Addio a Lino Pedroni il
partigiano Modroz
Ore: 17:42 |
mercoledì, 25 dicembre 2013
Grave lutto
per la nostra città e in particolar modo per i partigiani bresciani. La sera
della vigilia di Natale è morto Lino Pedroni, 85 anni. Pedroni, a molti noto
come il partigiano Modroz, presidente onorario dell'Anpi di Brescia.
Dall'impegno sindacale a quello politico, Pedroni ha vissuto credendo fermamente nei valori della Resistenza, quella vissuta direttamente sui monti nei mesi precedenti alla Liberazione. Appena 16enne, Pedroni si unì alla 122esima Brigata Garibaldi combattendo in Valtrompia nei giorni della ritirata tedesca.
Dall'impegno sindacale a quello politico, Pedroni ha vissuto credendo fermamente nei valori della Resistenza, quella vissuta direttamente sui monti nei mesi precedenti alla Liberazione. Appena 16enne, Pedroni si unì alla 122esima Brigata Garibaldi combattendo in Valtrompia nei giorni della ritirata tedesca.
Lino Pedroni aveva sedici anni, ma
sembrava più grande, forse per l’altezza e la corporatura forte, forse per lo
sguardo ora lampeggiante e imperioso, ora tenebroso. Aveva fondato il Fronte
della Gioventù del suo istituto: spargevano chiodi a tre punte dove passavano i
camion tedeschi, cambiavano la segnaletica per fargli sbagliare strada, ma fu
una beffa orchestrata nei confronti di chi voleva arruolare gli studenti per la
Repubblica di Salò a far finire il suo nome sulla scrivania del questore: la
città divenne per lui l’anticamera della galera. La montagna l’unica via di
fuga. Il vice comandante Bruno lo prese in consegna, per farlo diventare uomo,
oltre che partigiano. Gli diedero il nome di battaglia, “Modroz”, e fu mandato
a tendere imboscate ai camion carichi d’armi o a sequestrare le liste di
coscrizione, irrompendo negli uffici comunali: “Mani in alto, contro il muro,
fuori le liste!”. Lino imparò anche come comportarsi quando era di guardia: con
il binocolo, in vetta e nei posti meno accessibili, doveva imprimersi bene
negli occhi il paesaggio, fino a poter indicare un punto a occhi chiusi. E fare
sempre attenzione a quanto comunicavano le donne a valle, con le lenzuola messe
a stendere sull’erba. Un lenzuolo significava pattuglia fascista, due una
squadra, tre o più un rastrellamento. I cacciatori gli insegnarono a capire dal
volo degli uccelli se c’era qualcuno. Di notte invece imparò ad ascoltare i latrati
dei cani legati alla catena: se erano isolati non c’era pericolo, ma se si
susseguivano di cascina in cascina, voleva dire che passava gente e c’era da
stare in campana. In brigata cominciò anche a masticare parole che non aveva
mai sentito: si parlava di libertà, di democrazia, di poveri che non dovevano
più essere poveri, di guerre che dovevano scomparire dalla faccia della terra.
Ma Bruno diceva che per essere liberi tutti, e uguali, si doveva prima
abbattere il fascismo. Erano sul Sonclino quando Radio Londra annunciò la
liberazione di Bologna e Firenze, c’era grande eccitazione, odore di vittoria.
Invece arrivò l’ultimo colpo di coda dei fascisti, super armati e numerosi. I
partigiani, appiattiti contro gli spuntoni di roccia e in piccoli avallamenti,
resistevano dalle sei del mattino quando l’incendio, appiccato per stanarli, li
attanagliò. Decisero di ritirarsi, prima che i fascisti chiudessero il cerchio.
Uno solo era caduto in combattimento: il vice comandante Bruno. Il migliore di
tutti. All’altezza della fiducia che ispirava. Lino lo aveva visto morire
davanti a sé, crivellato da una mitraglia. Un dolore atroce. Era anche un
amico, oltre che un maestro. Inseguiti dai tonfi di mortaio, Lino, con la
bandiera della 122^ brigata d’assalto Garibaldi ripiegata sotto la camicia e
altri sette superstiti, si portarono al passo della Cavata. Poi in Vaghezza,
per cercare di riorganizzarsi. I nazifascisti ne catturarono sedici. Otto
furono fucilati sul posto: i loro corpi, abbandonati a terra, furono trovati
dalle donne di Fontana, salite a prendere la legna. Gli altri brutalmente
torturati prima di essere uccisi. Anche Cesare, un quattordicenne: lo trovarono
sbudellato e senza occhi. Lino pianse a dirotto, perché lo avevano affidato a
lui. Un lavoro sporco, da brigate nere di Idro, quelle che non facevano mai
prigionieri. L’insurrezione generale era nell’aria: qualcuno salì per
annunciare che i tedeschi si stavano ritirando, i partigiani scesero e
trovarono la piazza di Bovegno gremita di bandiere e di insorti armati di
fucili da caccia. Un uomo col fazzoletto tricolore al collo incaricò Lino di
piazzarsi sulla strada e fermare tutti quelli che volevano uscire o entrare.
Brandendo il mitra, lui li bloccava, finché quelli del CLN li prendevano in
consegna per l’interrogatorio. Poi, con otto partigiani e una decina di
insorti, scese a Tavernole, dove occuparono il presidio tedesco
precipitosamente abbandonato. Il magazzino delle vettovaglie conteneva un vero
ben di dio. Verso sera una pioggia fitta batteva la valle. Lino era di guardia
al cimitero da cui si dominava per un lungo tratto la strada per Brescia.
Fradicio fino alle ossa. Quel che era rimasto della brigata si era appena
ricompattato quando arrivò un camion di tedeschi, che si misero a sparare
all’impazzata. Li catturano tutti. Il comandante Tito li voleva mettere al
muro. Il prete, parandosi davanti a loro e agitando le braccia, supplicava i
partigiani: “Salvateli! Il Signore premia i misericordiosi”. Tito esitava, ma
alla fine, con qualche imprecazione, fece rinchiudere i nazisti nella scuola. Il
viaggio vittorioso proseguì. Avanzando, l’esercito di insorti diventava sempre
più folto. Di tedeschi ormai neppure l’ombra. Verso mezzogiorno arrivarono a
Porta Trento, accolti da cecchini che sparavano all’impazzata. I partigiani
dovevano avanzare rasente i muri, dall’una e dall’altra parte della strada. Le
donne uscivano per offrire uova, zucchero, dolci. Abbracciavano Lino e lo
baciavano, gli accarezzavano i capelli lunghi e arruffati, la giacchetta lacera,
il rosso fazzoletto sbrindellato: lui si commosse fino alle lacrime. Ma non
aveva tempo per intenerirsi troppo, perché altri cecchini stavano tirando dal
tetto della Poliambulanza e dal campanile della chiesa. Risposero al fuoco. Poi
salirono sul campanile per stanarli. Erano anche loro sei ragazzi, educati al
sangue e al delitto. Forse avrebbero potuto essere bravi figlioli. Ora però
erano bestie grondanti sangue: bisognava ucciderli per salvare altre vite. Il
pomeriggio corse a Rodengo Saiano, dove le SS italiane e tedesche avevano fatto
martellare le loro mitragliatrici contro undici ragazzi, a villa Fenaroli. La
loro, ormai, più che cattiveria era paura. Però chi le dà secche, dovrebbe
sapere che se gira il vento le prenderà secche: Lino pensò che questa volta
sarebbe toccato ai nazifascisti la raggelante sensazione di avere occhi e
fucili omicidi puntati addosso con libidine. Il loro comandante, zoppicante per
la gamba con una placca di ferro, tentò di svignarsela. Ma venne preso e
giustiziato. “Ripulita la zona” – mormorò Lino, tra sé. Il volto
adolescente solcato dalle prime rughe della durezza della lotta. Era asciutto,
amaro, duro come un ragazzo diventato uomo troppo in fretta. La guerra aveva
indirizzato i giovani verso la spietata necessità delle armi. Selvaggia come
selvaggi erano stati gli ultimi venti mesi. Lino sospirò di stanchezza e di
pace. Quale mondo stava per nascere, ora che era tutto finito? Gli sarebbe
mancato lo stare insieme e parlare di cause giuste, sentirsi una sola cosa, mangiare
lo stesso pane, volersi bene. Decise che avrebbe dedicato il resto della sua
vita alla causa della giustizia, della libertà e dell’antifascismo. Sull’aria
di Gorizia, cantò tra sé la canzone che la sera intonavano davanti al
fuoco del Buco. Sul Sonclino, poco prima della tragica battaglia:
I tedeschi ci chiaman banditi, i fascisti
ci dicon ribelli,
noi invece siam tutti fratelli, che l’Italia vogliam
liberar.
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