RiseUp 2.1. Appunti per un autunno di lotta, leggere su www.infoaut.org
NOTE SU RISEUP 2.1
Il
testo che vuole essere un promemoria analitico per l'autunno, diretto
al movimento principalmente nelle università ma con un ottica
all'universo giovanile è in perfetto stile degli autonomi: formule
ora interessanti, ora speculative descrivono la realtà così com'è
o almeno così come appare, per assolutizzare l'apparenza senza
spesso coglierne la sostanza, assolutizzare le forme senza vederne il
carattere comunque transitorio.
Con
la concezione degli autori ciò che è dinamico diventa
cristallizzato e statico, la fotografia del movimento diventa la
tendenza del movimento; c'è l'eterno e l'evidente culto della
spontaneità in cui “soggettività” consiste nel razionalizzare
questa spontaneità. Un meccanismo utile a veicolare mode e forme di
comunicazione orizzontali in generale efficaci ma che non spiegano il
passato in cui questo metodo è stato continuamente utilizzato e che
ha portato al deserto attuale della soggettività principalmente
studentesca e che si vuole riproporre come coazione a ripetere e non
come scarto, deviazione che fa tesoro delle lezioni.
Comunque,
un documento non sottovalutabile, appunto nel deserto della
soggettività in cui non esiste una vera controtendenza ma solo
nuclei di differenza che non si fanno ancora teoria, almeno come
'pratica ragionata', lotta di posizione, altra interpretazione e,
quindi, altra comunicazione.
Quando
si usa il metodo descrittivo di RiseUp, tutti i gatti diventano bigi,
tutti i movimenti vengono ridotti ad un denominatore comune che altro
non è che la forma fenomenica di essi; spariscono classi sociali,
strati, differenze tra lotte rivendicative e movimenti sociali
diffusi, tra 'movimenti innesco' e permanenze di conflitto sociale.
Diventa
indeterminata la forma paese, la forma Stato e la forma governo, che
non viene scandagliata nelle differenze ma viene uniformata
nell'apparenza, anche quando questa è sostanza di potere dominante e
dittature agenti.
La
fotografia poi nel nostro paese ci dà No Tav, Logistiche, case e
sfratti e, molti più confusi, spazi sociali, esperienze di
liberazione. Tutto ciò sarebbe il movimento esistente.
Siccome
alla fine è un po' poco, RiseUp deve estendere e recuperare nella
stessa dinamica “comportamenti incompatibili all'esistente, spesso
individuali e a volte pre politici che sussistono... dentro il
panorama della crisi”.
Ma
fin qui, appunto, saremmo dentro la descrizione e, se fatta bene, di
buona sociologia; il punto è che RiseUp è ambizioso, si pone il
problema per così dire di “guida”, mai ammessa naturalmente, e
la sua proposta è “rendere visibile e realistico per i più
un'opzione alternativa e antagonista all'organizzazione del vivere
esistente, alla sua espropriazione continua di relazioni e ricchezza
sociale diventa necessità”. E' troppo per chi parla di “fase
regressiva”, di “Italia grande assente”; è troppo poco per
chiamare ciò “proposta pratica” che è pur sempre l'anello forte
di forze realmente presenti e diffuse nel movimento.
Poi,
però, c'è lo scarto università. Questa descrizione deve penetrare
nell'università da cui di fatto proviene, ne coglie la difficoltà
(impossibilità?), e allora ne fuoriesce subito.
Descrive
l'esodo dall'Università imposto dall'università di classe, descrive
che essa è ridotta a “luogo residualmente massificato”, ma
sceglie di non contrastarlo.
Come
sempre accompagna il processo del capitale e sceglie un altro terreno
di scontro, da inventare chiaramente. E qui l'invenzione è facile.
Il documento se la cava con “l'emersione di un soggetto giovanile
nuovo che non si intercetta ma che ha dimostrato una potenza
conflittuale importante”. Allude alle rivolte delle banlieues?
Volesse il cielo! Ma non lo si dice. Ma d'altra parte di questo
l'Italia sarebbe laboratorio abortito. Dato che lo si è descritto
così, è naturale il seguito, “indagare dove si muove questo
soggetto, quali sono i suoi bisogni e desideri”. Ma non era emerso?
La
breve incursione nell'Università, un po' forzata, torna a librarsi
nell'universo mondo. Turchia e Brasile sono quelle che hanno colpito
più a fondo, e a ragione, l'immaginario.
Qui,
però, la descrizione diventa banalità. Tutti abbiamo letto, abbiamo
visto, tutti i giornalisti hanno scritto che sono battaglie nate con
rivendicazioni circoscritte che poi diventano conflittuanti, ecc –
Gezy park, l'aumento dei trasporti, le barricate, ecc.
Questo
non viene analizzato nella realtà di ciò che è il Brasile, di ciò
che è la Turchia, cioè la realtà non viene penetrata, eppure
materiale ci sarebbe; ma agli autori non interessa realmente questo,
agli autori interessa “battaglie nate da rivendicazioni
circoscritte”.
Sarà
difficile comprendere per tali soggettività, primo, che nel contesto
del nostro paese questo metodo non è riproducibile; secondo, che
questa riproducibilità è solo spontanea, coltivare questa
riproducibilità – direbbe Lenin – è spontaneismo ed economismo.
Ma
i nostri autori sono lanciati e si dice, riferito alla Tunisia: “la
mobilitazione ha sperimentato nuove forme di lotta. Alle normali
manifestazioni di piazza e agli scioperi ad oltranza si sono aggiunti
l'assedio al Ministero degli Interni, il blocco dei servizi, ecc.”
Ma
questo è la norma, la norma delle rivolte popolari, in particolare
nei paesi oppressi dall'imperialismo o inseriti in contraddizioni
laceranti di trasformazioni in economie da Bric, e masse
ulteriormente impoverite.
La
comunicatività tra queste esperienze e il movimento in Italia,
siccome non può esserci, allora va in qualche maniera sublimata (la
lettera a piazza Taksim del movimento No Tav, ecc.).
Ma,
chiaramente, bisogna tornare dentro l'università.
Il
documento denuncia le riforme Gelmini e Profumo e il percorso che
porta ad una Università da un lato iperefficiente e dall'altro in
parziale dismissione, in cui gli studenti sono in una sorta di gabbia
a tappe obbligate che non riescono a contrastare.
Ma,
invece, di fermarsi a studiare e ad individuare le forme di questo
contrasto, si esce subito dall'Università per spostarsi alla messa
in critica dell'organizzazione del quotidiano, tirando alle ordinanze
contro la movida e alle altre aggressioni securitarie agli spazi
esterni e interni.
E
qui viene stabilito un pindarico collegamento con l'indisponibilità
all'esproprio citando gli esempi degli alberi di piazza Taksim e dei
trasporti. W questo sarebbe la difesa delle forme di vita della
composizione metropolitana, peraltro addirittura scelte dalle masse,
e non subite, dentro la tendenza al rifiuto e alla sottrazione che
sarebbe la caratteristica di quella popolazione universitaria prima
descritta.
Lungi
da noi sottovalutare questi terreni di lotta, ma tradurli in forma
soggettiva della nuova composizione giovanile metropolitana è
davvero una forzatura; una forzatura obiettivamente disarmante nello
scontro nell'Università.
Una
volta scritto questo copione RiseUp non può che quindi esaltare
l'occupazione e l'autogestione degli spazi urbani, acampadas, occupy,
ecc. Invece di occupazione dell'Università, chiaramente, certo no.
Ma
RiseUp non si chiede perchè le varie forme scimmiottate di 'occupy',
ecc. in Italia non abbiano attecchito, se non in settori
testimoniali, radicalizzanti tutt'altro che antagonisti – un
esempio tra tutti, la sciagurata esperienza degli 'Indignados',
componente ed habitat di quella tragedia opportunista rappresentata
dal 15 ottobre .
Certo,
nelle Università, però, qualcosa vi è stato, ma invece di essere
analizzato nella sua resistenza e limiti, RiseUp deve sublimarlo
nuovamente in una descrizione tutta sovrapposta che non corrisponde
né alla realtà oggettiva di queste lotte e meno che mai alla
soggettività studentesca che le ha organizzate e guidate.
Di
fronte alla difficoltà di sovrapporre questo paradigma soggettivista
alla realtà effettiva degli studenti che hanno lottato, gli autori
devono inventarsi uno stile di militanza, questo sì fino in fondo
esterno, che imponga queste lotte non nella dinamica conflittuale che
effettivamente le anima ma in una sorta di involucro fatto di
“socializzazione del quotidiano e riappropriazione di forme di
vita”.
Torna
qui la categoria dell'”irrappresentabilità” con la quale il
rifiuto della rappresentanza istituzionale diviene la negazione della
costruzione della rappresentanza autonoma e antagonista per lasciarla
nel limbo equivoco di un minimo comune denominatore delle idee comuni
diffuse.
Ma
con questa descrizione è chiaro che ogni salto, che pur si ritiene
necessario, viene affidato a una “capacità di operare forzature”
che qui non è frutto del salto di qualità della rappresentanza e
quindi della coscienza soggettiva avanzata, ma vere e proprie
forzature a cui componenti cristallizzate dell'autonomia ci hanno
abituati.
Ritornando
al bilancio della fase che attraversa il movimento a sei anni dalla
crisi, si registra la sconfitta del movimento 'No Gelmini', la
mancata esplosione massificata e generalizzazione di rivendicazioni e
pratiche; anche qui però è la spiegazione oggettivamente che
prevale invece che l'analisi del ruolo che le avanguardie soggettive
che hanno avuto le avanguardie reali.
L'analisi
qui diventa un rifugio non un approfondimento della realtà. E la
riduzione del carattere di massa delle università, la trasformazione
di esse in un fabbrica di precari e disoccupati, la fine del valore
del titolo di studio universitario, vengono poste a base dell'esodo
dalle università e della coscienza soggettiva connessa a questo
esodo che trasforma gli studenti in compartecipi di esso.
Questa
descrizione rimuove il contrasto e l'antagonismo e l'esito finale di
questo ciclo viene assunto come una sorta di dato di fatto, compreso
del suo elemento soggettivo che così diventa quasi naturale e non,
invece, soggettivizzato dalla classe dominante.
Di
fronte a questa descrizione il documento sembra ritornare ad
occuparsi del conflitto, a non volere abbandonare il campo, ma
ripropone una via già perdente di autoformazione aggiornata che
difficilmente può essere l'arma soggettiva della contrapposizione.
Anzi, bisogna dire che in questo ritorno il documento aderisce fin
troppo allo stato di cose esistenti, rivendicando migliori servizi,
ritmi più lenti, migliore qualità della vita tra, quelle mura.
Diciamo,
come programma minimo è troppo poco; per di più con l'ottica del
conflitto metropolitano fin qui descritto, manca dello spessore della
critica alla politica, dello Stato e dell'imperialismo, e ci propone
un movimento rivendicativo sposato con una visione della
socializzazione del quotidiano e dell'appropriazione di spazi di vita
in cui struttura e sovrastruttura del capitale sono baypassati ed
elusi e non combattuti, manca dello spessore del contropotere, della
“base rossa”, “base d'appoggio” che può trasformare il
meccanismo delle rivendicazioni in soggettività altra.
Infine,
il documento ritorna a porsi il problema della comunicazione e la
rottura con i media tradizionali, la necessità di creare falle e
crepe nel muro di gomma del giornalismo a senso unico. Questo non
viene affidato però al combattimento, alla pratica dello scontro
soggettivamente inserito in un percorso organico, ma, come tutti in
questa fase, all'utilizzo antagonista di internet, che essi vogliono
mutuare dai buoni consigli di un testo, “Blitzkreig tweet” di
Francesco de Collibus. Certo, probabilmente utili ma obiettivamente
sopravvalutati se si ha lo scopo non solo di disturbare il
manovratore ma di costruire quella massa critica reale, fatta in
carne ed ossa, di movimenti di lotta.
16.9.13
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