili quotidiani dell'era d'oro del Raìs a zero alla metà del 2011 durante la rivoluzione, poi su in altalena fino a 1,4 milioni di barili giornalieri e riecco la crisi: dopo l'attacco al giacimento della Total a Mabrook e l'attentato all'oleodotto di El Sarir in Cirenaica, che ha isolato temporaneamente il più importante giacimento del paese, la produzione è crollata a poche centinaia di migliaia di barili al giorno. Interessi e alleanze non esistono più, gli uomini neri dello Stato Islamico hanno spazzato via tutto. L'Eni ha ritirato interamente il personale italiano, concentrando il resto sulle basi offshore di Bouri, per il petrolio, e di Bahr Essalam per il gas. La produzione però non si è mai fermata. Pompano i pozzi di Wafa (petrolio e gas) ed Elephant, al confine con l'Algeria, mentre resta chiuso da un anno e mezzo quello di Abu Attifel in Cirenaica. E dove finisce tutto il petrolio spillato dal deserto e dai pozzi offshore? L'intera produzione "italiana" confluisce nel complesso di Mellitah, da dove viene caricato sulle petroliere e spedito alle raffinerie di mezzo mondo.

Ce ne sarebbe già abbastanza per schierare navi e droni, ma in realtà c'è altro a turbare i sonni economici italiani. Ci sono i dati e i megadati, quelli che viaggiano alla velocità della luce nei grandi cavi sottomarini affondati proprio lì, al largo delle coste libiche e tunisine: passano di lì le quattro principali dorsali di collegamento tra l'America e l'Oriente, che come terminazioni nervose si estendono poi a rete collegando l'Europa e l'Africa. Il nodo italiano più importante, in cui l'autostrada digitale europea converge con quelle della grande dorsale Est-Ovest, è a Mazara del Vallo, dove i cavi si immergono con dentro le nostre voci e i nostri contenuti digitalizzati, le chat con gli amici su Facebook o le telefonate via Skype, le email di lavoro e i saluti di WhatsApp. Il nodo libico, connesso con le stesse reti, è a Tripoli: metterci le mani vuol dire avere un accesso diretto e incensurabile alle telecomunicazioni mondiali, e poter intercettare quegli stessi dati sensibili che i servizi americani rubavano a nostra insaputa.

Dunque, eccoci lì davanti con le nostre navi e i nostri aerei: Mare sicuro dovrà proteggere gli interessi italiani tutelando le infrastrutture e gli eventuali connazionali in pericolo. Il governo ha affidato allo Stato maggiore la stesura di un piano dettagliato, ma i contenuti sono praticamente pronti: un migliaio di uomini tra incursori della Marina e marò del San Marco, quattro navi dotate di attrezzature sanitarie, una nave da sbarco, fregate e cacciatorpedinieri, elicotteri e droni Predator. In parte potrebbero essere utilizzate anche le forze schierate per l'esercitazione "Mare aperto" appena conclusa, e l'intera operazione si affiancherà alle altre due già attive nel Mediterraneo: Triton, una "mare nostrum" in tono minore per controllare frontiere e immigrazione; e Active Endeavour, organizzata dalla Nato per contrastare il traffico d'armi e il terrorismo internazionale controllando le navi mercantili. Il tutto in attesa dell'esito della missione difficilissima dell'inviato dell'Onu, Bernardino Leon, da cui potrebbe nascere un impegno italiano molto più concreto.

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