Calabresi ... infamie e stronzate per una operazione di stato moderno fascista
Lo sconcio della fiction Rai sugli "anni spezzati" sta sollevando un'ondata di rabbia decisamente giusta. Di fronte a questo disinvolto tentativo di rovesciare i risultati certificati di una vicenda chiarissima - sulla strage di Piazza Fontana, c'è addirittura una sentenza definitiva della Cassazione che riconosce i colpevoli nei fascisti e nei servizi segreti, anche se non può più ordinarne l'arresto perché già processati e assolti una prima volta per lo stesso reato - corre l'obbligo di rimettere in circolazione frammenti strutturati di ricostruzione storica degna di fede.
Quello che segue è parte di un testo pubblicato come libro nel 1973, e
resoconta "stralci" di una inchiesta condotta da magistrati italiani
appartenenti a Magistratura Democratica (gruppo interno degno di
menzione onorevole, specie prima che prendessero il sopravvento i
Giancarlo Caselli o i Gerardo D'Ambrosio - quello che riuscì a
qualificare come frutto di un "malore attivo" di Giuseppe Pinelli il suo
omicidio all'interno della questura di Milano)
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Stralci su le prime indagini (Valpreda + 4 , a cura di un gruppo di Magistratura Democratica Ed. La Nuova Italia 1973)
Le prime indagini
Ore 16,30 di venerdì 12 dicembre 1969:
nella Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, in Piazza Fontana, una
violenta esplosione, seguita da una fiammata, semina morti e feriti tra
i clienti e gli impiegati che si trovano nella affollata sala
sportelli, negli uffici e nei pressi della Banca. Il salone è
completamente devastato e gli uffici limitrofi restano seriamente
danneggiati.
Il tragico bilancio finale sarà: sedici morti e ottantotto feriti…
Ore 16,25 dello stesso 12 dicembre:
viene rinvenuta nella Banca Commerciale, Sede Centrale di Milano, Piazza
della Scala, una borsa contenente una cassetta metallica…
Ore 16,55 dello stesso 12 dicembre:
nella Banca Nazionale del Lavoro, Sede Centrale di Roma, una violenta
esplosione devasta il sottopassaggio…
Ore 17,22 e 17,30 dello stesso 12
dicembre: sull’Altare della Patria, in Piazza Venezia a Roma, si
verificano due forti esplosioni…
Nel giro di un’ora, dunque, tra le 16,30
e le 17,30 del 12 dicembre 1969 tra Milano e Roma è stata cagionata
preordinatamente e dolosamente la morte di 16 cittadini ed il ferimento
di altri centosei. Nessuna motivazione potrà mai giustificare un delitto
così infame, vile e gratuito…
La dinamica degli attentati, realizzati
tutti con ordigni esplosivi collocati nelle stesse ore dello stesso
giorno contro obiettivi per gran parte uguali, non lascia dubbi sulla
unitarietà dell’azione che non può che essere ascritta a più persone
strettamente collegate fra loro…
Gli organi di polizia vagliano
attentamente la posizione di tutti i ‘gruppi’, le ‘associazioni’ e i
‘movimenti’ nel cui seno si sospetta possano muoversi elementi
dinamitardi…
Così inizia la lunga requisitoria del
pubblico ministero Occorsio, contro Pietro Valpreda e i suoi compagni
per gli attentati del 12 dicembre, conclusa dopo due anni di indagini,
che le ultime risultanze processuali, raccolte con ben altra obiettività
dai magistrati di Treviso e di Milano, hanno dimostrato tutt’altro che
«attenta››, anzi ampiamente lacunosa.
La disattenzione del pubblico ministero
Occorsio, infatti, balza agli occhi anche di uno sprovveduto lettore fin
dalle prime pagine del suo romanzo giudiziario, che, proprio secondo la
tecnica ottocentesca del romanzo d’appendice, allo scopo di
semplificare e generalizzare concetti complessi, scambia per comodità di
rappresentazione i «pochi» con « tutti».
I gruppi, le associazioni, i movimenti
cui si riferisce Occorsio non sono «tutti›› i gruppi in cui possono
muoversi elementi dinamitardi. Il plurale, in altri termini, copre la
mancanza di indagini proprio verso quei gruppi eversivi che negli ultimi
anni si sono distinti per assalti a sedi, giornali, organizzazioni
democratiche.
Del resto, il primo rapporto dell’Ufficio politico della Questura di Roma, in data 14 dicembre, in questo senso è, sia pure involontariamente, esemplare; dice testualmente:
Si comunica che quest’ufficio, venuto
a conoscenza che nelle sedi dei seguenti circoli politici e nelle
abitazioni delle sottonotate persone si celavano armi e materiali
esplodenti, ha proceduto, con esito negativo, ad ispezioni domiciliari
ai sensi dell’art. 41 del T.U. delle leggi di P.S.: Gruppo Politico
«Potere Operaio››, Sede Naz.1e dell’U.C.I. (m.l.), Circolo studentesco
ellenico, Gruppo anarchico «Michele Bakunin», Sede romana dell’UCI
(m.l.), ASAN «Giovane ltalia», Sede Gruppo «22 Marzo››, Andrianopoulas
Stravas, Coltellacci Fernando Giuseppe, Crescenzi Giulio, Fabbruzzi
Fausto, Gaeta Raffaele, Giuliani Roberto, Guglielmi Guglielmo, Pera
Bruno, Rossi Veraldo, Rosati Luigi, Torlonia Marco Orazio, Zoffoli
Sergio, Paratore Fulvio, Pesce Domenico, Palotto Roberto.
Sono state inoltre, interrogate le
seguenti persone appartenenti notoriamente a movimenti estremisti, le
quali hanno reso le unite dichiarazioni: Allegra Rodolfo, Crescenzi
Giulio, Maesano Libero, Andrianopoulas Stravas, Naili Miloud, Casile
Angelo, Rossi Veraldo, Torlonia Marco Orazio, Fabbruzzi Fausto,
Anagnostopulos Evangelos, Namia Salvatore, Spanò Giorgio, Stenti Bruno,
Filippi Stefano, Palotto Roberto, Giuliani Roberto.
Poiché si era avuta notizia che nel
corso di una conferenza, promossa dal movimento politico «Potere
Operaio», tenutasi in una aula della facoltà di Matematica della locale
Università nel pomeriggio del 12 corrente, i presenti avevano applaudito
all’annuncio degli attentati terroristici da parte di un oratore, sono
state sentite le seguenti persone, indicate a quest’ufficio come
partecipanti all’assemblea medesima, le quali hanno reso le
dichiarazioni che si allegano: Colasanti Giuseppe, Zoffoli Sergio,
Rosati Luigi, Ligini Marco, Mordenti Raoul, Bernabei Marco, Gaeta
Raffaele, Pace Lanfranco, Cecchini Domenico.
Le indagini proseguono e si fa riserva di riferire l’esito
In altri termini, i gruppi in cui
l’ufficio politico cerca armi ed esplosivi sono troppo pochi, perché si
possa definire attenta e non preconcetta l’indagine; manca, ad esempio,
«Ordine Nuovo››, «Avanguardia Nazionale››, quasi che perquisizioni ed
indagini in raggruppamenti in cui notoriamente albergano il fior fiore
dei bombardieri fascisti, qualora fossero state tempestivamente
eseguite, avrebbero finito con lo spostare l’attenzione degli inquirenti
e dell’opinione pubblica troppo lontano dal circolo 22 Marzo, che
appare subito l’obiettivo principale delle indagini, come del resto il secondo rapporto dell’Ufficio politico conferma nella stessa giornata con una precipitazione che distrugge, di fatto, il proposito di nascondere il reale indirizzo delle indagini 1.
Nel corso delle indagini – dice
infatti questo secondo rapporto – per l’identificazione degli autori
degli attentati in oggetto, sono stati accompagnati in quest’Ufficio, le
seguenti persone sulle quali gravano forti indizi di responsabilità in
ordine agli attentati stessi. Le medesime si trovano in quest’Ufficio
dalla data a fianco di ciascuna di esse indicata:
Pesce Domenico : ore 2.10 del 13 c.m.;
Aricò Giovanni : ore 2.10 del 13 c.m.;
Grignani Stefania : ore ll del 13 c.m.;
Borth Anneliese : ore 1l del 13 c.m.;
Merlino Mario : ore 20.30 del 12 c.m.;
Mander Roberto : ore 6.40 del 14 c.m.;
Casile Angelo : ore 21.30 del 14 c.m.;
Borghese Emilio : ore 21.30 del 14 c.m..
I predetti, tutti appartenenti ai
circoli anarchici «Bakunin» e «22 Marzo››, interrogati, hanno fornito
delle dichiarazioni reticenti e contrastanti, sul modo in cui hanno
trascorso il pomeriggio del 12 corrente. Inoltre, il Merlino ha
affermato di avere avuto, in tempi diversi, una richiesta di esplosivo,
da parte di Emilio Borghese, Roberto Mander, Pietro Valpreda e Giorgio
Spanò, questi ultimi due ancora non rintracciati. Il Borghese, da parte
sua, ha affermato di essere stato presente nel laboratorio di via del
Boschetto e di cui e proprietario il Valpreda, ad una discussione
sull’esistenza di un deposito di materiale esplosivo, situato in via
Casilina o via Tiburtina. Nel laboratorio, oltre al Borghese e Valpreda,
erano presenti anche Casile, Aricò, Mander, Emilio Bagnoli ed Enrico
Di Cola, questi ultimi due ancora non rintracciati.
Infine, la cittadina tedesca, Borth
Anneliese, che in un primo verbale d’interrogatorio, aveva dichiarato
chiamarsi Strauss Elke, ha, dopo varie contraddizioni, affermato di
essere entrata in Italia clandestinamente e di vivere insieme agli
aderenti ai due segnalati gruppi di anarchici.
Si allegano i verbali
d’interrogatorio dei predetti e quello di perquisizione de1l’abitazione
di Roberto Mander, dove è stata trovata una miccia, della lunghezza di
circa 2. metri, nonché i verbali delle dichiarazioni rese da Mander
Pietro e da Anna Matteoda, rispettivamente, fratello e madre di Roberto
Mander.
Ciò posto, si prega di voler convalidare il fermo dei predetti per il prosieguo delle indagini.
Perché due rapporti nello stesso giorno,
dal momento che fin dalla sera del 12 dicembre Mario Merlino aveva
fatto «gravi ammissioni››?
Ma altri interrogativi sorgono
spontaneamente, se si esamina l’elenco delle persone che vengono
«accompagnate» in questura dopo gli attentati. Si tratta, infatti, di
militanti dell’estrema sinistra e di cinque adepti di un’organizzazione
di destra senza pesanti precedenti, i quali notoriamente non svolgevano
nelle rispettive formazioni nessun ruolo dirigente. Così che, leggendo i
due rapporti, si ha la sensazione che la polizia voglia dare
l’impressione di brancolare nel buio e di essere aperta a vagliare tutte
le voci senza discernimento, come nel caso di quel presunto «applauso››
scoppiato a un’assemblea di «Potere Operaio›› alla notizia della
strage.
Quasi che i dinamitardi prima eseguano le stragi e poi si applaudano.
La messa in scena della polizia,
insomma, è scadente, lacunosa: ma il pubblico ministero Occorsio è
soddisfatto. Lui sì che sembra applaudire all’operato della polizia,
mentre non dovrebbe coprire il ruolo dello spettatore, ma, con più
proprietà. quello del regista dell’indagine.
Sembra di assistere alla stipulazione di
un atto notorio, in cui appunto Occorsio è il notaio, anziché a
un’indagine giudiziaria che investe non solo l’innocenza e la
colpevolezza di alcuni cittadini, ma soprattutto la vita democratica del
paese.
Il primo atto, pieno di papere, si
conclude la sera del 14 dicembre, quando la polizia tira le redini
dell’indagine e ferma solo otto degli ospiti della Questura e tutti
appartenenti a gruppi anarchici. Perché proprio questi otto? La polizia
afferma che su di essi «gravano forti indizi di responsabilità in ordine
agli attentati››. Ma dietro questa formula di rito, le sole motivazioni
che possono ricavarsi dal rapporto sono le «dichiarazioni reticenti e
contrastanti›› dei fermati «sul modo in cui hanno trascorso il
pomeriggio del 12›› e le affermazioni di Merlino e di Borghese circa «
l’esistenza di un deposito di materiale esplosivo››.
La reticenza non si comprende in che
cosa consista, visto che tutti gli interrogati spiegano chiaramente ed
ampiamente i loro movimenti nel pomeriggio del 12. Né si capisce perché
gli alibi sarebbero contrastanti: nessun controllo risulta effettuato su
di essi, e le dichiarazioni dei fermati, quando se ne effettua il
confronto, coincidono perfettamente (si prenda il caso di Aricò e Casile
i quali, separatamente interrogati, dicono di essere stati insieme
nelle ore degli attentati in una libreria di piazza S. Silvestro) 2.
Quanto alla dichiarazioni rese da
Merlino e da Borghese, esamineremo più oltre la totale inconsistenza
dell’indizio riguardante l’esplosivo che sarebbe stato in possesso dei
membri del 22 marzo 3, giacché ciò che più ci preme rilevare a
questo punto è che la stessa polizia non è in grado di istituire alcun
collegamento tra il presunto possesso dell’esplosivo e gli attentati e
dunque tra gli anarchici e i gravi fatti ad essi attribuiti. Ma,
ciononostante, Merlino resta in stato di fermo, benché sulla base delle
notizie da lui stesso fornite egli sia estraneo al possesso
dell’esplosivo, dal momento che gli viene creduto quando si limita a
dichiarare che gli fu richiesto dell’esplosivo e benché l’alibi da lui
fornito non solo non abbia minor consistenza di quello degli altri
interrogati, ma venga addirittura positivamente verificato mediante la
deposizione della madre 4.
La posizione di Merlino e degli
anarchici non è dunque diversa da quella degli altri interrogati
rilasciati. È quindi logico pensare che l’unica vera ragione del loro
fermo sia nell’inciso contenuto nel rapporto di polizia: «tutti
appartenenti ai circoli anarchici Bakunin e 22 Marzo››. Ne è prova il
simulato fermo alle ore 20 del 12 dicembre, di Salvatore Ippolito,
guardia di pubblica sicurezza, addetto al controllo del 22 Marzo sotto
le mentite spoglie dello studente Andrea.
Nel rapporto del 14 dicembre Merlino viene qualificato come «fermato››.
In realtà, più che come indiziato, fino
alle ore 22 del 14 (quando vengono verbalizzate le sue «informazioni»
sul «deposito di esplosivo» di via Casilina), Merlino sembra trattato
come uno dei tanti informatori che in quelle ore erano stati convocati
in Questura.
Infatti, lo stesso commissario dell’Ufficio politico dr. Umberto Improta nella deposizione del 23 giugno 1970, dichiara:
Debbo infine precisare che nel corso
dei primi interrogatori del Merlino, subito dopo il fermo, questi mi
disse che, se avesse avuto la possibilità di stare insieme a Mander mi
avrebbe potuto dare altre notizie in merito agli attentati di Roma e di
Milano. Io aderii alla richiesta del Merlino e li lasciai insieme, il
Mander e il Merlino in camera di sicurezza. Il Merlino mi fece
successivamente presente che il Mander dopo di essere stato informato
dal Merlino delle circostanze di cui noi eravamo già a conoscenza,
riferendosi al deposito di esplosivi della via Tiburtina, aveva
esclamato: – Ah!, sanno pure questo.
Ma che Merlino sia trattato confidenzialmente risulta anche dalle dichiarazioni di:
- Stefano Serpieri, confidente della
polizia (v. lettera della Questura di Roma, 21.11.1970 riportata alla
nota 4), nella deposizione del 18 novembre 1970, dice:
Verso le ore 22 del 12 dicembre 1969 mi
telefonò un brigadiere dell’Ufficio politico della Questura di Roma
dicendomi che mi voleva parlare il dr. Improta che io già conoscevo.
Giunto in Questura il dr. Improta chiese se io ero a conoscenza di
elementi utili alle indagini relative agli attentati dinamitardi
verificatisi qualche ora prima.
In Questura mi trattenni fino a verso
le ore 4,30 del mattino e nel frattempo rimasi dopo il colloquio con il
dr. Improta, nella sala d’aspetto dell’Ufficio politico ove trovai
Mario Merlino ed un altro giovane da me non conosciuto.
- Salvatore Ippolito (lo studente Andrea), nella deposizione del 12 maggio 1970, dice:
La sera del 12 dicembre verso le ore
20 vennero a prendermi due uomini dell`Ufficio politico e mi
accompagnarono in Questura ove conferii con i funzionari dell’Ufficio
politico che mi chiesero notizie sui movimenti degli appartenenti al
movimento del XXII Marzo; riferii circa l’assenza alla conferenza di
Merlino e Valpreda, il ultimo risultava partito per Milano.
Successivamente fui messo coi fermati, tra i quali in quel momento vi
era Mario Merlino.
- Lo stesso Merlino, nel verbale d’interrogatorio del 14.12.1969, ore 22, dice:
A.D.R. – Ad ulteriore conferma di
tutto quanto esposto posso aggiungere che questa mattina in Questura,
avendo detto che il Commissario mi aveva contestato l’esistenza del
deposito di esplosivo degli anarchici sulla Via Casilina, il Mander ha
risposto, manifestando una certa apprensione, – sanno pure questo.
Tutte queste dichiarazioni dimostrano
che Merlino si intrattenne nella sala d’aspetto del dr. Improta la sera
del 12 dicembre, insieme a due informatori della polizia (Serpieri e
Ippolito); ebbe un colloquio informale col dr. Improta certamente prima
delle ore 6,40 del 14 dicembre (quando viene fermato Mander); sollecitò
da Improta l’incarico di acquisire notizie da Mander, la mattina del 14;
espletò l’incarico accettando di farsi rinchiudere in camera di
sicurezza con Mander; ebbe un ulteriore colloquio con Improta nel quale
riferì il grosso esito dell’incontro con Mander («sanno anche questo››).
Nessuna di tali operazioni appare
trascritta in un verbale; né è verbalizzato il primo alibi reso da
Merlino al dr. Improta appena accompagnato in Questura la sera del 12
dicembre (lettera della Questura di Roma, 21.11.l970).
Le modalità del rapporto
Merlino-Improta, i contatti di Merlino con Serpieri ed Ippolito, le
omesse verbalizzazioni, sono sicuramente più compatibili con la qualità
di informatore che con lo stato di fermato attribuito a Merlino nel
rapporto del 14 dicembre.
Resta il fatto che Merlino viene fermato
dalla polizia, senza che a suo carico esista il benché minimo sospetto
sulla partecipazione agli attentati, salvo il suo particolare legame col
circolo 22 Marzo.
Per quale ragione la sera del 14
dicembre, quando viene decisa la sorte del 22 Marzo, la polizia ha
tramutato la posizione di Merlino da quella di informatore in quella di
fermato?
Non è il primo interrogativo e non sarà
l’ultimo che l’inchiesta giudiziaria pone, ma forse nell’incriminazione
dell’informatore Merlino si nasconde una risposta globale. E tanto più
inquietante apparirà questo capovolgimento di ruolo quando si consideri
che Merlino, finito sul banco degli accusati insieme a Mander e agli
altri, accetterà il suo ruolo di imputato, protestandosi sì innocente,
ma continuando a tacere sui suoi rapporti con la polizia e sui compiti
all’interno del circolo 22 Marzo.
Del resto, tutta l’istruttoria prova che
il meccanismo giudiziario riceve una decisiva accelerazione proprio
dopo «la cantata di Merlino››.
Alle ore 6,40 del 14 dicembre, come si è
visto, viene fermato Roberto Mander. Motivo: le sue richieste di
esplosivo a Merlino. Ma poiché dai verbali d’interrogatorio risulta che
Merlino ha reso le sue dichiarazioni contro Mander solo alle ore 22 del
14 dicembre, si ha una ulteriore prova che Merlino ha parlato
confidenzialmente prima delle ore 6.40.
Lo stesso discorso vale anche per Emilio
Borghese che viene fermato alle 21,30 del 14. Anche gli elementi a suo
carico sono costituiti dalle notizie, sempre informali, fornite non solo
da Merlino, ma anche da Salvatore Ippolito, che con Borghese ha avuto
nel pomeriggio del 14 dicembre un lungo colloquio.
Secondo il p.m. (requisitoria, p. 49),
nel corso di questo colloquio Borghese avrebbe reso ad Ippolito «una
vera e propria confessione stragiudiziale che trova il suo sbocco
nell’azione svolta la sera del 14 dicembre 1969 dal commissario Spinella
che dispose i fermi immediati di Borghese e Gargamelli proprio sulla
scorta delle informazioni fornite da Salvatore Ippolito dopo il
colloquio con il Borghese››.
La portata di tale «confessione
stragiudiziale›› sarà esaminata più avanti. Vale la pena intanto notare
che di quella «confessione stragiudiziale›› il p.m. verrà a conoscenza
solo nel maggio 1970, quando Ippolito farà la sua comparsa ufficiale nel
processo. Ciò non impedisce al dr. Occorsio di convalidare il 17
dicembre, cioè circa sei mesi prima che Ippolito, smesso il suo giaccone
di studente, testimoni come poliziotto. i fermi di Borghese e
Gargamelli con la solita formula di rito «poiché risulta gravemente
indiziato››.
Ed è sempre Ippolito a fornire le
notizie utili a rintracciare Valpreda a Milano. Egli infatti ha
attentamente seguito i movimenti dell’anarchico nei giorni
immediatamente precedenti gli attentati:
A.D.R. – Incontrai il Valpreda, il
giorno della sua scarcerazione per l”arresto della rissa e tra l’altro
mi disse che doveva andare a Milano, ma senza motivarmi le ragioni;
passarono alcuni giorni e vidi che non partiva e allora gli domandai se
andava a Milano; il Valpreda mi rispose di non sapere se si sarebbe più
recato a Milano.
A.D.R. – L’ultima volta che ho visto
il Valpreda è stata la sera del 10 dicembre 1969 alle ore 20,30 circa in
una pizzeria di Via del Governo Vecchio… in quella occasione il
Valpreda disse che sarebbe partito per Milano il giorno 11 o il giorno
12… (deposizione Ippolito, l1.5.1970).
Nel colloquio del 14 pomeriggio, Ippolito chiede poi intenzionalmente a Borghese notizie di Valpreda e apprende che è a Milano.
E così la notte tra il 14 e il 15 dicembre parte da Roma l’ordine di Occorsio di fermare Valpreda a Milano 5.
NOTE
1 Come si vedrà nel capitolo
dedicato a Merlino, l’Ufficio Politico della Questura era a conoscenza
dell’esistenza a Roma di un gruppo di estrema destra facente capo a
Stefano Delle Chiaie, sul quale aveva indagato, con l’aiuto delle
informazioni fornite dallo stesso Merlino, in relazione agli attentati
dinamitardi dell’anno precedente contro i distributori di benzina.
Eppure proprio su questo gruppo la polizia trascura di indagare.
2 Da quali criteri siano stati guidati gli inquirenti può essere chiarito nelle prime indagini con qualche esempio.
Annelise Borth viene sentita la mattina
del 13 alle ore 11. Rilasciata dopo l’interrogatorio incontra per caso
alla stazione Termini verso le 16 due giovani, Bruno Stenti e Stefano
Filippi, che la conoscono di vista. La polizia ferma immediatamente i
due giovani, i quali entrano così a fare parte del gruppo dei 34
«estremisti» interrogati nella immediatezza delle indagini. Dopo
l’incontro la Borth viene ricondotta in Questura e nuovamente
interrogata per circa 4 ore.
Gli interrogatori di Aricò, Casile,
Pesce, Borth e Grignani, ancorchè estenuanti, non danno il benché minimo
risultato. Ciò non impedisce al dr. Occorsio di convalidare il 17
dicembre il fermo di Aricò, Casile e Borth con l’unica immotivata
formula «poiché risulta gravemente indiziato».
L’ingiustizia del fermo degli anarchici
appare tanto più grave se si confronta la loro posizione con quella dei
cinque di destra. Per esempio, a Fausto Fabbruzzi, che dichiara di
essersi incontrato previo appuntamento con Stefano Delle Chiaie in
piazza S. Silvestro, la polizia chiede solo se ha da fornire notizie
utili per le indagini. Eppure quando Stefano Delle Chiaie sarà
interrogato dai carabinieri il 19 dicembre, non farà alcun cenno
all’incontro col Fabbruzzi nel pomeriggio del 12, mentre dirà di averlo
visto la notte tra l’11 e il 12 nei pressi di una trattoria in via
Arezzo insieme ad altri amici tra cui il Merlino.
3 Interrogatorio di Merlino
davanti all’Ufficio politico della Questura reso alle ore 22 del
l4.l2.l969: « A parziale modifica di quanto dichiarato nel mio
precedente verbale di interrogatorio preciso quanto appresso:
In merito agli attentati verificatisi
negli ultimi giorni a Roma e a Milano, sono in grado di riferire che i
miei amici Emilio Borghese, Roberto Mander e Giorgio Spanò, in occasione
di incontri che hanno avuto separatamente con me, mi hanno parlato
dell’esistenza in Roma di un loro deposito di armi, e materiale
esplodente. In particolare i predetti mi hanno detto:
Giorgio Spanò, circa un mese e mezzo fa,
nella sede del circolo «Bakunin» di via Baccina, parlando di attentati
in genere mi disse di essere al corrente di alcuni fatti e particolari
riguardanti gli attentati verificatesi in Roma. Per l’esattezza mi disse
di conoscere gli autori dell’attentato compiuto al Senato della
Repubblica;
Roberto Mander, il 28 novembre u.s., in
occasione del raduno nazionale dei metalmeccanici, in piazza S. Maria
Maggiore, verso le ore 10, mentre era in atto il concentramento degli
studenti, che poi parteciparono al corteo degli operai, mi disse che
aveva bisogno di esplosivo perche la situazione politica stava
precipitando e quindi era necessario agire. Inoltre il 10 e l’11
corrente, in via Cavour, verso le ore 20, Roberto, avendogli io riferito
alcune cose che mi erano state dette da Emilio Borghese, mi disse che
loro effettivamente tenevano un deposito sulla via Casilina ove gli
anarchici custodivano dell’esplosivo e delle armi e che quindi era
necessario parlare in merito in altro luogo e circostanza;
Emilio Borghese una o due sere prima
dell’incontro con Mander, in via del Governo Vecchio n. 22, e
precisamente nella sede del circolo anarchico «22 marzo», mi disse che
sulla via Casilina aveva un deposito di esplosivo, detonatori ed armi:
al riguardosi precisò di avere, in detto deposito, un forte quantitativo
di detonatori e minore quantità di esplosivo. Il discorso, per la
precisione, è avvenuto la sera del 9 o del 10 corrente e ricordo che
soggiunse pure di essere andato al deposito qualche giorno in compagnia
di Roberto Mander e Pietro Valpreda. Di essere andato con la macchina di
Valpreda e di avere prelevato o di aver depositato con i predetti un
certo quantitativo di esplosivo. A conferma di quanto sopra detto
preciso che il Borghese, in quella circostanza, o in altra che in questo
momento non ricordo, mi fece rilevare che all’insaputa di Roberto
Mander, aveva rimediato e conservato, nel deposito di via Casilina,
altro quantitativo di esplosivo.
A.D.R. – Ad ulteriore conferma di tutto
quanto esposto, posso aggiungere che, questa mattina in Questura, avendo
detto che il Commissario mi aveva contestato l’esistenza del deposito
di esplosivo degli anarchici sulla via Casilina, il Mander ha risposto,
manifestando una certa apprensione, ‘ sanno pure questo’ ››.
Interrogatorio di Borghese davanti all’Ufficio Politico della Questura reso alle ore 1 del 15.12.1969:
«A parziale modifica di quanto
dichiarato nel mio precedente verbale di interrogatorio preciso di aver
sentito parlare di un deposito di esplosivo tenuto da un gruppo di
anarchici. Di detto esplosivo, per la precisione, ne ho sentito parlare
una sera in via del Boschetto nel noto negozio di lampadari di Pietro
Valpreda. Nella circostanza, al termine di un discorso fatto da due
persone che in questo momento non ricordo, sentii fare specifico
riferimento ad un deposito di esplosivi appartenenti ad anarchici
ubicato sulla via Tiburtina o sulla via Casilina.
A.D.R. – Quella sera che sono stato
testimone al discorso fatto nel negozio di via del Boschetto e relativo
al deposito di esplosivi, nel negozio stesso erano presenti 6/7 persone,
delle quali adesso non ricordo i nomi. Con le stesse persone, quella
sera stessa mi sono portato in una trattoria di Trastevere dove abbiamo
cenato.
A.D.R. – Il discorso a cui mi sono
riferito sopra è avvenuto il 24 o 25 ottobre u.s. nel negozio di via del
Boschetto, dove, posso affermare con certezza, c’era Pietro Valpreda.
Mi sembra che fossero anche presenti Emilio Bagnoli, Enrico Di Cola,
Roberto Mander, Giovanni Aricò ed Angelo Casile. Il fatto che io non
ricordi bene il nome delle persone che erano presenti quella sera nel
negozio di via del Boschetto è dovuto alla mancanza di luce elettrica
nel locale, che era illuminato da una candela. Ripeto che con le stesse
persone che si trovavano nel negozio di via del Boschetto, sono andato
dopo a cena in un ristorante di Trastevere.
A.D.R. – A cena, di quelli che
presenziarono alla riunione in via del Boschetto, non vennero Roberto
Mander, Giovanni Aricò ed Enrico Di Cola. Ricordo che cenammo nella
trattoria «Angelino», rettifico nella trattoria «Da Mario››, io, Pietro
Valpreda, Emilio Bagnoli ed Angelo Casile. Al ristorante «Da Mario›› ci
recammo con l’auto di Pietro Valpreda, una 500 Fiat colore verde,
targata Milano – non ricordo il numero. Nell’auto ci sistemammo nel
seguente ordine: Valpreda alla guida, Casile al suo fianco, io e il
Bagnoli dietro.
A.D.R. – Effettivamente in occasione
della manifestazione nazionale a Roma dei metalmeccanici, effettuata il
29 novembre u.s., ho incontrato a piazza S. Maria Maggiore Mario Merlino
o Roberto Mander, coi quali ho parlato della manifestazione. Io
personalmente non ho parlato di esplosivi né ho sentito altri parlarne.
Mi ero portato in piazza di S. Maria Maggiore, dove era previsto il
raduno degli studenti che poi sono confluiti nel corteo dei
metalmeccanici, insieme con Emilio Bagnoli».
Si noti un particolare. Gli
interrogatori di Merlino e di Borghese risultano resi rispettivamente
alle ore 22 del 14.12 e alle ore 1 del 15.12, cioè oltre 48 ore dopo
l’effettuazione del fermo; il rapporto di polizia, cui i predetti
interrogatori risultano allegati porta invece la data del 14.12.1969. E’
evidente dunque che il rapporto fu redatto in un momento successivo
alla data in esso indicata per far apparire rispettato il termine di 48
ore dai fermi previsto dall’art. 238 c.p.p. per la comunicazione dei
motivi del fermo all’autorità giudiziaria.
4 Comunicazione della Questura di Roma al g.i. in data 21 novembre 1970:
«In relazione alla richiesta della S.V.,
si comunica che Mario Michele Merlino venne fermato la sera del
12.12.1969, alle ore 20.30, in questa via Liberiana 17, nei pressi della
propria abitazione, dal Brigadiere di P.S. Ugo Prete e dalla Guardia di
P.S. Giovanni Petroccione.
Il predetto, interpellato
immediatamente, dichiarò al Commissario di P.S. dott. Umberto Improta
che il pomeriggio del 12 detto era uscito di casa alle ore 17 e, dopo
avere girovagato per la zona di S. Giovanni, era rincasato alle ore 19.
Sentito a verbale la mattina successiva confermò la dichiarazione
(vedasi verbale allegato al rapporto pari numero ed oggetto del
14.12.1969).
Il dott. Improta, alle ore 12,30 dello
stesso giorno 13, inviò il brigadiere di P.S. Mario Felisatti a casa del
Merlino per controllare la veridicità delle sue affermazioni.
La madre di questi, Vanda Telesio in
Merlino, dichiarò al predetto sottufficiale che il figlio Mario Michele
il pomeriggio del giorno precedente era uscito di casa verso le ore
16,30 per recarsi all’Istituto di Sociologia, per motivi di studio, ed
era rincasato alle ore 18,30 circa.
Per quanto attiene a Stefano Sepieri, si
fa presente che lo stesso, la sera del 12.12.1969, venne convocato
telefonieamente in questo ufficio dal dott. Improta.
Il Serpieri, giunto in Questura a tarda
ora, sostò per alcune ore nella sala di attesa di questo ufficio, dove
si trovavano numerosi fermati, tra cui il Merlino.
Durante le ore di permanenza in ufficio,
fu interpellato, in via confidenziale, dal dott. Improta se avesse
indicazioni da fornire sui responsabili degli attentati.
Il Serpieri non fornì alcuna indicazione»
5 Lettera in data 19 dicembre
1969 del Procuratore della Repubblica di Milano dr. De Peppo al
Procuratore della Repubblica di Roma: «Trasmetto gli allegati atti
(rapporto sul fermo di p.g. di Valpreda Pietro – verbale di fermo –
esame della teste Torri Rachele, zia del Valpreda) dato che il fermo del
suddetto fu ordinato da codesto ufficio e il fermato fu tradotto
costà».
2
Il tentativo di rovesciare la storia recente del nostro paese attraverso gli sceneggiati televisivi non è la prima, non sarà l’ultima. I “rovescisti”, come li chiamerebbe il prof. D’Orsi, sono la pattuglia più esagitata dei revisionisti storici, da sempre all’opera per ricostruire un senso comune del paese che ripudi ogni riferimento al conflitto di classe e alla lotta come fattore progressivo per lo sviluppo di ogni società. Lo sceneggiato della Rai sugli “Anni spezzati” – con la santificazione del Commissario Calabresi, del giudice Sossi e dei dirigenti della Fiat – è l’operazione di manipolazione di massa e rovescista più carogna degli ultimi tempi.
Negare o ridicolizzare il contesto nel quale sono maturati gli eventi che stiamo vedendo o vedremo nella fiction di Rai 1, intende gettare cemento e sangue sulla storia, riscrivere con una sorta di neolingua orwelliana i suoi personaggi e ripulire completamente le responsabilità degli apparati dello Stato in quello che è accaduto dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi.
La guerra di bassa intensità combattuta in Italia dagli anni sessanta a oggi contro la sinistra e i movimenti dei lavoratori e studenteschi, ha avuto fasi diverse di maggiore o minore brutalità. Oggi sono in molti – con una convergenza apertamente bipartizan - a voler mettere sotto il tappeto la spazzatura, i morti, i feriti, gli orrori e gli errori di questo conflitto. Ma questo conflitto resta aperto e riemerge qua e là sotto forma di rovescismo giornalistico e storico, di allarme politico, di occultamento della verità a fini politici. Sono molti infatti coloro che considerano quella guerra non ancora conclusa (vedi il dott. Caselli) e sono altrettanti quelli che lo hanno dichiarato apertamente, rifiutandosi ripetutamente di varare – ad esempio – un provvedimento di amnistia per i reati politici commessi durante la guerra di quegli anni che sancisse in qualche modo la fine del conflitto. Questo processo di “pacificazione”, è avvenuto in tutti i paesi dove c’è stato un sanguinoso conflitto interno: dalla Francia all’Uruguay, dall’Argentina all’Irlanda del Nord. Nel nostro paese no, al contrario, l’armamentario politico, ideologico, legislativo, poliziesco protagonista della “guerra di bassa intensità” è tuttora vigente contro i nuovi movimenti del conflitto sociale di oggi. Appare emblematico come l’unico paese europeo compagno di strada di questa logica di continuità della guerra sia proprio la Spagna, dove le eredità del franchismo sono ancora forti e l’ingegneria repressiva estremamente florida . Ciò spiega perché venga tuttora negata e annebbiata la verità sulle Stragi di stato, sul ruolo delle organizzazioni neofasciste, sulla regia dei servizi segreti militari statunitensi, israeliani, NATO nella guerra di bassa intensità combattutasi in Italia. Dopo più di quaranta anni di inchieste giudiziarie, processi, sentenze, commissioni d’inchiesta le stragi non hanno colpevoli…. e incredibilmente non succede niente sul piano politico.
Il depistaggio nelle inchieste sulla strage di Piazza Fontana e sulle stragi di Stato, non è solo giudiziario, è stato un aperto depistaggio politico che è servito a depotenziare i movimenti antagonisti al sistema ed a stroncarli con “ogni mezzo necessario” da parte degli apparati dello stato e della classe dominante.
Dalla Guerra Fredda alla Guerra sul “fronte interno”. Un cambio di passo
Il Partito Atlantico – composto da partiti politici e poteri forti legati agli USA - che ha sempre agito trasversalmente nella situazione politica italiana, scatenò nel nostro paese una nuova guerra negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Il suo obiettivo era inizialmente impedire che l’Italia mettesse in discussione gli equilibri di Yalta e che l’Italia rimanesse a tutti i costi nella sfera di influenza USA/NATO. Ma via via che la storia sociale del paese progrediva, questa guerra non dichiarata è uscita dai canoni della guerra fredda tra est e ovest, per assumere i canoni di una guerra di bassa intensità concepita e gestita soprattutto sul “fronte interno” sulla base dell’odio di classe, lo stesso che ispira il blocco sociale reazionario oggi dominante. Sta qui il cambio di passo e la rilevante differenza qualitativa tra la “guerra dei quaranta anni” combattuta in Italia e invece la rapida normalizzazione politica del ’68 in altri paesi europei come Francia e Germania. In Italia le classi dominanti hanno impiegato almeno dieci anni per normalizzare la rottura sociale apertasi parzialmente nel’68 studentesco, potenziatasi con le lotte operaie nell’Autunno Caldo del ’69 (contro cui venne scatenata la strage di Piazza Fontana), radicalizzatasi con il movimento del ’77 fino alla normalizzazione violenta dei primi anni Ottanta e alla normalizzazione politica in corso dagli anni Novanta a oggi.
Il 1969 vide mobilitarsi circa 7,5 milioni di lavoratori che produssero 302 milioni di ore di sciopero e di conflitto sociale aperto nel paese. In quello stesso anno, prima della strage di Piazza Fontana, esplosero circa 145 bombe. Ad agosto del 1969, quattro mesi prima della strage del 12 dicembre a Piazza Fontana, i fascisti fecero esplodere 10 bombe sui treni (2 non esplosero) provocando decine di feriti. Una parte dell’esplosivo glielo fornirono i comandi militari USA e NATO delle basi del Triveneto (Verona, Vicenza ed altre).
Il Partito Atlantico – imperniato intorno alla DC ma non solo ad essa - ha dunque scatenato e combattuto una guerra sporca nel nostro paese. Si è servito di uomini politici, dei servizi segreti italiani e stranieri (e non solo di quelli USA), dei carabinieri, dei gruppi neofascisti e in alcuni casi anche delle organizzazioni criminali. Si è servito degli apparati di intelligence del regime fascista e della Repubblica di Salò tutelando, assoldando e arruolando criminali fascisti che sarebbero dovuti finire davanti al plotone d’esecuzione. Ha creato diverse reti di “Uomini neri” disponibili a mettere bombe nelle banche, sui treni, in piazze e stazioni affollate, a uccidere senza scrupoli, a far sparire persone e documenti compromettenti. Ha riempito di soldi, armi e coperture i gruppi neofascisti nati come funghi già negli anni Cinquanta. In sostanza ha organizzato e gestito quella che gli strateghi militari statunitensi hanno definito “Guerra di bassa intensità”, una guerra in cui l’elemento propriamente militare è ridotto, in cui prevale la commistione civile-militare e il target sono individui o organizzazioni sociali più che forze armate avversarie.
In Italia, il ricorso all’uso della violenza politica da parte di settori della sinistra extraparlamentare e del movimento operaio negli anni Settanta, va dunque contestualizzata ad uno scenario in cui la violenza statale e quella dei fascisti contro la sinistra era sistematica, ripetuta, pianificata e impunita. Per molti aspetti fu una sorta di autodifesa collettiva giustificata dalle circostanze e non pianificata: Solo successivamente – e drammaticamente per tutti – divenne un progetto politico fondato sulla militarizzazione dei movimenti sfociato talvolta in terrorismo.
Ricostruire le reti che il Partito Atlantico ha usato in questa guerra a bassa intensità, è stato difficilissimo per tutti. Ad esempio l’inchiesta milanese del giudice Salvini – quella che è andata più in profondità – schematizza efficacemente in “Cinque Entità” queste reti, ma si è dovuta arenare davanti al fatto che un procedimento giudiziario ha bisogno di prove certe (ad esempio testimoni in vita e non deceduti) e davanti agli ostacoli che dentro e fuori la stessa magistratura sono stati opposti alle sue investigazioni. Anche Salvini ha denunciato i depistaggi che hanno cercato di complicare la sua inchiesta, ma quella dei depistaggi rischia di diventare una clausola auto-consolatoria se non se coglie la sua dimensione politica e non giudiziaria. Le audizioni del giudice Salvini davanti alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla stragi sono un preciso atto di accusa alla “politica”. Salvini dice esplicitamente ai parlamentari della Commissione che lui con le sue indagini è arrivato fino al punto massimo al quale si poteva arrivare attraverso gli strumenti giudiziari. Le conclusioni storiche e politiche di quella inchiesta non potevano essere tirate da un magistrato ma solo dalla politica, e questo non è accaduto. E’ su questo che si apre la piaga delle corresponsabilità anche nella storia e nel presente della sinistra italiana.
Il PCI depistò perché in nome della governabilità del paese doveva salvaguardare i rapporti con una parte della classe dominante collusa con gli apparati della guerra di bassa intensità? E’ una tesi estremamente plausibile. Lo fece perché doveva dare l’idea di uno Stato positivo che affondava le radici nel patto costituzionale dentro e contro cui agiva uno Stato parallelo eversivo? E’ la tesi che ha prodotto l’idea del “Doppio Stato” che alla luce dei fatti appare consolatoria e giustificazionista a posteriori.
E’ diventato così più facile dis/orientare l’attenzione pubblica sulla Loggia P2, sulla banda della Magliana, sulla mafia che, seppur coinvolti in questa guerra, erano parte dell’apparato ma non la cabina di regia.
Il PCI, i suoi giornalisti e i suoi uomini nello Stato, hanno dunque alimentato anch’essi il depistaggio politico dando spazio a mille ipotesi, a mille piste, a mille suggestioni dentro cui si perdeva e si confondeva la pista giusta. L’accettazione della NATO e dell’alleanza subalterna agli USA da parte del PCI, è stata decisiva per impedire che si giungesse a conclusioni ovvie ma scomode e piene di conseguenze. Allo stesso modo l’interlocuzione con la DC andreottiana, tesa raggiungere prima il compromesso storico con la Democrazia Cristiana e poi il governo di solidarietà nazionale, hanno bloccato qualsiasi seria conclusione sulle responsabilità politiche nella guerra dei quaranta anni scatenata in Italia dal Partito Atlantico.
Non solo. Già nella prima metà degli anni Settanta, il PCI incalzato dalla crescita di influenza politica della sinistra rivoluzionaria, si prestò a collaborare con gli apparati dello Stato (come ammette l’ex ministro degli interni Taviani) non solo contro le organizzazioni neofasciste, ma anche contro le organizzazioni della sinistra extraparlamentare. La tesi del “Doppio Stato” serve così agli eredi politici e agli orfani del PCI per giustificare una lealtà e una collaborazione inaccettabile con gli apparati statali e contro i movimenti antagonisti. Secondo la tesi del “Doppio Stato”, c’era uno “Stato legittimo” erede del Patto Costituzionale con il quale bisognava collaborare contro le trame eversive e c’era uno “Stato parallelo” che invece era il protagonista delle medesime strategie eversive. I fatti ci hanno dimostrato che così non era, tant’è che le stragi sono rimaste senza colpevoli e che lo Stato – se non in settori minoritari e via via marginalizzati - non ha mai dichiarato conclusa la guerra di bassa intensità contro le forze della sinistra e i lavoratori.
Il tentativo di rovesciare la storia recente del nostro paese attraverso gli sceneggiati televisivi non è la prima, non sarà l’ultima. I “rovescisti”, come li chiamerebbe il prof. D’Orsi, sono la pattuglia più esagitata dei revisionisti storici, da sempre all’opera per ricostruire un senso comune del paese che ripudi ogni riferimento al conflitto di classe e alla lotta come fattore progressivo per lo sviluppo di ogni società. Lo sceneggiato della Rai sugli “Anni spezzati” – con la santificazione del Commissario Calabresi, del giudice Sossi e dei dirigenti della Fiat – è l’operazione di manipolazione di massa e rovescista più carogna degli ultimi tempi.
Negare o ridicolizzare il contesto nel quale sono maturati gli eventi che stiamo vedendo o vedremo nella fiction di Rai 1, intende gettare cemento e sangue sulla storia, riscrivere con una sorta di neolingua orwelliana i suoi personaggi e ripulire completamente le responsabilità degli apparati dello Stato in quello che è accaduto dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi.
La guerra di bassa intensità combattuta in Italia dagli anni sessanta a oggi contro la sinistra e i movimenti dei lavoratori e studenteschi, ha avuto fasi diverse di maggiore o minore brutalità. Oggi sono in molti – con una convergenza apertamente bipartizan - a voler mettere sotto il tappeto la spazzatura, i morti, i feriti, gli orrori e gli errori di questo conflitto. Ma questo conflitto resta aperto e riemerge qua e là sotto forma di rovescismo giornalistico e storico, di allarme politico, di occultamento della verità a fini politici. Sono molti infatti coloro che considerano quella guerra non ancora conclusa (vedi il dott. Caselli) e sono altrettanti quelli che lo hanno dichiarato apertamente, rifiutandosi ripetutamente di varare – ad esempio – un provvedimento di amnistia per i reati politici commessi durante la guerra di quegli anni che sancisse in qualche modo la fine del conflitto. Questo processo di “pacificazione”, è avvenuto in tutti i paesi dove c’è stato un sanguinoso conflitto interno: dalla Francia all’Uruguay, dall’Argentina all’Irlanda del Nord. Nel nostro paese no, al contrario, l’armamentario politico, ideologico, legislativo, poliziesco protagonista della “guerra di bassa intensità” è tuttora vigente contro i nuovi movimenti del conflitto sociale di oggi. Appare emblematico come l’unico paese europeo compagno di strada di questa logica di continuità della guerra sia proprio la Spagna, dove le eredità del franchismo sono ancora forti e l’ingegneria repressiva estremamente florida . Ciò spiega perché venga tuttora negata e annebbiata la verità sulle Stragi di stato, sul ruolo delle organizzazioni neofasciste, sulla regia dei servizi segreti militari statunitensi, israeliani, NATO nella guerra di bassa intensità combattutasi in Italia. Dopo più di quaranta anni di inchieste giudiziarie, processi, sentenze, commissioni d’inchiesta le stragi non hanno colpevoli…. e incredibilmente non succede niente sul piano politico.
Il depistaggio nelle inchieste sulla strage di Piazza Fontana e sulle stragi di Stato, non è solo giudiziario, è stato un aperto depistaggio politico che è servito a depotenziare i movimenti antagonisti al sistema ed a stroncarli con “ogni mezzo necessario” da parte degli apparati dello stato e della classe dominante.
Dalla Guerra Fredda alla Guerra sul “fronte interno”. Un cambio di passo
Il Partito Atlantico – composto da partiti politici e poteri forti legati agli USA - che ha sempre agito trasversalmente nella situazione politica italiana, scatenò nel nostro paese una nuova guerra negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale.
Il suo obiettivo era inizialmente impedire che l’Italia mettesse in discussione gli equilibri di Yalta e che l’Italia rimanesse a tutti i costi nella sfera di influenza USA/NATO. Ma via via che la storia sociale del paese progrediva, questa guerra non dichiarata è uscita dai canoni della guerra fredda tra est e ovest, per assumere i canoni di una guerra di bassa intensità concepita e gestita soprattutto sul “fronte interno” sulla base dell’odio di classe, lo stesso che ispira il blocco sociale reazionario oggi dominante. Sta qui il cambio di passo e la rilevante differenza qualitativa tra la “guerra dei quaranta anni” combattuta in Italia e invece la rapida normalizzazione politica del ’68 in altri paesi europei come Francia e Germania. In Italia le classi dominanti hanno impiegato almeno dieci anni per normalizzare la rottura sociale apertasi parzialmente nel’68 studentesco, potenziatasi con le lotte operaie nell’Autunno Caldo del ’69 (contro cui venne scatenata la strage di Piazza Fontana), radicalizzatasi con il movimento del ’77 fino alla normalizzazione violenta dei primi anni Ottanta e alla normalizzazione politica in corso dagli anni Novanta a oggi.
Il 1969 vide mobilitarsi circa 7,5 milioni di lavoratori che produssero 302 milioni di ore di sciopero e di conflitto sociale aperto nel paese. In quello stesso anno, prima della strage di Piazza Fontana, esplosero circa 145 bombe. Ad agosto del 1969, quattro mesi prima della strage del 12 dicembre a Piazza Fontana, i fascisti fecero esplodere 10 bombe sui treni (2 non esplosero) provocando decine di feriti. Una parte dell’esplosivo glielo fornirono i comandi militari USA e NATO delle basi del Triveneto (Verona, Vicenza ed altre).
Il Partito Atlantico – imperniato intorno alla DC ma non solo ad essa - ha dunque scatenato e combattuto una guerra sporca nel nostro paese. Si è servito di uomini politici, dei servizi segreti italiani e stranieri (e non solo di quelli USA), dei carabinieri, dei gruppi neofascisti e in alcuni casi anche delle organizzazioni criminali. Si è servito degli apparati di intelligence del regime fascista e della Repubblica di Salò tutelando, assoldando e arruolando criminali fascisti che sarebbero dovuti finire davanti al plotone d’esecuzione. Ha creato diverse reti di “Uomini neri” disponibili a mettere bombe nelle banche, sui treni, in piazze e stazioni affollate, a uccidere senza scrupoli, a far sparire persone e documenti compromettenti. Ha riempito di soldi, armi e coperture i gruppi neofascisti nati come funghi già negli anni Cinquanta. In sostanza ha organizzato e gestito quella che gli strateghi militari statunitensi hanno definito “Guerra di bassa intensità”, una guerra in cui l’elemento propriamente militare è ridotto, in cui prevale la commistione civile-militare e il target sono individui o organizzazioni sociali più che forze armate avversarie.
In Italia, il ricorso all’uso della violenza politica da parte di settori della sinistra extraparlamentare e del movimento operaio negli anni Settanta, va dunque contestualizzata ad uno scenario in cui la violenza statale e quella dei fascisti contro la sinistra era sistematica, ripetuta, pianificata e impunita. Per molti aspetti fu una sorta di autodifesa collettiva giustificata dalle circostanze e non pianificata: Solo successivamente – e drammaticamente per tutti – divenne un progetto politico fondato sulla militarizzazione dei movimenti sfociato talvolta in terrorismo.
Ricostruire le reti che il Partito Atlantico ha usato in questa guerra a bassa intensità, è stato difficilissimo per tutti. Ad esempio l’inchiesta milanese del giudice Salvini – quella che è andata più in profondità – schematizza efficacemente in “Cinque Entità” queste reti, ma si è dovuta arenare davanti al fatto che un procedimento giudiziario ha bisogno di prove certe (ad esempio testimoni in vita e non deceduti) e davanti agli ostacoli che dentro e fuori la stessa magistratura sono stati opposti alle sue investigazioni. Anche Salvini ha denunciato i depistaggi che hanno cercato di complicare la sua inchiesta, ma quella dei depistaggi rischia di diventare una clausola auto-consolatoria se non se coglie la sua dimensione politica e non giudiziaria. Le audizioni del giudice Salvini davanti alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulla stragi sono un preciso atto di accusa alla “politica”. Salvini dice esplicitamente ai parlamentari della Commissione che lui con le sue indagini è arrivato fino al punto massimo al quale si poteva arrivare attraverso gli strumenti giudiziari. Le conclusioni storiche e politiche di quella inchiesta non potevano essere tirate da un magistrato ma solo dalla politica, e questo non è accaduto. E’ su questo che si apre la piaga delle corresponsabilità anche nella storia e nel presente della sinistra italiana.
La tesi del “Doppio Stato”: un aspetto del depistaggio
Il depistaggio, non possiamo negare che sia una responsabilità che
porta con se anche il più grande partito comunista europeo dell’epoca:
il PCI. Il gruppo dirigente del PCI, pur conoscendo molto di come
stavano le cose sin da prima della strage di Piazza Fontana del ‘69,
preferì mettere i freni alle conseguenze di quello che sapeva (e che in
gran parte sapevano tutti come afferma Pasolini). Lo fece per timore del
colpo di stato? E’ una tesi resa plausibile per il contesto storico di
quegli anni. Nell’Europa degli anni Settanta, l’Italia- ritenuta
l’anello debole del sistema NATO - è stata circondata da ben tre
dittature militari (Spagna, Grecia, Portogallo) che in alcuni casi
durarono fino al 1978 e questa minaccia fu resa ancora più incombente
dalla lettura che venne fatta dal PCI sul colpo di stato in Cile nel
’73.Il PCI depistò perché in nome della governabilità del paese doveva salvaguardare i rapporti con una parte della classe dominante collusa con gli apparati della guerra di bassa intensità? E’ una tesi estremamente plausibile. Lo fece perché doveva dare l’idea di uno Stato positivo che affondava le radici nel patto costituzionale dentro e contro cui agiva uno Stato parallelo eversivo? E’ la tesi che ha prodotto l’idea del “Doppio Stato” che alla luce dei fatti appare consolatoria e giustificazionista a posteriori.
E’ diventato così più facile dis/orientare l’attenzione pubblica sulla Loggia P2, sulla banda della Magliana, sulla mafia che, seppur coinvolti in questa guerra, erano parte dell’apparato ma non la cabina di regia.
Il PCI, i suoi giornalisti e i suoi uomini nello Stato, hanno dunque alimentato anch’essi il depistaggio politico dando spazio a mille ipotesi, a mille piste, a mille suggestioni dentro cui si perdeva e si confondeva la pista giusta. L’accettazione della NATO e dell’alleanza subalterna agli USA da parte del PCI, è stata decisiva per impedire che si giungesse a conclusioni ovvie ma scomode e piene di conseguenze. Allo stesso modo l’interlocuzione con la DC andreottiana, tesa raggiungere prima il compromesso storico con la Democrazia Cristiana e poi il governo di solidarietà nazionale, hanno bloccato qualsiasi seria conclusione sulle responsabilità politiche nella guerra dei quaranta anni scatenata in Italia dal Partito Atlantico.
Non solo. Già nella prima metà degli anni Settanta, il PCI incalzato dalla crescita di influenza politica della sinistra rivoluzionaria, si prestò a collaborare con gli apparati dello Stato (come ammette l’ex ministro degli interni Taviani) non solo contro le organizzazioni neofasciste, ma anche contro le organizzazioni della sinistra extraparlamentare. La tesi del “Doppio Stato” serve così agli eredi politici e agli orfani del PCI per giustificare una lealtà e una collaborazione inaccettabile con gli apparati statali e contro i movimenti antagonisti. Secondo la tesi del “Doppio Stato”, c’era uno “Stato legittimo” erede del Patto Costituzionale con il quale bisognava collaborare contro le trame eversive e c’era uno “Stato parallelo” che invece era il protagonista delle medesime strategie eversive. I fatti ci hanno dimostrato che così non era, tant’è che le stragi sono rimaste senza colpevoli e che lo Stato – se non in settori minoritari e via via marginalizzati - non ha mai dichiarato conclusa la guerra di bassa intensità contro le forze della sinistra e i lavoratori.
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