Sono bruciati vivi come torce, mentre provavano a riscaldarsi. Annegati come animali stremati dalla sete, precipitando nei pozzi su cui si erano sporti nella speranza di trovare acqua. Sono stramazzati in terra, all’improvviso, come frutti maturi di un albero incolto, uccisi dalla fatica. Ad alcuni, il cuore è esploso, perché infartuato da eroina e antidepressivi somministrati come anestetico alla fatica.
Vivono accanto a noi. Nelle campagne del Piemonte, nelle vigne del Veneto. Nelle industrie lombarde. Nelle campagne a pochi chilometri da Roma. Nelle terre d’oro della Puglia. Quelle, ad esempio, di cui, qualche giorno fa, Chiara Ferragni ha postato una foto sui suoi social,

mostrando un vassoio di panzerotti in mano. Non lontano da lì, Camara, 27 anni, era morto di troppo lavoro.
Li chiamano “lavoratori stagionali dell’agricoltura”. Sono donne e uomini italiani e stranieri. Hanno dai 18 ai 60 anni. Sono diversi tra loro. Eppure, tutti uguali. Con il loro lavoro ci danno da mangiare. E noi non riusciamo neppure a dargli da bere. Li paghiamo anche due euro per ogni ora di lavoro, con 40 gradi all’ombra, con la testa piegata verso terra dall’alba al tramonto. Ingrassano i guadagni della grande distribuzione. Di etichette di primo livello dell’agroalimentare. Di loro si sente spesso parlare in tavoli tecnici, protocolli. Accade che, ciclicamente, guadagnino un po’ di indignazione. Eppure, in questi anni, è cambiato poco. Quasi niente. Loro restano dei dannati.

i tre anni di inchiesta sul “caporalato in agricoltura”, i cui numeri e sostanza non richiedono aggettivi. In Italia – le stime sono della Flai, la Federazione dei lavoratori agricoli della Cgil – ci sono 200mila “vulnerabili” in agricoltura. Che non significa “lavoratori irregolari”. Ma uomini e donne sottoposti a regimi di semi schiavitù: non liberi, cioè, di prendere decisioni autonome sul luogo di lavoro. E vessati, fisicamente e psicologicamente, dai loro padroni. Guadagnano dai 25 ai 30 euro al giorno, per giornate che possono arrivare anche a 12 ore di lavoro consecutive, se si considera il trasporto. Il che significa, per alcuni, due euro all’ora.Il costo non è però soltanto degli sfruttati. Ma anche della comunità. “Si stima – si legge nel documento – che l’economia sommersa in agricoltura abbia raggiunto il 12,3 per cento dell’economia totale”. Il che significa che il volume complessivo d’affari delle agromafie raggiungerebbe 24,5 miliardi”.  24,5 miliardi. “Biggie” non sa nemmeno come si scrive 24,5 miliardiA Biggie hanno spento la luce. A sinistra. Ma non sono riusciti a spegnergli il cuore. D’altronde non deve essere facile. Perché Biggie – il suo nome è Sinayayogo Boubakarè e ha 29 anni – ha un cuore che ha vissuto molte cose. Un viaggio dal Mali all’Italia. A piedi, prima. Su un bus sgangherato, poi. E quindi su un barcone, che per due volte ha rischiato di affondare. Salvato da una barca di brava gente e portato, dopo aver aspettato qualche giorno al largo, fino al porto di Catania

Ho visto tutto quello che si poteva vedere. Pensavo di non poter avere più paura. Perché è stato come morire. Ma forse io sono già morto”

Biggie oggi ha la maglietta rossa. Rossa come il suo occhio sinistro, pieno di sangue, che con fatica riesce ad aprire. Che cura ogni giorno con pazienza e speranza. Anche se i medici gli hanno detto che sarà difficile, forse impossibile, restituire quel pezzo di luce alla vita di Biggie.  Quello che gli è stato tolto alla fine dello scorso aprile.
Biggie è un grande e grosso ragazzo del Mali che da qualche anno vive in Italia. Prima in Campania, poi in provincia di Foggia. È arrivato inseguendo il sogno di una vita migliore. E ha trovato quella che qui nessuno vuole fare: lavoratore stagionale nelle campagne, appunto. “Prima i negri” è scritto su un cartello a due chilometri dall’ingresso di Torretta Antonacci, uno dei ghetti del Gran Tavoliere delle Puglie. Ed è una cinica verità. Seppur non esatta. Perché in questi campi, non vengono soltanto prima i neri. Ci sono anche i bianchi, bulgari e rumeni. I disperati italiani. Ecco, qui vengono prima gli ultimi. Bisognerebbe cambiare il cartello. Biggie campa da tre anni con la schiena piegata verso il basso. E quando la alza lo fa per caricare cassette pesantissime su qualche mezzo a motore. Raccoglie tutto quello che c’è da raccogliere: pomodori, soprattutto. Asparagi. Uva no, perché le sue mani sono troppo grandi per gli acini. “Posso fare il vino”.
Ride.

"Ho paura per la mia salute. E senza salute non posso pensare al futuro. Ma in Italia ho trovato amici lavoro, e voglio restare qui nonostante tutto”.
Sinayogo Boubakar racconta l'aggressione e la sua vita oggi. Intervista di Giuliano Foschini, servizio di Gianvito Rutigliano e Daniele Leuzzi

Biggie è un lavoratore regolare. È in attesa di permesso di soggiorno e, nel frattempo, lavora con un contratto per un’azienda agricola di Foggia. Lo descrivono tutti come “un buono”. A dispetto di quella sue mole che incute rispetto fisico. Di sicuro, parla poco ma in modo chiaro. E così quando ha cominciato a lavorare ha pensato di aggiungere anche un surplus di impegno alla fatica del campo. Proteggere i più deboli. Biggie, insomma, è anche un sindacalista. Lavora con la Cgil. E dicono che sia anche molto bravo.
Come tanti, tantissimi, vive in uno dei ghetti tra Foggia e San Severo. Posti strani. E non solo e non tanto per le condizioni di vita a cui sono costretti migliaia di persone (fino a cinquemila, nelle campagne del foggiano). Strani perché luoghi dai diritti sospesi. Perché ufficialmente non esistono, o non dovrebbero esistere. E invece non solo sono lì, ma somigliano per numeri ed estensione a città vere. Degli enormi Lego del degrado: al posto dei mattoni le lamiere, invece dei pozzi e delle cisterne, fusti sporchi di olio. Eppure ci sono bar, il parrucchieri, persino night. Vivono in case che somigliano alle loro la vite: ci sono, ma non esistono.

Ebbene, cosa sarebbe accaduto in una qualsiasi città italiana se le case improvvisamente si fossero incendiate, e gli abitanti fossero morti? Ecco, negli ultimi due anni, nel ghetto di Foggia, sono morte sei persone. Bruciate vive. Uccise dalle esalazioni delle fiamme. Ne avrebbero dovuto parlare tutti. E invece mai nessun silenzio è stato così forte.
Biggie in quella sera di fine dell’aprile scorso, era andato a fare una visita al Gran Ghetto, pochi chilometri dalla sua baracca. Aveva incontrato degli amici. Bevuto un bicchiere. Era in auto. E stava rientrando, con altre tre persone, a casa. “Ho sentito un rumore: boom!”. A Biggie avevano sparato.

“Erano in tre, ci hanno affiancati, a bordo di una grande macchina bianca. Abbiamo sentito soltanto il rumore. È esploso il vetro, poi ho visto tutta la faccia piena di sangue. Il mio occhio non vedeva più”.

Chi erano? Delinquenti ha stabilito la procura di Foggia. Che sono fuggiti. Dunque, delinquenti ignoti. Non cercavano Biggie ma cercavano i neri da punire. E il perché va cercato in quello che era accaduto la sera precedente. Tre malviventi avevano provato a rubare il gasolio che serve ad alimentare l’impianto di illuminazione del centro di accoglienza. Erano stati scoperti. Ed era stata chiamata la polizia. Uno dei ladri era stato fermato, gli altri erano fuggiti. I malviventi erano italiani. I denuncianti, migranti stranieri (e pensate quanto sarebbe stata diversa la storia se i passaporti fossero stati invertiti). In ogni caso: il giorno dopo, i ladri hanno deciso che i conti dovevano essere regolati. E così sono andati fuori dal ghetto. E hanno deciso di sparare al primo che passava. Biggie si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. La pallottola ha mandato in frantumi il lunotto posteriore dell’auto, a bordo della quale viaggiava. Schegge di vetro sono finite nel suo occhio sinistro. E, nonostante lo straordinario lavoro dei medici, ci sono al momento pochissime possibilità che quell’occhio torni a vedere.
“Io spero che accada. Ma quei vetri non possono aver cambiato niente. I miei amici hanno fatto benissimo a denunciare. Lo farei ancora oggi. L’Italia è il paese che mi ha accolto con le braccia aperte. Vorrei restare qui. Vorrei che non mi cacciasse nessuno. Voglio lavorare in campagna, mi piace. Con i miei diritti. Voglio non avere più paura del mio futuro. Dopo tutto quello che è stata la mia vita, non possono farmi paura dei pezzi di vetro”.

L'indiano che è morto prendeva l'oppio no? E io c'ho dato il Depalgos...dopo, però, siccome io gliene davo poco, non lo so che cazzo è successo...che vuoi fa’? Non sempre indovino".

Già, “Che vuoi fa’?”
A parlare, intercettato dai carabinieri del Nas, è un medico di Sabaudia, Sandro Cuccurullo, arrestato due mesi fa con l'accusa di aver prescritto centinaia di farmaci ad azione dopante ai sikh che si rompono la schiena nelle aziende agricole all'ombra del promontorio del Circeo. Dietro questa conversazione c’è però la prova di un vecchio sospetto: i lavoratori dei campi si drogano per sopportare meglio la fatica. E alla fine capita che qualcuno di loro ci resti.
L'inchiesta, che i carabinieri hanno chiamato "No Pain", ha portato per la prima volta la Procura di Latina ad accusare anche un camice bianco di favorire il doping tra i cittadini di nazionalità indiana presenti nell'agro pontino. Quei lavoratori, che compongono larga parte della comunità indiana presente in terra pontina, la seconda più numerosa d'Italia, da tempo del resto fanno uso di farmaci e droghe per cercare di sopportare la fatica nelle campagne. Le centinaia di aziende agricole presenti tra Aprilia e il sud pontino, la maggior parte concentrate tra Sabaudia, San Felice Circeo e Pontinia, vanno avanti grazie a quegli uomini che, partiti dal Punjab alla ricerca di un lavoro per sostenere le loro famiglie, si sono trasformati in nuovi schiavi.
Costretti a lavorare anche 12 ore al giorno nei campi, tutti i giorni, in cambio di circa 4,55 euro l'ora, mentre il contratto ne prevede 9 per lavorare la metà del tempo, i sikh hanno iniziato a utilizzare oppio, eroina, metanfetamine e antispastici. Il sistema di sfruttamento a sud di Roma è tale che i nordafricani da tempo hanno mollato e al loro posto, alla fine degli anni '80, sono arrivati gli indiani, cresciuti di numero negli anni '90 e fino a circa otto anni fa, quando gli arrivi dall'India sono diminuiti e quella comunità è ulteriormente aumentata soltanto per via delle nascite e dei ricongiungimenti familiari. Attualmente, i dati ufficiali parlano di circa 15mila persone ma, aggiungendo quanti sono privi di permesso di soggiorno e i bengalesi e i pakistani, che lavorano sempre nelle aziende agricole della zona, si arriva a 25-30mila persone.

Un lavoratore sikh nel ghetto di Bella Farnia. Sabaudia (Latina), 29 aprile 2021 

"Nella totale indifferenza dei possibili effetti delle sue stesse condotte delittuose, ha continuato a prescrivere in assenza di presupposti terapeutici e sanitari, il farmaco stupefacente Depalgos 20 mg compresse in favore di numerosissimi pazienti indiani, al solo fine di agevolarli nella faticosa attività lavorativa nei campi agricoli", ha scritto il gip del Tribunale di Latina, Giuseppe Molfese, nell'ordinanza con cui ha fatto mettere in carcere il medico di base Cuccurullo e con cui ha sospeso per un anno dalla professione pure la farmacista Clorinda Camporeale. Gli investigatori, in un anno di indagini, hanno monitorato mille ricette del farmaco ad azione stupefacente fatte a 222 pazienti di nazionalità indiana. Droghe dirette in particolare ai sikh che vivono a Bella Farnia, frazione di Sabaudia, dove nei mesi scorsi era scattata la zona rossa per i troppi casi di Covid tra i braccianti di nazionalità indiana.

Un'indagine quella appena conclusa dal procuratore aggiunto Carlo Lasperanza e dal sostituto Giorgia Orlando che rappresenta una conferma, con il coinvolgimento questa volta anche di professionisti della sanità, della piaga del doping tra i sikh. Era il 2014, infatti, quando, con la coop In Migrazione, Marco Omizzolo, attualmente sociologo dell'Eurispes, realizzò il dossier "Doparsi per lavorare come schiavi", raccogliendo testimonianze sull'uso di droghe e farmaci da parte dei braccianti al fine di sopportare la fatica. Eccone alcune.

“Io lavoro 12-15 ore a raccogliere zucchine o cocomeri o con trattore per piantare altre piantine. Tutti i giorni anche la domenica. Io non credo giusto così. Troppa fatica e pochi soldi. Perché italiani non lavorano così? Dopo un po’ io e anche altri indiani troppo male a schiena, male mani, collo, anche agli occhi perché hai terra, sudore, chimici. Sempre tosse, mattina dolore troppo a schiena. Tu capisci? Ma io devo lavorare e allora prego Signore e vado ancora tutti i giorni a lavorare in campagna da padrone. Ma io uomo di carne no di ferro. Allora dopo sei-sette anni di vita così, che fare? No lavoro più? Io e amici prendiamo piccola sostanza per non sentire dolore. Prendiamo una o due volte quando pausa da lavoro. Poi andiamo a lavorare nei campi senza dolore. Io prendo per non sentire fatica e lavorare e poi prendere soldi fine mese. Altrimenti per me impossibile lavorare così tanto in campagna. Tu capisci? Troppo lavoro, troppo dolore a mani”, riferì uno dei testimoni a OmizzoloE così altri: “Io e amici qualche volta prendiamo sostanze per lavorare. Io so che non è giusto. Ma senza sostanza io mattina no lavoro o faccio troppa fatica. Se io no lavoro, padrone no paga me e io come faccio vivere mia famiglia? Come pago affitto casa? Io voglio cambiare lavoro ma crisi e o lavori così in campagna o no lavori".

Lavoratori della comunità sikh pregano nel tempio Gurdwara Singh Saba. Sabaudia (Latina), 2 maggio 2021 
Gli stessi investigatori, iniziando a sequestrare a cittadini di nazionalità indiana carichi di oppio, inizialmente scartarono l'ipotesi che i sikh si drogassero, acquistando la sostanza stupefacente da connazionali diventati spacciatori, per riuscire a resistere allo sfruttamento. Poi però quello che era un sospetto è stato accertato dagli stessi inquirenti.
I braccianti fanno ormai ricorso all'oppio, ad altre droghe e a numerosi farmaci. "Il fenomeno - assicura Omizzolo, da lungo tempo in prima linea per i diritti della comunità indiana - è esteso in tutta la provincia di Latina. A Bella Farnia, lungo le strade, si trovano pacchetti contenenti fumo o pasticche per sopportare la fatica. Sono pasticche di varia natura, alcune vere e proprie bombe chimiche, che a volte vengono portate direttamente dall'India". Del resto, nonostante le nuove norme contro il caporalato, all'ombra del Circeo è un dramma. C'è chi è stato sorpreso a girare armato all'interno dell'azienda, sparando in aria per spingere i sikh a lavorare di più e senza sosta. Ci sono stati due imprenditori agricoli di Terracina, ora rinviati a giudizio, accusati di aver massacrato di botte un lavoratore indiano soltanto perché chiedeva mascherine e guanti con cui proteggersi dal Covid. E chi, come emerso in un'altra indagine dei carabinieri del Nas, culminata in sette arresti ad aprile, senza protezioni viene mandato a spargere nelle coltivazioni fitofarmaci pericolosi. "Gli stranieri - hanno dichiarato gli investigatori della squadra mobile tre anni fa, dopo un blitz in un'azienda di Borgo Le Ferriere, tra Latina e Nettuno - utilizzano l'oppio per la preparazioni di infusi e bevande che utilizzano prima e durante i pesanti turni di lavoro nei campi per vincere la fatica ed il senso di spossamento".

La piaga del doping è iniziata circa dieci anni fa e sta andando sempre peggio. Nel 2014, sono stati arrestati i primi cittadini di nazionalità indiana trovati con valigie piene di oppio e due anni dopo sono iniziate anche le prime morti per overdose da eroina. Senza contare i suicidi. Disperati, ben 14 braccianti sikh si sono tolti la vita, alcuni impiccandosi anche nelle serre. E vi sono state nell'agro pontino anche altre 15 morti ritenute sospette, in cui si teme che alcuni giovani siano stati uccisi da un mix micidiale fatto di sfruttamento e uso di sostanze proibite. A spacciare oppio, importato direttamente dall'Asia, sono esclusivamente indiani e pakistani. Gli stessi che vendono poi metanfetamine, provenienti a quanto pare da laboratori clandestini gestiti in Campania dalla criminalità organizzata, e antispastici, ricettati da italiani che li rapinano nelle farmacie o assaltando furgoni di medicinali, soprattutto nel Centro-Sud. A far paura però è soprattutto la dimensione del fenomeno. "In base alla mia esperienza - rivela Omizzolo - a doparsi è almeno il 35-40% dei braccianti sikh. La mia è una stima, fatta però alla luce dei miei colloqui e dei miei studi e considerando che solo agli incontri che tengo con i lavoratori di nazionalità indiana solitamente su 10 braccianti 3-4 mi fanno capire che fanno uso di sostanze dopanti".
Già, “Che vuoi fa?”