Cosa non ci si inventa pur di
fare produrre di più gli operai! Questo “nuovo” metodo si chiama appunto Kaizen
“un mix tra riflessione, creatività e buon senso, ma soprattutto convinzione
che sia utile mettere sempre in discussione gli schemi mentali abituali” e
viene dal Giappone. Dice che lo ha utilizzato la Toyota che addirittura “è
riuscita a fare di questa filosofia produttiva un modello industriale di
successo”
Ce ne occupiamo in questa occasione perché l’articolo dice che “Anche in Italia oggi oltre mille aziende rivendicano di applicare il metodo Kaizen con ottimi risultati.” E quali sono questi risultati? “Meno sprechi, più redditività, maggiore qualità.” Insomma ci vuole lo zen per riproporre la
vecchissima ricetta, vecchia quanto il capitalismo stesso, che spinge gli operai a “sprecare” meno tempo e materiale di lavoro, per essere più redditivi per il capitale e per giunta produrre oggetti con una qualità maggiore!? Non basta il meraviglioso WCM-Ergo Uas applicato da Marchionne? Che prima applicava il TMC e il TMC2? E prima ancora le “isole” e il just in time… insomma tutti metodi che cronometrano i tempi per strappare agli operai quanti più secondi del tempo di lavoro necessario alla loro riproduzione (la loro vita) e “conquistare” sempre più secondi al profitto del padrone. Ma qui, pensando di fare cosa nuova, hanno rispolverato pure la vecchia cassetta dei suggerimenti affinché “le fasi della produzione non siano stabilite una volta per tutte, ma possano essere modificate continuamente, con piccoli accorgimenti, suggeriti dal basso” perché gli operai sono “quelli che hanno il know how”. Esatto, così fa il capitale! Da quando è nato assorbe progressivamente il sapere degli operai e lo incorpora nelle macchine!
E leggere come viene applicato
alla Geox e alla San Benedetto, tra le altre, è interessante, ma la cosa più
interessante è appunto il tentativo degli intellettuali al servizio dei padroni
di trovare metodi sempre più raffinati per estorcere pluslavoro; questo
tentativo parte addirittura dall’utilizzo della dialettica laddove dice che la cosa più importante è “che sia utile
mettere sempre in discussione gli schemi
mentali abituali” e invita quindi a cambiarli. Giusto! Bisogna cambiare
schema mentale, ma per opporsi sempre meglio allo sfruttamento capitalistico in
fabbrica e fuori dalla fabbrica affinché la piramide del potere sia davvero rovesciata.
***
La filosofica del Kaizen che dà il potere agli operai
Il marxismo non c’entra. Si
tratta del metodo giapponese, che punta a un continuo miglioramento della
produzione attraverso piccoli cambiamenti. Suggeriti dal basso
Provate a immaginare una fabbrica
dove siano aboliti decisioni e ordini rigidi calati dall’altro. Dove l’operaio
possa indicare come modificare una catena produttiva per renderà più
efficiente. Dove la piramide del potere sia in qualche modo rovesciata e le
maestranze propongano, e dispongano anche. Dove le fasi della produzione non
siano stabilite una volta per tutte, ma possano essere modificate
continuamente, con piccoli accorgimenti, suggeriti dal basso. La multinazionale
giapponese Toyota è riuscita a fare di questa filosofia produttiva un modello
industriale di successo, e nel museo di Nagoya la propone riassunta, in una
prima, semplice regola: rispetto per le persone. Di mezzo ci sono zen e
umanesimo. Ma, al contempo, molta praticità. Si tratta del cosiddetto metodo
Kaizen, un mix tra riflessione, creatività e buon senso, ma soprattutto convinzione
che sia utile mettere sempre in discussione gli schemi mentali abituali.
Anche in Italia oggi oltre mille aziende rivendicano di applicare il
metodo Kaizen con ottimi risultati. Meno sprechi, più redditività. maggiore qualità.
Geox, colosso della moda quotato in
borsa (l’anno scorso ha superato 870 milioni di euro di ricavi), è una delle
tante. Giorgio Presca, amministratore delegato, sintetizza così: “Chiedermi
come si fa una cucitura sarebbe inutile e sbagliato. Questo significa che chi è
in alto nelle gerarchie non possiede tutte le competenze e quindi deve ascolta
chi le ha. Ma c’è dell’altro: servono luoghi in cui chi ha le capacità manuali
possa esprimere le sue idee, anche le più forti, per evitare che nella
produzione si resti sempre fissati sullo stesso tipo di pensiero. La storia è
piena di innovatori che sono stati derisi e denigrati. Invece è essenziale avere
il coraggio di cambiare abitudini sbagliate, di coinvolgere tutti nella ricerca
di nuove idee.” Quando, per esempio, Geox ha deciso di entrare nei mercati
scandinavi, si è affidata al metodo Kaizen per trovare innovazioni capaci di
proteggere dal freddo estremo. Chiedendo il contributo di tutti, dagli operai
ai manager.
Secondo l’economista giapponese
Masaaki Imai, che dalla fine degli anni Ottanta lo diffonde nel mondo, il
metodo Kaizen è prima di tutto “uno stato d’animo mai soddisfatto dallo Status
quo migliorato continuamente”. Imai, un uomo gentile e pacato, ha 86 anni. Ha
fondato il Kaizen Institute per divulgare il suo metodo in Occidente (la sede
italiana è a Bologna). E oggi è una star internazionale contesa dalle
università. Sale in cattedra e racconta come, per migliorare quello che si fa,
sia anzitutto necessario cercare uno sguardo diverso sulle cose.
Il Gemba, che in giapponese
significa “posto reale”, è il luogo dove si svolte l’azione. Può essere un
reparto della fabbrica. Potrebbe anche essere un ospedale o una qualsiasi
struttura della pubblica amministrazione. È lì, dice Imai, che occorre osservare
ogni oggetto, impianto o relazione con
occhi nuovi, “per identificare il problema e poi risolverlo applicando il buon
senso”. Cosa non sempre facile se ci si impunta su modelli di pensiero precostituiti.
“Moltissimi dei problemi che affrontiamo possono essere risolti semplicemente
usando il buon senso” dice. Così la mentalità manageriale caratterizzata dalla
dipendenza da schemi tanto elaborati quanto rigidi appare il principale
ostacolo al problem solving, il processo cognitivo che consente di analizzare
una situazione ed escogitare una soluzione. Quindi contro l’arroganza intellettuale
va riscoperta l’umiltà. Bel match. Con un vincitore inatteso.
Quando, qualche decennio fa,
alcuni grandi gruppi industriali occidentali si accorsero che nel lontano
Oriente Toyota cresceva impiegando meno capitale finanziario, cominciarono a
chiedersi quale fosse il suo segreto. Lo fecero multinazionali come la General Electrics e la Chrysler negli Stati Uniti. E lo fece
anche la Fiat, in Italia. Il
Lingotto tentò l’emulazione durante l’era di Vittorio Ghidella, amministratore
delegato tra le fine degli anni Settanta e la fine degli Ottanta. “Fu l’epoca
del lancio del just in time, in base al quale si produce solo ciò che è stato
giù venduto o si prevede di vendere davvero” ricorda Bruno Fabiano, cofondatore
di Kaizen Italia. “La Fiat fece però l’errore di limitarsi a un copia e incolla
del metodo, senza cercare soluzioni personalizzate”. Tante aziende sono invece riuscite
a fronteggiare la crisi economica proprio modulando sullo loro esigenze
specifiche la filosofia giapponese. Che poi interamente giapponese non è.
Tutto partì infatti con un ingegnere
e saggista americano, Edward Deming, spedito dagli Stati Uniti in Giappone
nell’abito del piano Marshall, per la ricostruzione dopo la seconda guerra
mondiale. A lui si deve la creazione del cosiddetto ciclo di Deming, per il miglioramento continuo della qualità della produzione
industriale. Gli Usa però lo archiviarono rapidamente mentre i giapponesi
presero Deming molto sul serio e ne fecero un eroe nazionale. Il metodo Kaizen sviluppato
da Maaaki Imai parte da lì. E ora, dopo essere stato per decenni gloria del Sol
Levante, ha iniziato a farsi strada anche in Europa e in America.
In Italia, per esempio, in
provincia di Venezia, nello stabilimento di Acque minerali san Benedetto (quartiere
generale a Scorzè), cinque anni fa decisero di concentrarsi sulla riduzione del tempo necessario a cambiare lo stampo
di una bottiglia.
“Prima occorrevano quattro ore, ora ne impieghiamo solo una e mezza”
dice il direttore generale del gruppo Frederic Barut. “Così abbiamo ridotto i
costi e aumentato la capacità produttiva. Lo abbiamo fatto eliminando tutte le attività inutili e a ideare i vari
cambiamenti sono stati gli operai, quelli che hanno il know how”. In
pratica, nello stabilimento, un
lavoratore ha cominciato a cronometrare i tempi produttivi, un altro quelli non
produttivi, un terzo a iniziato a contare i chilometri quotidiani per andare da
un luogo all’altro della fabbrica in cerca di una vite, di un bullone, di un
trapano. E poi si sono cercate soluzioni semplici per accorciare i tempi.
Altrove hanno inventato invece il “supermercato” per
l’approvvigionamento del materiale necessario alla produzione: “Scaffali bassi,
carrellini. I dipendenti passano ed è come se facessero la spesa, diminuendo
così sprechi e tempo” dice Paolo Fracassini, responsabile della produzione di
ArgoTractors, a Fabbrico (hinterland di Reggio Emilia), che con oltre 1.600 dipendenti
produce macchine agricole destinate per oltre l’80 per cento all’estero. Nello stabilimento
più di un caporeparto all’inizio ha puntato i piedi. Poi, però, i prezzi sul
mercato si son abbassati, il reddito del gruppo è cresciuto e anche i più
ostili al cambiamento hanno cambiato idea.
Il Venerdì 8 aprile ’16
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