Al terzo ed ultimo incontro di formazione tenuto dal prof
Alberto Lombardo per conto dei compagni del Collettivo Senza Tregua Palermo e
della Rete dei Collettivi Studenteschi si è affrontato l’argomento della forma
organizzativa di cui necessitano i proletari per abbattere la classe dominante
e instaurare una nuova società: il partito comunista, sui sindacati e circa
l’organizzazione politica dei giovani.
Il prof parte dal capolavoro leniniano de il “Che fare?”
schematizzandolo; si dice giustamente che la Teoria non deve essere astratta ma
sempre connessa alla pratica, ovvero la critica che facemmo all’impostazione
del primo incontro (vedi post su questo blog), sulla necessità di formare un
partito come organizzazione stabile di comunisti.
Si dice anche che l’elemento spontaneo non è la forma
embrionale della coscienza.
Vengono poste le seguenti domande: “chi autorizza gli
intellettuali a chiamarsi Partito?” “deve essere fatto da operai? O da
rivoluzionari di professione?”.
Rispetto agli incontri precedenti il prof è stato più
conciso nell’esposizione, molto più scolastico, schematizzando, come si diceva,
l’opera leniniana e limitando agli esempi concreti. Subito ha lasciato la
parola ai “giovani” appena tornati dall’incontro di Roma che ha visto la
nascita del Fronte della Gioventù Comunista in cui si sono sciolti i collettivi
Senza Tregua più qualche altro.
Con nostra sorpresa non intervengono i due compagni
palermitani andati a Roma a rappresentare il collettivo palermitano bensì un
compagno un po’ meno giovane facente parte del partito comunisti-sinistra
popolare di Marco Rizzo.
Il compagno fa un intervento che abbraccia innanzitutto la
questione del partito sottolineando più volte che in questa fase quest’ultimo
deve avere innanzitutto una funzione “formativa” verso i suoi militanti e
curarsi di essi. Come detto negli incontri precedenti dal prof Lombardo critica
“l’estetica dello scontro” avvenuto il 14 Dicembre 2011 degli studenti a Roma e
il 15 Ottobre 2012 sempre a Roma bollando questi due eventi come manifestazioni
che non avevano l’obiettivo del “socialismo”, riferendosi in particolare al 15
Ottobre organizzato dal movimento occupy che a suo avviso “è un movimento
revisionista”. Quello che invece serve, continua, è un partito organizzato
partendo dagli operai che a differenza dei soggetti sociali presenti in piazza
in quei due avvenimenti, per propria natura di classe sono saldi nel perseguire
l’obiettivo nella lotta, i giovani invece vanno organizzati e fa accenno all’incontro nazionale di Roma di
cui si diceva sopra e non mandati a scontrarsi, “certo, se si viene attaccati
bisogna difendersi”.
Interviene il portavoce locale dei Cobas Confederazione che
nella sostanza non aggiunge niente di nuovo ma approfitta delle argomentazioni
del compagno intervenuto precedentemente per rivendicare l’infame linea di
condotta tenuta il 15 ottobre a Roma quasi giustificandosi e dicendo che “quel
movimento è morto a Piazza San Giovanni” lasciando intendere sia a causa
dell’attacco delle forze dell’ordine ma anche a causa degli “sfasciacarrozze”
come ha definito il suo segretario Piero
Bernocchi ovvero le migliaia di giovani e non che hanno resistito valorosamente
contro l’apparato repressivo dello stato.
Interveniamo partendo dalla nostra pratica ed esperienza
concreta e materiale in quanto compagni impegnati nella costruzione del partito
comunista maoista. Innanzitutto il lavoro soggettivo di costruzione del partito
deve tenere conto della situazione oggettiva in cui si opera e questo lavoro è
una dialettica tra l’alto e il basso, tra direzione soggettiva e accumulazione
di forze con il lavoro di massa. Il compagno di CSP parlava di “formazione” ma
intendiamoci su quale tipo di formazione ci serve: sicuramente quella teorica,
ma i quadri si formano anche sul campo, praticando la lotta di classe e non
leggendola solo sui libri, noi usiamo la formula “nel fuoco della lotta di
classe e in stretto legame con le masse”, bisogna affermare e praticare il
metodo della violenza rivoluzionaria e non della conciliazione. Tutto questo è
l’essenza della dialettica tra teoria e pratica rivoluzionaria che è una
questione dinamica e non statica. Per questo non possiamo essere d’accordo con
le analisi fatte nei due interventi precedenti (discorso a parte circa
l’apertura il prof si è limitato a spiegarci il “che fare?” che già conoscevamo
e che cerchiamo di applicare). Innanzitutto per le dinamiche proprie del nostro
paese non è mai esistito un movimento occupy, a Roma alcuni dei soggetti già
organizzati e facenti parte del comitato organizzatore si sono appropriati del
nome per capitalizzare ciò che veniva dall’estero. Anche secondo noi questo
movimento “è morto a Piazza San Giovanni”, ma non ci riferiamo all’eroica
battaglia di migliaia di giovani, lavoratori, operai, precari, in una formula
masse popolari. Bensì è morta in partenza, da quando alcune forze revisioniste
e opportuniste del comitato organizzatore hanno tradito il volere delle masse
che era quello di assediare i palazzi del potere (così come in quella giornata
si è fatto in altri paesi) e deviato il corteo verso una modalità da sfilata
che doveva concludersi con una festa molto simile ad un comizio elettorale,
quanto meno questo epilogo vergognoso non ha avuto luogo. In questo senso i
militanti comunisti si formano da un lato nel “grigio lavoro quotidiano” e nel
lavoro di massa, e su questo dobbiamo contraddire il compagno sulla questione
di come pensano oggi gli operai che non sono da mitizzare ma se si andasse
regolarmente alle fabbriche si vedrebbe come il lavoro da fare sia tutt’altro
che semplice, seppur necessario a causa anche dell’influenza negativa di
decenni di revisionismo del PCI e lavoro di conciliazione con i padroni svolto
dai sindacati confederali. E dall’altro come si diceva essendo presenti ovunque
vi sia fermento sociale e lotta di classe.
Tornando al concetto di violenza rivoluzionaria, questa è
educatrice verso le masse, va contrapposta alla violenza di stato della
borghesia, serve per approfondire il distacco tra masse popolari e stato
borghese, per sfatare il mito che lo stato è super partes e così via, è una
sciocchezza bollare la violenza rivoluzionaria come “violenza da ultras” come
fatto dal prof durante uno degli incontri, con tutto il rispetto per gli ultras
che tra l’altro come succede spesso prendono posizione contro il potere vedi ultimamente
la tifoseria del ST Pauli di Amburgo riguardo il processo-vendetta di Genova
2001 o le tifoserie greche o quelle egiziane contro Mubarak che hanno anche
fatto delle belle analisi sociali in alcuni comunicati o ancora la tifoseria
italiana circa la lotta in Val Susa contro la costruzione della TAV.
Altra cosa importante è l’internazionalismo e il lavoro
internazionale: i comunisti sono per forza di cose internazionalisti e appoggiare le rivoluzioni in corso (in primis
le guerre popolari dirette da partiti maoisti), propagandarne i risultati, fare
iniziative, praticare l’internazionalismo scambiandosi le esperienze e idee con
compagni di altre parti del mondo è interno alla costituzione di un partito
rivoluzionario. In particolare, in questa fase è un dovere rivoluzionario
supportare la Guerra Popolare in India la più grande rivoluzione in corso, con
una zona liberata abitata da 60 milioni di persone dove si sta costruendo in
forma embrionale una nuova società, difende i risultati raggiunti e si espande
in nuove zone nonostante l’operazione militare governativa con l’invio di
decine di migliaia di paramilitari che utilizzano metodi genocidi.
Conclusioni
In quest’ultimo incontro i nostri dubbi sono stati confermati:
a fronte di un’esposizione discretamente chiara e interessante, soprattutto per
i più giovani, di temi urgenti quali l’analisi del capitalismo e della crisi,
le esperienze storiche di costruzione del socialismo e infine la forma
organizzativa quale mezzo per abbattere questa società, il metodo utilizzato
non trovando corrispondenza in una pratica rivoluzionaria risulta essere
scolastico e dogmatico.
La formazione e la teoria rivoluzionaria così è svilita, si
enunciano i principi in forma impeccabile salvo poi contraddirli nella pratica
quando si prendono esempi concreti, infatti secondo il prof e i compagni di
CSP: il 23 Marzo a Palermo si è inscenata un’estetica del conflitto quando
invece si doveva fare una piazza tematica, gli studenti a Roma il 14 dicembre
2011 hanno spento il movimento così come a Palermo a Piazza Indipendenza, il 15
ottobre a Roma gli “sfasciacarrozze anarchici e ultras della violenza” hanno
fatto lo stesso.
Tutte posizioni oggettivamente contro-rivoluzionarie e
riformiste che conciliano con il potere ed il nemico.
I comunisti devono partecipare alla lotta di classe, non
fuggire da essa, i comunisti in questo paese devono stare in prima linea nella
Val di Susa, sui posti di lavoro, ovunque vi sia conflitto e portando il
proprio contributo, fare pratica rivoluzionaria e rielaborarla in teoria in un
processo continuo e dialettico, non giudicare dall’alto e dall’esterno
giustificando la propria passività con citazioni dei grandi maestri del
socialismo. Questo significa svilire la più grande teoria rivoluzionaria
utilizzandone la fraseologia e negandola nei fatti.
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