giovedì 21 giugno 2018

pc 21 giugno - Mettiamoci le scarpe!

Mettiamoci le scarpe!

Vi domandate perché questo titolo? A cosa si riferisce? Cosa propone?
Quella frase si sente risuonare, ogni tanto, nelle carceri. È un grido che interrompe i monotoni rituali del carcere e viene gridata dalle persone detenute nelle situazioni di tensione massima.
Quando nel corridoio del reparto di un carcere echeggia il grido “mettiamoci le scarpe” vuol dire che si sono avvertiti movimenti delle guardie che si preparano a caricare per un pestaggio oppure per una perquisizione devastante o per un trasferimento improvviso.
Normalmente in cella le persone detenute stanno in ciabatte, del resto che
senso avrebbe stare vestiti e calzati di tutto punto per 20 ore al giorno senza dover fare nulla? Ma quando si profila la possibilità di una colluttazione, affrontarla in ciabatte non è gradevole, molto meglio affrontarla con vestiti, meglio se consistenti e con le scarpe ben allacciate.
    Mettiamoci le scarpe è quindi un grido d’allarme, o meglio, è un appello a prepararsi per affrontare uno scontro, una lotta ed è meglio avere scarpe e vestiti adeguati.
Perché oggi lanciamo questa esortazione per chi sta dentro ma anche per chi in libertà?
Gli intendimenti delle compagini di governo e degli apparati statali, negli ultimi decenni, in questo paese, ma non solo, stanno arrivando a una prima conclusione: i decreti Minniti sul “daspo urbano” e sulla criminalizzazione del vagabondaggio, dell’accattonaggio, di chi disegna sui muri e di chiunque non rispetta l’ordine, si sono fatte più rigide. La messa a punto del Daspo ha visto coinvolti e partecipi ministri, governi e apparati statali degli ultimi vent’anni, nessuno escluso.
Il precedente governo, per mezzo del ministro della giustizia Orlando, aveva messo in moto una gigantesca girandola riformatrice su alcuni aspetti del carcere, in sostanza si voleva dare attuazione alle leggi del 2012 e 2014 che dovevano permettere l’accesso alle misure alternative (restrizioni della libertà di movimento e di frequentazione da eseguirsi fuori dal carcere, nel proprio domicilio) per chi fosse a 4 anni dal termine della pena, oppure avesse subito una condanna inferiore ai 4 anni, dando maggior potere discrezionale (nel concedere oppure no) alla magistratura di sorveglianza su ogni condanna di ciascun/a recluso/a.
Quella riforma dell’Ordinamento Penitenziario (O.P.) approvata dal Parlamento precedente (legge 23 giugno 2017, n. 103 ) con cui si delegava il governo ad emettere decreti esecutivi, in realtà non ha mai visto la luce. Lanciato il sasso, la maggioranza di allora ha nascosto la mano, preferendo dare di se un’immagine manettara per racimolare voti nelle elezioni che si prospettavano. Voti che poi non sono arrivati, per la semplice ragione che l’onda manettara, nutrita e coccolata dai media e dai politici, ha preferito premiare chi era più esplicito nel gridare “più carcere”, “più repressione”, “più militarizzazione”. Quella girandola riformatrice di Orlando possiamo catalogarla nelle rappresentazioni proprie della società dello spettacolo!
    
Riforme No! Controriforme Si! 

È questo, in sintesi, il programma su cui i neo-governanti, manettari doc., si stanno impegnando. Il nuovo ministro della giustizia Alfonso Bonafede, ha affermato, in diverse interviste “stop alle riforme perché minano alla base il principio della certezza della pena“ (dimostrando, anche lui, di non conoscere affatto il significato di questa espressione), proponendo di:
dare impulso all’edilizia penitenziaria per costruire nuove carceri;
-ripenalizzazione dei reati lievi, come ad esempio furti e scippi, tolti da tempo dal codice penale, affiancati da aumenti delle pene per molte violazioni.
-revisione (in negativo, cioè restringimento) di tutte le misure premiali, introdotte dal 1986 con la legge Gozzini e successive.
-linee guida sul cd. 41bis così da ottenere un maggior ed effettivo rigore nel funzionamento del regime del carcere duro.
-inoltre, le limitazioni al diritto d’asilo, i respingimenti e confinamenti, le misure discriminatorie nei confronti dei rom, l’abbassamento della responsabilità penale per i minori (a 13 anni in galera?), la difesa armata sempre legittima.
Gli avvocati penalisti, per bocca del presidente dell’Unione camere penali italiane, l’avvocato Beniamino Migliucci, denunciano una “svolta giustizialista” nel contratto di governo, perché prevede aumenti di pena, costruzione di nuove carceri, più carcere per tutti e prescrizione all’infinito
Gli ultimi decenni hanno dimostrato, anche ai più scettici, che il carcere non è riformabile e che la repressione non si può mitigare.
Questa è la realtà! I tempi che i spettano non saranno piacevoli.

Rimane la lotta!

Questa sì! Partecipata, massiccia, continua! La lotta può incrinare i progetti criminali delle classi al potere. Non lotta difensiva per cercare di attenuare i colpi della repressione, anche perché l’esperienza ha dimostrato che non paga! Lotta per resistere agli attacchi repressivi e rilanciare l’offensiva!
Sul terreno della repressione e del carcere vuol dire costruire:

un movimento per l’abolizione della galera!

Un movimento che raccolga e rilanci tutte le lotte in corso dentro e fuori le carceri sui problemi scottanti (dall’abolizione dell’ergastolo, alla lotta al sovraffollamento, ai troppi suicidi, fino alle rivendicazioni specifiche di ogni Istituto penitenziario) e li rilanci nel percorso che porta all’obbiettivo dell’abolizione del carcere.
Una battaglia che deve costruire unità tra le persone carcerate tra loro e con le persone fuori dal carcere, attualmente “a piede libero”.
I luoghi di questa battaglia sono i posti di lavoro e i territori che abitiamo. Nelle strade di ciascun quartiere e di ogni borgo, vicino o lontano dal carcere, deve risuonare la volontà, sempre più diffusa, di metter fine alla vergogna della reclusione.
Abolizione di ogni carcere e ogni altro strumento che toglie la libertà: Cie, hotspot, manicomi, Rems, ecc., ecc.
Un movimento che ravvivi le relazioni vis a vis, le discussioni guardandoci in faccia, tralasciando, sempre più, gli intrattenimenti con i cosiddetti “social” che, in realtà, costringono all’isolamento, all’emarginazione, alla ghettizzazione.

Con le scarpe ben allacciate, portiamo i nostri piedi sulle strade! Uniamo i nostri corpi e le nostre voci e urliamo sotto le carceri a chi vi è rinchiuso e rinchiusa che siamo con loro per abolire il carcere e trasformare la società repressiva!

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