
,,,,,,L'accusa mossa dalla Procura della Repubblica di Padova era che l'Autonomia fosse il volto legale di una più complessa organizzazione occulta, parte integrante del terrorismo rosso e collegata alle BR[2].
Il giudice Pietro Calogero, titolare dell'inchiesta, diventò famoso per un teorema attribuitogli, che collegava le responsabilità di alcuni docenti universitari predicanti l'eversione (chiamati «professorini») con le azioni terroristiche[1]. Il magistrato padovano indicava nei suoi ordini di cattura reati come la «formazione e partecipazione di banda armata» e «l'insurrezione armata contro i poteri dello Stato», oltre ad attentati, omicidi, ferimenti e sequestri, sostenendo che dalle pubblicazioni di Autonomia Operaia e da altri documenti, oltre che da testimonianze, erano affiorati «sufficienti indizi di colpevolezza»[1].
Oltre ai principali esponenti di Autonomia, ci furono centinaia di inquisiti e arrestati e, negli anni successivi, 60.000 attivisti indagati e 25.000 arrestati[3].
Calogero decise 21 mandati di cattura per i principali esponenti di Potere Operaio (principale segmento della galassia dell'Autonomia, ufficialmente sciolto), tra i quali molti docenti e assistenti della locale università, specie di facoltà come scienze politiche e filosofia, ma anche di fisica e di ingegneria, tutti noti per avere sostenuto in qualche modo idee marxiste e operaiste, o per avere sostenuto tesi antilegalitarie, contro la Costituzione e la magistratura[5]: tra loro c'erano giornalisti del giornale Autonomia, di Radio Sherwood, attivisti contro l'energia nucleare, ambientalisti e sociologi autori di studi scientifici sulle trasformazioni sociali e politiche dell'Italia e dell'Europa, teorici di una dimensione di «insegnamento partecipato» e anti-accademici, tutti accomunati da Calogero ad Autonomia o al mondo dei presunti simpatizzanti e fiancheggiatori delle Brigate Rosse e di Prima Linea[4].
Gli arresti del 7 aprile 1979

Le indagini iniziarono dopo che all'Università di Padova si erano
verificate continue aggressioni contro alcuni docenti, e dopo i continui
incitamenti all'eversione da parte di altri professori (i cosiddetti
«cattivi maestri»).
Il 7 aprile 1979 centinaia di militanti che erano in relazione all'area dell'Autonomia furono inquisiti e/o arrestati, e alcune decine di migliaia in anni seguenti[3]. Pietro Calogero in quell'occasione, nella sua veste di sostituto procuratore di Padova, autorizzò l'arresto dei maggiori leader di Autonomia Operaia, tra cui Toni Negri (a Milano, Roma e Padova), Emilio Vesce (a Padova), Oreste Scalzone a Roma e Padova, e Lanfranco Pace (Padova)[6][7].
La motivazione degli arresti era aver «organizzato e diretto un'associazione denominata Brigate Rosse, costituita in banda armata con organizzazione paramilitare e dotazione di armi, munizioni ed esplosivi, al fine di promuovere l'insurrezione armata contro i poteri dello Stato». Altri arresti si ebbero nei restanti mesi del 1979, da giugno a dicembre, e nel 1980: in tutto, agli imputati verranno comminati quasi 300 anni di carcerazione preventiva[4].
Al momento dell'arresto, Toni Negri stava nel suo appartamento milanese a scrivere un articolo per Magazzino, rivista semiufficiale degli autonomi. Ad inizio anno era uscito, sullo stesso organo, un altro articolo di Negri in cui c'era scritto: «L'unica parola d'ordine che possiamo produrre per gli intellettuali è ancora: brucia, ragazzo, brucia»[1]. Una sua tesi sosteneva che la lotta armata «è il filo rosso dell'organizzazione dell'operaio multinazionale e del suo ciclo di lotte: dobbiamo dipanarlo [...] In tutti i Paesi a capitalismo sviluppato si dà ormai una casistica estremamente ampia di prime iniziative proletarie armate per l'appropriazione e per il salario garantito. La continuità dell'iniziativa operaia su questo piano è necessaria. Ma nel momento stesso in cui essa, come momento fondamentale, si attua, comprende in sé tutta una serie di momenti subordinati alla lotta di massa ma non meno essenziali della lotta armata del proletariato: lotta contro il terrorismo padronale, contro l'uso capitalistico della canaglia fascista, contro i ricatti e le repressioni individuali e di massa che i padroni operano, giustizia proletaria, tutto questo si concentra e si esalta dentro l'asse fondamentale di azione che è la lotta di massa armata.»[1].
Negri fu arrestato, insieme a Luciano Ferrari Bravo (oltre che suo assistente, docente di Storia delle Istituzioni Politiche all'Università patavina), Alisa Del Re, Guido Bianchini, Sandro Serafini, tutti dipendenti della Facoltà di scienze politiche dell'Universita di Padova e altri (Vesce, Scalzone, Lauso Zagato, Giuseppe Nicotri, Mario Dalmaviva, Carmela Di Rocco, Ivo Galimberti, Massimo Tramonte, Paolo Benvegnù, e Marzio Sturaro)[10][11], con varie accuse, tra cui[6]:
- Associazione sovversiva (costituzione e partecipazione).
- Complotto politico.
- Banda armata (costituzione e partecipazione).
- Insurrezione armata contro i poteri dello stato.
- Partecipazione nel sequestro e nell'omicidio Moro, perpetrato dalle BR[12].
- Il sequestro e l'omicidio dell'ingegner Carlo Saronio.
- L'omicidio di Alceste Campanile (militante di Lotta Continua, altro movimento della sinistra extraparlamentare).
- L'assassinio del giudice milanese Emilio Alessandrini, ad opera di PL.
- Il sequestro BR del sindacalista CISNAL Antonio Labate[13].
- Il sequestro BR dell'ingegner Michele Minguzzi alla Sit-Siemens di Milano.
- L'uccisione del brigadiere Andrea Lombardini nel corso della rapina di Argelato.
- Il tentato sequestro dell'industriale Duina.
- Un attentato incendiario alla Face Standard a Milano.
- Un furto in un'armeria di Vedano Olona.
- Altri omicidi e rapine.
- Detenzione di armi, attentati dinamitardi, possesso di esplosivi, falsificazione di documenti, furti, tentate rapine, tentato sequestro e favoreggiamento personale.
Dapprima il giudice Achille Gallucci imputò a Toni Negri la partecipazione al sequestro e all'uccisione di Aldo Moro, attribuendogli la telefonata che annunciava a breve la scadenza dell'esecuzione della sentenza a carico del presidente democristiano (con la quale fu poi confrontata la sua voce)[14][15]: successivamente l'accusa si dimostrò errata (la chiamata fu effettuata da Mario Moretti, capo brigatista che conduceva gli interrogatori)[2]. In seguito il leader autonomo fu accusato d'essere l'ideologo delle Brigate Rosse (dalle quali nel carcere di Palmi fu processato e condannato a morte per la sua posizione non favorevole al terrorismo brigatista)[12] e «mandante morale» dell'omicidio di Aldo Moro[16]. Il 20 gennaio 1980 la rivista Espresso venne posta in vendita con allegato un Flexi-disc intitolato Fate Voi La Perizia Fonica contenente le registrazioni di due drammatiche telefonate brigatiste durante il sequestro Moro e i campioni di voce di Toni Negri e Giuseppe Nicotri sospettati di essere i telefonisti registrati nel carcere di Rebibbia a Roma[17],[18]. Durante il periodo di carcerazione preventiva, dopo le dichiarazioni di Patrizio Peci[19], quasi tutte le accuse a Negri, incluse quelle relative a 17 omicidi[12], caddero perché ritenute infondate. Gallucci dispose con un'ordinanza la scarcerazione di Negri per insufficienza di prove, anche se in seguito sarà di nuovo arrestato e rilasciato solo in seguito alla sua elezione in Parlamento[19].
Negri, principale imputato, fu processato per i reati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, formazione e partecipazione a banda armata, promozione di associazione sovversiva, violazione delle norme sulle armi, tentativo di procurata evasione, sequestro di persona, lesioni personali, violenza privata a pubblici ufficiali, devastazione e saccheggio, furto[12][20]. Nel 1986 e nel 1994 gli vennero attribuite pene supplementari in seguito ad altre accuse[21] per «responsabilità morale» in atti di violenza tra attivisti e forze dell'ordine negli anni sessanta e settanta. Negri fu riconosciuto colpevole, in particolare, di concorso morale nella fallita rapina di una banca ad Argelato, episodio in cui fu assassinato un carabiniere[22].
L'ipotesi del giudice Calogero (conosciuta come «teorema Calogero») era che dirigenti e militanti di Autonomia Operaia «fossero il cervello organizzativo di un progetto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato»[23].
Sembra che il magistrato, nel giustificare gli arresti del 7 aprile abbia affermato: «Visto che non si riesce a prendere il pesce, bisogna prosciugare il mare...»[24], con un chiaro riferimento alla famosa frase di Mao Zedong, secondo la quale i combattenti comunisti devono muoversi come i pesci nelle risaie.
La magistratura padovana cercò di trovare elementi più precisi di connessione tra Negri e le BR, e ritenne di averli individuati. Negri e altri imputati sostennero che - in base alla libertà di opinione – la loro istigazione all'odio, alla violenza non era perseguibile[1]: Toni Negri lamentò di essere vittima di una «caccia alle streghe»[1] e successivamente, quando gli venivano ricordati i contenuti dei suoi insegnamenti, rispose che «tutta la stampa dell'estrema sinistra, da "il manifesto" a "Lotta continua", dai giornali di "Avanguardia operaia" a quelli del "Movimento studentesco", a quei tempi si esprimeva in questi termini. Ciò non significa assolutamente che la rivendicazione di un certo fondamentale leninismo del movimento fosse di per sé produttrice di effetti militari e, al limite, di omicidi»[2], aggiungendo di non riuscire a capire come si potessero collegare i successivi atti terroristici con quelle dichiarazioni[2].
Le condanne definitive dei principali imputati autonomi furono:
- 12 anni a Toni Negri (sommando, tra Padova e Roma) per i reati di partecipazione ad associazione sovversiva, partecipazione a banda armata e concorso morale in rapina; scontati tra il 1979 e il 1983, e in seguito, dopo la latitanza, dal 1997.
- 8 anni a Oreste Scalzone (Roma) per partecipazione ad associazione sovversiva (1988), condanna prescritta nel 2007; annullamento senza rinvio e reato prescritto (Padova).
- 4 anni a Lanfranco Pace (Roma) per partecipazione ad associazione sovversiva (1989)[29], condanna prescritta negli anni novanta.
- 4 anni a Franco Piperno (Roma) per partecipazione ad associazione sovversiva (1989)[29]; 2 anni (Padova) per partecipazione ad associazione sovversiva, pena poi prescritta, durante la seconda latitanza[30].
Per i supremi giudici Negri e altri capi di Autonomia Operaia sono stati i promotori di una trama eversiva che ha operato senza interruzione dal 1971 al 1979[2].
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