Strage di albanesi ad Otranto
ridotte le pene in appello
La sentenza per la morte dei 108 disperati che erano su una carretta del mare speronata da una corvetta della Marina. La corte decide per la distruzione dei resti della nave che i familiari delle vittime volevano riavere per farne un monumento alla memoria
Quattordici anni e tre mesi di attesa, poi, dopo l’ultima udienza davanti alla Corte d’assise d’appello di Lecce, quattordici ore di ulteriore stillicidio, prima della sentenza sull’affondamento della Kater I Rades, la carretta albanese inabbissatasi nel Canale d’Otranto il 28 marzo 1997, con quasi tutto il suo carico di disperati: 108 furono i morti. La decisione è arrivata a notte fonda, quando i numerosi parenti delle vittime che da un decennio seguono il processo erano ormai estenuati. Condanne ridotte, ma sostanzialmente confermate per i due presunti responsabili della “strage del Venerdì Santo”, l’italiano Fabrizio Laudadio, comandante della corvetta Sibilla della Marina Militare, e l’albanese Namik Xhaferi, pilota del barcone finito in fondo al mare, accusati di omicidio colposo plurimo, naufragio colposo e lesioni colpose.
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Quest’ultimo reato, hanno ravvisato i giudici, è ormai prescritto per cui, pur riconoscendo la penale responsabilità dei due imputati, è stato applicato un leggero sconto di pena, pari a due mesi per Xhaferi, la cui condanna è scesa a 3 anni e 10 mesi, e a otto mesi per Laudadio, condannato invece a 2 anni e 4 mesi grazie al riconoscimento delle attenuanti generiche. La Corte ha inoltre riconosciuto cospicui risarcimenti alle costituite parti civili, quantificati in cifre variabili da 20.000 a 300.000 euro in base al danno subito. Chiamare “danno” la distruzione di intere famiglie, del resto, è un eufemismo. La tragedia della Kater annientò interi nuclei di albanesi, i cui sopravvissuti, ieri, si sono ritrovati nel Tribunale di Lecce.
L’imbarcazione era salpata da Valona nel primo pomeriggio del 28 marzo, carica di donne e ragazzi in fuga dalla guerra. Era colma di disperati, ma il trattato firmato tra l’Italia e l’Albania non prevedeva distinzioni sulle procedure da attuare in caso di attraversamenti non autorizzati del Canale d’Otranto, così, quando si trovò in mare aperto, il barcone fu avvicinato da 5 imbarcazioni della Marina italiana, che misero in atto le cosiddette manovre di allontanamento. La Sibilla, però, si avvicinò troppo, al punto da toccare la Kater e causarne l’affondamento. O almeno così raccontarono i pochi superstiti e così ricostruì la Procura salentina, in ipotesi confortate da una serie di perizie, accolte dai giudici di primo e stanotte anche da quelli di secondo, nonostante la diversa interpretazione della Procura generale di Lecce, che in Appello, ha chiesto l’assoluzione per il comandante della nave italiana.
Alla fine, però, i giudici hanno deciso diversamente. E, a notte fonda, nel Tribunale buio e deserto, i parenti delle vittime si sono abbracciati e hanno pianto, ricordando i volti dei familiari inghiottiti dal mare. Nelle profondità dell’Adriatico ben 39 persone, i cui cadaveri non furono mai recuperati, riposano per sempre. In Albania, però, i loro nomi sono scritti su bare vuote, volute dai parenti nei cimiteri di Valona e di altri due paesi, accanto a quelle delle 69 vittime i cui corpi furono ripescati e poi seppelliti. Solo 34, tra uomini e donne, sono riusciti a salvarsi. Tra loro Hermal, che si era imbarcato sulla Kater insieme alla madre e che da solo è stato recuperato dagli uomini della Marina dopo aver nuotato a lungo. Anche per lui ieri una giornata infinita, poi, alle 2.30, la sentenza e, in una sola parola, “condanna”, la fine dell’attesa e le lacrime.
Quanto alla restituzione della nave allo stato albanese, come chiedevano i familiari delle vittime che avrebbero voluto fare delle reliquie un monumento alla memoria, la Corte ha invece disposto la revoca del provvedimento di restituzione e la rottamazione di quel che resta della nave, delegando per l'esecuzione il comando della Marina militare di Brindisi.
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