L’inizio
della cosiddetta crisi da Covid-19, in Tunisia è coincisa con la fine
dell’impasse istituzionale per formare il nuovo governo (dopo circa 4
mesi di consultazioni). Le contraddizioni interne alla borghesia
burocratica tunisina hanno partorito un governo ancor più eterogeneo di
quello precedente, ciò è naturale data l’alta frammentazione della
composizione politica a seguito delle ultime elezioni parlamentari. Oggi
al giano bifronte rappresentato da islam politico/laicismo autoritario,
al potere dal 2015 ma recentemente indebolito dal risultato delle
ultime elezioni, si è innestata anche la sinistra riformista
socialdemocratica.
La natura politica dell’attuale governo tunisino
Queste due
tendenze principali precedentemente avevano dei propri rappresentanti
parlamentari monolitici, adesso invece sono frammentate: anche se Ennahdha è formalmente l’unica forza dell’islam politico al governo, all’opposizione vi è una new entry che proviene dallo stesso solco, il partito Karama con cui vi è spesso unità d’intesa.
Stesso
discorso per quanto riguarda le forze laiciste-conservatrici (spesso
definite in Occidente “laiche”) che hanno subito un maggior
ridimensionamento (Tahya Tounes, Nidaa Tounes,
L’alternativa Tunisina e Machrou Tounes insieme contano 24 deputati), i nostalgici dell’ex dittatore Ben Ali del PDL contano meno di 20 deputati, infine i partiti della sinistra riformista e dai “nazionalisti” nasseriani sono rappresentati dalla Corrente Democratica e dal Movimento del Popolo (insieme nel gruppo parlamentare Blocco Democratico diventato il secondo gruppo parlamentare dopo Ennahdha).
L’alternativa Tunisina e Machrou Tounes insieme contano 24 deputati), i nostalgici dell’ex dittatore Ben Ali del PDL contano meno di 20 deputati, infine i partiti della sinistra riformista e dai “nazionalisti” nasseriani sono rappresentati dalla Corrente Democratica e dal Movimento del Popolo (insieme nel gruppo parlamentare Blocco Democratico diventato il secondo gruppo parlamentare dopo Ennahdha).
Le
contraddizioni interne alla borghesia tunisina espresse da tali partiti e
la mediazione rappresentata dall’azione del presidente della Repubblica
Kais Saied, ha rimescolato le carte all’interno di queste 3 grandi
tendenze politiche del paese.
Kais Saied
infatti pur essendo un presidente “senza partito”, dopo il primo
tentativo fallito di formazione del governo da parte di Ennahdha (che gli spettava di diritto), ha agito con abilità seguendo i propri principi ostili ai rappresentanti dell’ancien regime e sfruttando le proprie prerogative istituzionali.
Ha quindi negato la possibilità di provare a formare il governo al secondo partito in parlamento, Qalb Tounes
(creatura del magnate delle telecomunicazioni e mafioso Nabil Karoui) e
ha invece affidato l’incarico all’attuale primo ministro Elyes Fakhfakh
esponente del partito socialdemocratico ed extraparlamentare Ettakatol
(Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà) ponendolo come ago della
bilancia di queste contraddizioni interne e dando vita alla “creatura
Fakhfakh”.
Un governo di
unità nazionale con una maggioranza di portafogli ministeriali conferiti
a “tecnici” ed i restanti affidati nell’ordine ad esponenti di Ennahdha, Movimento del Popolo, Corrente Democratica, Tahya Tounes, Nidaa Tounes e Alternativa Tunisina. Un governo supportato da quasi tutto l’arco parlamentare tranne da tre partiti (Karama, Qalb Tounes e PDL).
Un governo dalla natura antinazionale
continuando a rappresentare gli interessi della borghesia burocratica e
compradora tunisina nelle sue varie fazioni legate all’imperialismo
occidentale (Francia, Italia, Usa) e aperta alle potenze reazionarie in
Medio Oriente (l’asse Turchia/Qatar, ma anche Emirati Arabi Uniti e
Arabia Saudita).
È questo
governo che dal primo giorno del suo insediamento a fine febbraio si è
misurato con la pandemia confermando ancora una volta come i governi
precedenti la tendenza ha perseguire la via dell’indebitamento estero (e
quindi della dipendenza straniera) accettando prestiti dall’Italia,
cosiddetti aiuti da UE (850 milioni di €), USA (600 mila $), nonché
dalla Cina, un nuovo prestito dal FMI (545,2 milioni di €), dalla Banca
Islamica per lo Sviluppo (279 milioni di $), dalla Banca Africana per lo
Sviluppo. In particolare questo nuovo prestito del FMI presenta gli
stessi vincoli dei precedenti che impongono una deregulation
dell’economia nazionale con liberalizzazioni, tagli alla spesa pubblica
indebolimento del welfare state già al limite in un paese come la Tunisia.
Quindi nessuna illusione su questo governo, chi, tra gli intellettuali e attivisti della sinistra riformista, pensa che “il governo Fakhfakh non puo’ permettersi di sbagliare” e si esprime in questi termini, rivela la propria confusione ideologico-politica.
Chi sta pagando la crisi in Tunisia?
La Tunisia ha
un debito pubblico che supera il 75% del proprio PIL, questa è una
diretta conseguenza del circolo vizioso del debito estero che lega
sempre più il paese ad una condizione neocoloniale presente fin dal 1956
(anno dell’indipendenza formale). Il tasso di disoccupazione medio
ufficiale è del 15% con punte del 35% tra i giovani (che rappresentano
una buona fetta della popolazione) e il tasso di povertà è del 30%.
Inoltre più del 50% del PIL è costituito dall’economia sommersa che
permette la sopravvivenza di centinaia di migliaia di persone
ufficialmente disoccupate.
Tale
dipendenza economica dall’imperialismo perseguita dai governanti è la
causa di questo quadro economico/sociale che si aggrava sempre più con
l’attacco quotidiano alle già precarie condizioni di vita delle masse
popolari. Questo contesto si è aggravato con l’affacciarsi della crisi
da Covid-19 nel mese di marzo.
Ciò è stato chiaro dalle misure di politica economica varate ad hoc nel bimestre marzo-aprile (riportiamo in parte da un nostro precedente articolo):
“dei 2.500
milioni di dinari tunisini (800 milioni di €), stanziati dal governo,
solo 450 milioni di dt sono destinati ai lavoratori e ai poveri mentre
tutto il resto è a beneficio dei padroni a cui sono accordati sussidi,
sgravi fiscali e agevolazioni bancarie e finanziarie. Inoltre le decine e
decine di migliaia di lavoratori che lavorano in nero non beneficeranno
di tali incentivi e molti di loro sono stati già messi alla porta dalle
aziende per cui lavorano a cui è stata imposta la chiusura in seguito
all’ultimo decreto anticoronavirus. Ma due provvedimenti a favore delle
aziende meritano di essere approfonditi:
La
sospensione delle procedure per “crimini fiscali”: un altro grande
regalo che il regime tunisino post-rivolta fa ai grandi uomini d’affari
collusi con l’ex regime di Ben Ali, recentemente riabilitati con una
sorta di “riappacificazione nazionale” promossa dall’ex presidente
defunto Essebsi e duramente contestata da un movimento sorto ad hoc
Manich Msemah (io non perdono n.d.a.).
Un
ulteriore regalo è invece rivolto alle aziende totalmente esportatrici,
spesso straniere, che godendo già di enormi benefici (non pagamento
imposte per i primi 10 anni, contributi fino al 50% dal governo sul
salario dei lavoratori, possibilità di importare macchinari senza pagare
la dogana, possibilità di esportare il 100% dei profitti ecc.) si
troveranno in una posizione altamente concorrenziale rispetto ai
produttori nazionali producenti gli stessi beni.“
Non
sono mancati inoltre gli speculatori, subito attivi nel frodare sui
prezzi dei beni di prima necessità (farina, semola, aglio, uova e latte)
che il governo ha detto di voler contrastare, a cui si sono aggiunti
episodi di corruzione istituzionale che hanno investito in pieno il
governo stesso…
il caso più
eclatante riguarda il ministro dell’industria Ben Youssef che
scavalcando la legge ha ordinato presso un deputato parlamentare e
industriale una comanda di decine di migliaia di mascherine per conto
del governo. Il primo ministro Fakhfkh durante la sua conferenza stampa
del 19 aprile ha minimizzato l’accaduto prendendo le difese del
ministro.
A tutto ciò si
aggiunge che alla fine di aprile il governo ha proceduto a misure volte
a colpire i lavoratori del settore pubblico (che rappresentano una
buona fetta del lavoro emerso evidentemente) attaccando il loro potere
d’acquisto procedendo a prelievi coatti dagli stipendi per sostenere la
crisi, annunciando il non pagamento di straordinari già svolti e così
via.
Il 28 aprile
Faycel Derbel, ex consigliere economico del governo, ha suggerito di
“alleggerire la massa salariale della funzione pubblica” precisando che
ciò però non significa “ridurre i salari dei funzionari”, ma
evidentemente significa nuovi licenziamenti, perfettamente in linea con
quanto predica da qualche anno il FMI ai dirigenti del paese.
La classe
politica dominante e i propri lacchè stanno quindi utilizzando il
Covid-19 per ritornare sulla via maestra del programma delle riforme
strutturali che era stato ostacolato l’anno scorso proprio da due grandi
scioperi generali della funzione pubblica (con adesioni a oltre il 90%)
che reclamavano l’opposto: difesa dei posti di lavoro e i diritti
economici della “massa salariale”. Ciò aveva creato non poche frizioni
tra il precedente governo ed il FMI, dato che il primo era stato
costretto proprio dallo sciopero a rinegoziare alcune condizioni con
l’agenzia finanziaria imperialista come la concessione di scatti alla
carriera e aumenti salariali.
Qual è la risposta delle masse popolari tunisine?
Davanti a tale gestione della crisi è in corso una resistenza spontanea eterogenea e a macchia di leopardo:proteste più radicali si sono verificate nella regione ribelle di Kasserine, con veri e propri espropri proletari spontanei ai camion di farina e semola verificatisi anche a Meknassi (regione di Sidi Bouzid) a cui si sono aggiunte manifestazioni davanti i palazzi del potere per reclamare il ripristino della fornitura di questi beni di prima necessità. A Kasserine un parlamentare originario della regione e proprietario di un mulino e magazzini che già da anni specula su questi beni è stato incriminato.
Nei sobborghi
proletari della capitale invece (Mnhilla e Ettadhamen) centinaia di
persone, dopo l’annuncio del governo del conferimento dei sussidi, non
trovandoli agli sportelli bancari, hanno fatto blocchi stradali
scontrandosi con la polizia. Mentre scriviamo, a un mese di distanza,
altri blocchi stradali sono in corso nella regione di Susa per lo stesso
motivo, non essendo ancora stata erogata la seconda tranche del
sussidio. Simili manifestazioni si sono verificate anche nella regione
agricola di Siliana.
Nell’isola di
Djerba la situazione è tesa da almeno 15 giorni, infatti dopo essere
stata dichiarata zona focolaio, gli accessi all’isola sono stati chiusi
(interrotti traghetti e chiuso l’antico ponte romano) circa 3.000
lavoratori provenienti da altre regioni si sono ritrovati ivi bloccati,
senza lavoro con la chiusura di tutte le attività. Dopo settimane di
promesse il governo ha infine incominciato l’evacuazione graduale verso
luoghi di quarantena per poi permettere a ognuno il ritorno a casa, ma
ciò è avvenuto solo dopo che per diverse volte si sono verificati
scontri con la polizia quando le persone esasperate hanno provato a
sfondare i cordoni di sicurezza e ad attraversare il ponte romano per
raggiungere la terraferma.
Una situazione
analoga ha interessato centinaia di tunisini rimasti bloccati al
confine in Libia. Dopo giorni di attesa estenuante, con la compiacenza
dell’autorità frontaliere libiche (milizie berbere fedeli a Serraji che
hanno ben altre preoccupazioni con l’arrivo dalle milizie di Haftar a
soli 15 Km…), hanno sfondato il confine rientrando nel proprio paese
senza trovare resistenza neanche dalle autorità di frontiera tunisine.
I
medici e gli infermieri, tirati in ballo sempre più strumentalmente dai
governanti di tutti i paesi, a metà marzo presso l’ospedale di Sfax
hanno contestato duramente il ministro della salute recatosi in visita.
Un ministro ampiamente criticato da più parti per la sua evidente
incompetenza nel gestire la crisi sanitaria e accusato di essere
impegnato principalmente in tour propagandistici.
I sindacati
degli studenti e dei professori universitari hanno invece boicottato la
proposta del ministero dell’insegnamento superiore per un insegnamento a
distanza che avrebbe discriminato gran parte degli studenti, date le
condizioni del paese, e denunciato come tale proposta sia la foglia di
fico per favorire compagnie telefoniche private o produttori stranieri
come Huawei.
Nonostante
la crescente impopolarità dei ministri citati, Fakhfakh ha perseguito
come primo obiettivo quello della sopravvivenza del proprio governo non
volendone turbare i fragili equilibri interni, in tal senso ha ceduto
alle avances di Ennahdha che dopo un debutto al governo di secondo piano
adesso punta i piedi, essendo il partito di maggioranza anche
all’interno del governo: nel mezzo di tante polemiche Fakhfakh ha
nominato pochi giorni fa due consiglieri politici ulteriori per la
presidenza del consiglio dei ministri provenienti proprio dal partito
islamista.
Continuando a
seguire di pari passo le tempistiche del governo italiano, anche la
Tunisia cedendo alle pressioni dell’organizzazione patronale UTICA,
riaprirà disordinatamente molte attività incurante delle ricadute
sanitarie negative in contrasto con il parere di medici e virologi.
In questo
contesto l’opposizione parlamentare, esclusi i reazionari, è
praticamente inesistente. I partiti della sinistra revisionista, Fronte
Popolare e Partito dei Lavoratori, al di fuori del parlamento sono
praticamente inattivi lasciando la propria base militante, composta
principalmente da giovani, senza indicazioni politiche e allo sbando (o
per meglio dire “a casa”).
Attualmente il
sindacato unico UGTT è l’unica forza sociale strutturata che
potenzialmente può fare da argine a tali politiche considerando però che
da decenni è una forza interna al paradigma di potere con un fine
strategico tendente più alla conciliazione che alla rottura col potere
stesso, ciò è stato chiaro durante la grande rivolta dei minatori di
Gafsa nel 2008 e nella stessa rivolta popolare del 2010/2011. Nella fase
attuale si è limitato solo a formali prese di posizione rispettando il
divieto di sciopero (tra l’altro formalmente in vigore dal 2015 con
l’istaurazione dello “stato di emergenza” recentemente prolungato fino a
giugno).
Una parte
delle forze rivoluzionarie ha però trovato una forma organizzativa ad
hoc, riuscendo anche a coinvolgere una parte dei militanti di base dei
partiti revisionisti, dando vita ad una sorta di organizzazione di
fronte chiamata Network di Iniziativa di Solidarietà Popolare.
Quest’organizzazione ha iniziato una campagna nazionale in cui allo
stesso tempo sostiene materialmente i settori popolari più colpiti dalla
crisi, informa sulle condizioni sanitarie e denuncia le politiche
governative. La “sinistra” di questa organizzazione, composta da
comunisti maoisti attivi nel network, la considerano alla stregua di
un’attività di Fronte Unito adatta alla situazione concreta ed
oggettivamente ne dirigono l’attività, altri compagni della stessa area
invece non vi partecipano e criticano tale esperienza considerandola
come una forma di “propaganda borghese caritatevole”.
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