12 ottobre
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Ne parlavamo da mesi. Guardavamo fotografie, leggevamo descrizioni, report di assemblee internazionali, intessevamo contatti, immaginavamo l’accoglienza.
Poi una mail da Madrid: chi sono gli italiani che saliranno a bordo? Eccoci: tre napoletani, Rosa, Marina e Stefano, a raccogliere il testimone di Alberto, compagno, velista appassionato e grandissimo personaggio; capelli bianchi scompigliati e due occhi enormi.
Arriviamo a La Spezia di notte; Sara l’ho vista una volta sola, gli altri mai. Eppure sono subito sorrisi, abbracci, complicità.
E poi, dopo un breve giro in macchina, finalmente eccola, bellissima, Estelle. Cinquantatre metri per novant’anni di storia, lo scafo nero e bianco, le cabine e il ponte di comando ocra chiaro, tre alberi, fino a dieci vele. E in cima la bandiera della Palestina.
Ci pervade un’emozione enorme e non smetteremo di sorridere per il resto della notte. Ma non ci fanno salire a bordo: non abbiamo ancora tutte le carte in regola.
Passiamo i giorni successivi dando una mano ai compagni liguri e toscani. Banchetti, chiacchierate con le scolaresche, turni notturni di guardia alla nave, partecipazione alle iniziative di solidarietà alle quali la gente di Spezia risponde numerosa e calorosa.
Poi, finalmente, i documenti sono a posto: possiamo salire a bordo. Prendiamo confidenza con gli spazi che abiteremo per i prossimi giorni e abbiamo i primi contatti con l’equipaggio; molti i giovani: Jocke, 24 anni; Asa, 26 anni; Joel e Anders, 29 anni; Josefin, non so quanti anni abbia, ma per me potrebbe averne anche appena 18. Poi Charlie, la serenità incastonata tra le rughe profonde che circondano gli occhi da marinaio; Johan, meccanico ciccione e goffo; Jan, anziano, occhi azzurri e sempre una risata per tutti. E poi tutti gli altri: Stefan, Mikael, Victoria, Mimika…
Intanto, a terra, si susseguono incontri e conoscenze emozionanti. Egidia Beretta e Alessandra Arrigoni, madre e sorella di Vittorio, la dignità cristallina del dolore e la voglia, la necessità di far parlare ancora chi non può più parlare, se non con il suo esempio; Adelmo Cervi, figlio di Aldo, uno dei sette fratelli fucilati dai fascisti nel ’43, una vita spesa da antifascista, internazionalista, testimone; Sebastian Rodriguez, ex militare israeliano, disertore, una maglietta con sul petto la scritta I love Gaza; i partigiani garibaldini e i reduci dalla prigionia per ragioni politiche nei campi di concentramento portano il loro sostegno alla missione, in un gemellaggio ideale tra due resistenze.
Così si arriva al 1 ottobre, giorno della partenza. Qualche giorno prima, la Guardia Costiera ha controllato l’Estelle per più di cinque ore, bullone per bullone, strumento per strumento, pacco per pacco, documento per documento. L’agente marittimo dice che un controllo così non s’è mai visto e che non può che essere stato sollecitato dall’alto, “da Roma”, dice.
A poche ore dalla partenza, la Guardia Costiera torna a controllare che tutto ciò che non andava sia stato messo a posto. La tensione sale, le ore passano. Lo spettro del bastone tra le ruote prende corpo. Poi, alle 18:00, con quattro ore di ritardo sulle previsioni, ci lasciano partire. Siamo ancora in rada e già ci chiamano al telefono. È Alberto: “Buon viaggio! Qui piangiamo tutti...”.
La navigazione comincia con il primo crew-meeting. Ci dividono in gruppi e ci assegnano i compiti; faremo tutto quello che c’è da fare a bordo, dai turni di pulizia di cucina, bagni, docce e ponte al pilotaggio, alle manovre per issare e calare le vele. Solo la preparazione dei pasti ci è preclusa; quello è compito esclusivo di Jan, norvegese, il quale – non ce ne voglia – ci mette tanta buona volontà ma non è proprio uscito dall’accademia del gambero rosso.
I turni sono duri, anche notturni. Siamo un po’ rintontiti dal cerottino che portiamo appiccicato dietro l’orecchio e che dovrebbe salvarci dal mal di mare. Alle 2:00 della prima notte, sotto un acquazzone, arriva l’ordine di Mika, il capitano: il vento è buono, alziamo le vele. Estelle ha novant’anni e la tecnologia non è il suo fiore all’occhiello. Tutte le manovre si fanno a forza di braccia, quattro persone e almeno un quarto d’ora di lavoro per tirare su una vela; dopo più di un’ora siamo bagnati fradici ma contenti di sentire i motori spegnersi. Si va a vela!
Gli spazi sono angusti, certo non si viaggia nel comfort. Ma gli scandinavi non si fanno mancare la presenza di una piccola sauna a bordo. E alla fine, nel diario di questa esperienza, rientra anche questo: in un caldo pomeriggio di ottobre, nel bel mezzo del Mediterraneo, su una vecchia nave finlandese, fare la sauna attorniato da un manipolo di marinai svedesi.
Il contatto con i compagni a Napoli è continuo. Spuntano continuamente cose che non vanno, documenti da mettere a posto, il timore di non riuscire a coprire le spese. E io quasi mi sento in colpa per averli lasciati da soli a fare un lavoro enorme e difficile mentre io me ne sto in barca.
Dopo qualche giorno così, ci avviciniamo a Napoli. Siamo pieni di grandi aspettative e gli scandinavi ci osservano per cercare di carpire le emozioni e i timori che ci assalgono. Andrà tutto bene? Come sarà la risposta della città? Lasceranno ripartire l’Estelle? In mezzo a questi pensieri, ad un certo punto, compare la banchina del molo Beverello. Ci aspettano, c’è tanta gente, le bandiere della Palestina sventolano insieme a quelle della Freedom Flotilla.
Corro allo zaino a prendere la bandiera, vado a prua, cerco gli occhi dei compagni, stanchi ma commossi, ci chiamano, non vediamo l’ora di abbracciarci. Finalmente Estelle è una realtà anche per loro, la mangiano con gli occhi, vorrebbero toccarla, non vedono l’ora di salire a bordo. Ma prima di loro salgono nell’ordine: Guardia Costiera, Polizia e Guardia di Finanza. Un giornalista da terra ci spiffera: “Appena potete fate una bella derattizzazione! Sono saliti due ratti dell’anti-terrorismo.”
Ora possiamo scendere. Mi lancio tra le braccia dei compagni, mi guardo intorno, vedo tante facce mai viste prima, comincio a pensare che le cose andranno bene.
I giorni successivi sono pieni di iniziative: noi, marinai per qualche giorno, siamo impegnati nelle visite guidate all’Estelle; tante, tantissime persone vogliono vederla da vicino, guardare negli occhi l’equipaggio, vedere il carico. Poco più in là, Pax Christi celebra una messa, cercando ai piani alti protezione per il viaggio e pace in Palestina. Magari funziona... E poi, il giorno dopo, un concerto, tanti napoletani ballano liberi dove in genere si passa in fretta per andare da qualche altra parte, il Maschio Angioino illuminato a controllare che tutto vada per il meglio.
Siamo al 6 ottobre. Estelle si prepara a salpare dal porto di Napoli e intanto noi siamo di fronte all’appuntamento-clou della tre giorni: il corteo cittadino. Passano le ore e Piazza del Gesù si riempie, la folla straborda e la testa del corteo, sotto uno striscione rosso in solidarietà con la resistenza del popolo palestinese, si avvia verso il mare.
Circa 2000 persone, che forse appena il giorno prima non avrebbero osato sfilare insieme sotto le stesse insegne. Fianco a fianco, uniti dalla solidarietà verso un popolo che porta sulle spalle il peso di più di sessant’anni di occupazione militare, della segregazione, delle bombe, del furto della terra, degli ulivi, dell’acqua. Un popolo che da decenni aspetta di tornare nelle proprie case usurpate dall’occupante, le vecchie chiavi trasmesse come il più prezioso dei tesori di famiglia. Un popolo costretto a vivere in una prigione a cielo aperto, Gaza, dalla quale non si può né entrare né uscire. Gli edifici bombardati sono ricostruiti con le macerie: Israele non permette l’ingresso di cemento e materiali da costruzione. Nemmeno i palloni da calcio possono entrare. È per questo che grossa parte del carico imbarcato a Napoli è proprio fatto di centinaia di palloni per i ragazzini gazawi. Molti portano magliette che rivendicano libertà per Ahmad Sa’adat, segretario generale del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Sa’adat è il simbolo per tanti prigionieri politici palestinesi della lotta per la libertà, della lotta contro la corruzione dell’ANP, che prima lo ha imprigionato e poi consegnato ad Israele.
Il corteo arriva al porto: il ridicolo schieramento di forze di polizia è costretto a cedere di fronte alla voglia della gente di salutare Estelle e i suoi coraggiosi abitanti, di augurar loro buon viaggio, buona fortuna, di dimostrare sostegno, di usare la solidarietà internazionalista come un’arma al servizio di chi in ogni parte del mondo viva l’ingiustizia, l’oppressione, il sopruso.
Su questi pochi metri di banchina, per qualche minuto, tutti pensiamo la stessa cosa: Palestina libera.
Ad un tratto, Estelle smette di essere una nave di ferro e diventa un sogno collettivo: un sogno di libertà, solidarietà, passione politica. Tutti, napoletani, svedesi, norvegesi, canadesi, cantiamo con i pugni in alto una vecchia canzone partigiana. Una canzone che Vittorio Arrigoni aveva insegnato anche ai palestinesi. Sono sicuro che anche laggiù, in questo momento, qualcuno stia urlando con noi “c’era scritto libertà”. Tutti ci sentiamo partigiani e tutti, almeno per un giorno, lo siamo. Estelle prende il largo, sulla banchina si stenta a trattenere le lacrime, non riesco nemmeno a cantare con tutti gli altri. Cerco ancora una volta i compagni. Sono tutti emozionati, consapevoli di aver fatto una cosa enorme. Vorrei abbracciarli tutti, ma sono sicuro che mi prenderebbero in giro a vedermi così. E allora li guardo da lontano godersi il loro meritato successo e immaginare un po’ più vicino il successo della Palestina, il successo della Libertà.
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