Macron, mercoledì, ha decretato l’état d’urgence,...
Oltre alle 1.700 unità – tra gendarmerie e polizia – presenti sull’arcipelago, sono stati mobilitati circa 400 uomini dei reparti speciali del GIGN e del RAID, che stanno giungendo in questo “territorio d’Oltremare” (DOM-TOM) del Pacifico.
Il bilancio degli scontri, è salito a quattro morti e diverse centinaia di feriti – tra cui 61 tra gendarmi e poliziotti -, con 177 fermati e interrogati.
Tra i deceduti vi è un gendarme morto per un colpi d’arma da fuoco, mentre un altra delle quattro vittime sarebbe stata colpita dalle “milizie di quartiere” che si vanno organizzando contro gli insorti nelle parti più benestanti della capitale, in un contesto da guerra civile strisciante, dove questa sorta di gruppi di autodifesa dei quartieri “europei” benestanti sono già armati di tutto punto.
Veniamo alla cronaca.
Ovunque, la sera di lunedì 13 maggio, si è ripetuta la stessa scena a Nouméa.
Fin dalla notte, giovanissimi attivisti pro-indipendenza si sono scontrati con la polizia. Molotov e pietre da una parte, flash-Ball, granate “a frammentazione” contenenti TNT e veicoli blindati dall’altra.
La città è andata praticamente in fiamme, in un contesto pre-insurrezionale.
Con il passare della notte, sui social network sono apparsi i resoconti dell’esplosione di violenza nei
quartieri di Magenta, Montravel e Rivière-Salée. Diversi minimarket sono stati dati alle fiamme, così come due concessionarie auto; la fabbrica di Le Froid, un importante distributore di bevande, è stata completamente devastata dalle fiamme.L’insurrezione si è estesa poi ai quartieri alti, che in genere venivano risparmiati, e sono sorte “milizie di quartiere” che pattugliano l’abitato.
L’Alto Commissario francese, Louis Le Frane, poco prima aveva lanciato un fermo monito sulla televisione La 1ère. Si è rivolto al giovane kanak della tribù di Saint-Louis, molto vicino a Nouméa, che aveva sparato contro i gendarmi, senza peraltro colpirli. “Non giochiamo con la sicurezza (…) con armi automatiche, pistole, fucili di grosso calibro. Chiamerò il GIGN (Gruppo di intervento della gendarmeria nazionale, NdC) per la zona di Saint-Louis“.
E così ha fatto. Il GIGN è autorizzato a rispondere al fuoco per autodifesa, quindi è immaginabile una escalation.
Nel primo pomeriggio, tre guardie carcerarie sono state prese in ostaggio in un ammutinamento rapidamente sedato nel sovraffollato carcere di Camp-Est, mentre le strade della Grande Terre sono state interrotte. L’aeroporto è stato chiuso fino a lunedì.
Prima che la protesta assumesse queste forme, la giornata – che doveva segnare il rifiuto del campo indipendentista nei confronti della riforma costituzionale sull’allargamento dell’elettorato – era comunque iniziata nella calma, secondo le indicazioni degli organizzatori.
La mobilitazione, annunciata settimane fa dalla CCAT (cellula di coordinamento delle azioni di terreno, ndr), l’organizzazione di attivisti del Front de libération nationale kanak et socialiste (FLNKS), si era mantenuta dentro i margini della “legalità”.
La tensione, però, ha raggiunto presto un livello che non si vedeva da quarant’anni. L’Haut Commissariat ha reso noto che 36 gendarmi sono rimasti leggermente feriti e ha decretato il coprifuoco notturno nell’area metropolitana, a partire da martedì, senza però impedire il ripetersi degli scontri.
“Questi giovani sono più simili ai loro omologhi dei quartieri disagiati in Francia che non ai loro coetanei degli eventi del 1984-1988”, hanno osservato i due deputati “lealisti” della Nuova Caledonia, Nicolas Metzdorf e Philippe Dunoyer.
Ma le analogie con il passato sono nella mente di tutti.
“Il popolo originario è stato reso minoranza da una politica di insediamento che non aveva altro scopo se non quello di renderci una minoranza. Allargare l’elettorato significa perpetuare questa ingiustizia”, ha affermato il portavoce del Partito di Liberazione Kanak, il peraltro moderato Jean-Pierre Djaïwé.
Djaïwé avrebbe potuto pronunciare questa frase nel 1984, ma l’ha fatto questo lunedì 13 maggio, quando ha presentato al Congresso della Nuova Caledonia una risoluzione che chiedeva il ritiro della riforma costituzionale del governo, che l’ha effettivamente promulgata.
Un segnale che anche l’ala moderata degli indipendentisti, sulla questione specifica, è intransigente.
Gli accordi di pace – Matignon nel 1988 e Nouméa nel 1998 – hanno trasformato l’arcipelago, grazie al tentativo di rimediare almeno in parte alle storture della colonizzazione e programmare un riequilibrio economico e sociale, “ma permangono forti disuguaglianze, a scapito del popolo Kanak”, è costretto ad ammettere lo stesso Le Monde.
Le disparità sono ancora più marcate rispetto alla Francia continentale e creano un senso di ingiustizia radicato nelle nuove generazioni. La CCAT ha saputo mobilitare sia la ricerca di giustizia sociale indipendentista, sia un immaginario in continuità con la lotta pro-indipendenza.
Qualche settimana fa, per esempio, l’organizzazione ha accolto i giornalisti convocati per una conferenza stampa con un’ascia conficcata su un’urna elettorale.
Era un esplicito riferimento a Eloi Machoro, il leader kanak che aveva distrutto le urne di un seggio nel comune di Canala, sulla costa orientale, durante le boicottate elezioni del 1984.
La riproposizione di un gesto dal forte impatto simbolico riannoda evidentemente il filo rosso della resistenza nell’arcipelago.
Ai tempi fece il giro del mondo ed Eloi Machoro, ucciso un anno dopo dalla polizia, divenne un martire della lotta indipendentista dei Kanak. Il suo volto trasformato in stencil – baffi spessi, occhiali da insegnante e berretto – adorna ancora molte pensiline degli autobus e la data della sua morte, il 12 gennaio, è un anniversario molto sentito dalla gioventù del paese.
“La gioventù kanak è nazionalista”, afferma lo storico della Nuova Caledonia, Louis-José Barbançon, autore di un’analisi che confronta i contesti del 1984 e del 2024.
“Il discorso che circola negli ambienti statali, che mira a dar credito all’immagine di una richiesta di indipendenza guidata da leader invecchiati e rifiutati dai loro giovani, è un pericoloso inganno“. Le recenti elezioni, sottolinea, hanno dimostrato che “mentre i giovani kanak non si presentano più per eleggere leader favorevoli all’indipendenza, quando si presentano votano sì all’indipendenza“.
Il messaggio è chiaro: non credono più nelle possibilità di una rappresentanza politica all’interno del sistema neo-coloniale francese, ma si sono generalmente espressi a favore dell’indipendenza nei diversi referendum.
Dalla sua creazione, alla fine del 2023, i ranghi del CCAT sono cresciuti costantemente. Alla fine di marzo i manifestanti a sostegno del governo locale pro-indipendenza, guidato da Louis Mapou, erano quattromila. Il 13 aprile, durante una storica giornata di manifestazioni sia del campo lealista che di quello pro-indipendenza, almeno diventati quindicimila, mentre sono scesi in piazza in novemila l’8 maggio.
Accanto agli attivisti di lunga data, le manifestazioni hanno visto la partecipazione di due gruppi piuttosto nuovi: le famiglie e i giovani. Un segno di politicizzazione evidente di una parte della popolazione che ora trova un canale di espressione.
Finora le manifestazioni si erano svolte in un’atmosfera per così dire bonaria e festiva, al suono della kaneka, la musica locale, e tra un turbinio di bandiere pro-indipendenza – verdi, gialle, rosse e blu – con la freccia dell’indipendenza al centro.
Ma la retorica del CCAT – che divide la sua azione in diverse fasi, fino all’insurrezione, e inneggia alla “lotta” – fa appello anche agli elementi più giovani, attratti dal desiderio di perpetuare le forme di lotta di chi li ha preceduti. Lunedì pomeriggio, una dozzina di attivisti arrestati la settimana precedente hanno lasciato il tribunale tra gli applausi scroscianti, acclamati come “combattenti per la libertà”.
In quarant’anni, la popolazione kanak si è spostata dalle zone rurali alla capitale, Nouméa, spinta da un processo di urbanizzazione che non ha comunque migliorato la propria condizione. E se nel 1984 i blocchi stradali venivano eretti nella “boscaglia“, lasciando la capitale intatta, lunedì si è visto che la situazione è cambiata.
Per così dire, “la campagna ha accerchiato” la città ed i quartieri dove vive la “minoranza europea”.
Nei comuni periferici, i blocchi stradali e le manifestazioni sono stati sciolti prima della notte. A Nouméa e nei sobborghi le scene di guerriglia urbana sono iniziate sporadicamente al mattino, nelle roccaforti pro-indipendenza di Saint-Louis e La Conception, così come nei quartieri popolari di Montravel e Rivière-Salée. Questo nonostante gli appelli alla calma lanciati dal CCAT e dal movimento pro-indipendenza.
Lunedì pomeriggio, Pierre-Chanel Tutugoro, presidente del gruppo Union calédonienne-FLNKS al Congresso, riteneva che la mobilitazione fosse sotto controllo. L’esplosione di lunedì 13 maggio ha sfidato tutte le previsioni ed anche le indicazioni della formazione indipendentista.
“Stiamo cercando di calmare i nostri elettori, che si stanno armando per rispondere“, ha spiegato invece Metzdorf, membro del partito lealista caledoniano, lasciando balenare uno scenario da guerra civile.
Vediamo più nel dettaglio qual è stato il casus belli di questa nuova ondata di mobilitazione.
Il 15 maggio, l’Assemblea nazionale francese ha adottato con 351 voti contro 153 il progetto di legge costituzionale che amplia l’elettorato in Nuova Caledonia.
Il testo prevede il diritto di voto, fin dalle prossime elezioni provinciali, per tutti i cittadini residenti in Nuova Caledonia da dieci anni, vale a dire 25.000 elettori in più. Gli indipendentisti kanak chiedono che venga ritirata. Per loro, solo le disposizioni attuali, che congelano l’elettorato ai nativi e ai residenti arrivati prima dell’accordo di Nouméa (1998), possono proteggerli dalla “ricolonizzazione“.
Mercoledì mattina, il Front de libération nationale kanak et socialiste (FLNKS) ha condannato “il voto sul progetto di legge costituzionale” e ha “auspicato che venga ritirato (…) al fine di preservare le condizioni per il raggiungimento di un accordo politico globale tra i leader della Nuova Caledonia e lo Stato francese“.
Jacques Lalié, presidente pro-indipendenza dell’assemblea della provincia delle Isole della Lealtà, una delle tre che compongono il territorio, si è detto deluso dal fatto “che la voce del popolo Kanak non sia stata ascoltata“.
Il governo di Parigi ha promesso che, se i due campi si accorderanno su un nuovo status che definisca la cittadinanza caledoniana, sospenderà il suo testo. Ma questa eventualità appare ora molto improbabile, vista la polarizzazione e la spirale di militarizzazione nell’isola.
Questa promessa è stata poi ribadita da Emmanuel Macron in una lettera inviata ai rappresentanti della Nuova Caledonia. Tuttavia, “in assenza di questo accordo, che continuo a sperare e a pregare, e che è auspicabile sotto ogni aspetto per il popolo della Nuova Caledonia, il Congresso si riunirà prima della fine di giugno“, avverte il capo di Stato.
Nonostante la posta in gioco, i dibattiti all’Assemblea Nazionale sono stati interminabili. Mentre Nouméa andava a fuoco, nell’emiciclo si è scatenato lo scontro: la maggioranza si preoccupava di colpire La France insoumise (LFI), che dall’opposizione praticava l’ostruzionismo parlamentare in funzione anticoloniale, mettendo sul banco degli imputati il ministro degli Interni, Gérald Darmanin, che pretendeva di impartire lezioni di “democrazia”.
L’opposizione parlamentare è stata durissima e Bastien Lachaud (LFI), Arthur Delaporte (Parti Socialiste), Tematai Le Gayic (Gauche Démocratique et Républicaine) e Sabrina Sebaihi (Europe Ecologie-Les Verts) hanno chiesto il ritiro del testo di “riforma”.
Inoltre, una larga maggioranza chiede una “missione di dialogo“, che potrebbe essere affidata nei prossimi giorni a una figura di spicco (si è fatto il nome di Lionel Jospin), sotto la guida dei presidenti dell’Assemblea nazionale e del Senato. Il primo ministro, Gabriel Attal, ha invitato Matignon a prendere in mano la questione e ha promesso “dialogo“.
Il governo ha ottenuto un voto in linea con quello del Senato, sperando che potesse evitare di prolungare un difficile iter parlamentare. L’esecutivo aveva anche bisogno di tempo per organizzare la revisione delle liste elettorali della Nuova Caledonia, in vista di un ballottaggio previsto per la fine del 2024.
Infine, era necessario il via libera al Capo dello Stato senza ritardi, poiché solo lui poteva convocare i deputati al Congresso di Versailles per suggellare la revisione costituzionale.
A sinistra l’opposizione, soprattutto l’LFI, aveva presentato più di duecento emendamenti. Oltre a contestare la sostanza del testo, l’adozione accidentale di uno solo di questi emendamenti avrebbe permesso di bloccare la macchina del governo, avviando una seconda lettura. Lunedì sera, poi, il gruppo comunista ha ritirato la cinquantina di emendamenti.
“Non pensiamo che migliorare il testo sia un passo avanti“, ha spiegato il deputato polinesiano Tematai Le Gayic. “Vogliamo che un gruppo di contatto si rechi in Nuova Caledonia e ringraziamo il Presidente per aver accettato di discutere con lui per trovare un accordo, perché il Ministro Darmanin non è più legittimato“.
Quando le discussioni sono riprese, martedì pomeriggio, il rischio di guerra civile in Nuova Caledonia ha consigliato a tutti di raffreddare gli animi. Anche LFI ha ritirato alcuni emendamenti poco prima della mezzanotte.
Nel frattempo, tutti i leader politici del campo indipendentista caldosh hanno invitato alla calma. Ma non è detto che la rivolta si plachi, perché le ferite dei massacri coloniali francesi – fino al 1984 – si sono riaperte, e continuano a sanguinare.
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