Chip non è solo il verso di un uccellino, ma il nome che si
dà ai micro circuiti integrati di altissima ingegneria elettronica e che sono
diventati il cuore di quasi tutte le produzioni industriali che sono state
messe in crisi dalla loro attuale mancanza sul mercato che è iniziata nel mese
di dicembre.
La pandemia ha rallentato la produzione, perché radunare tutti i componenti necessari e lavorarli è diventato più difficile. Ma nello stesso tempo è esplosa la domanda di apparecchi elettronici, e dunque di microchip. L’industria informatica ha fatto la parte del leone mentre quella automobilistica, per esempio, è rimasta a corto di scorte (anche per l’applicazione del metodo “just in time” che non prevede scorte di magazzino). Se si aggiunge la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, che ha portato
Pechino a comprare quanti più microchip possibili prima che scattassero le sanzioni, l’incendio che a ottobre 2020 ha distrutto una fabbrica in Giappone e la tempesta di neve che ha colpito il Texas, bloccando per diverse settimane due stabilimenti, il quadro della crisi è ancora più chiaro.Insomma, ci sono mille segnali concreti della crisi “economica”,
di fatto diventata strutturale, “secolare” come la chiamano alcuni economisti,
del sistema capitalista imperialista, e in altre occasioni le elencheremo, qui riportiamo
questa dei chip che porta con sé la “guerra dei chip” e che colpisce pesantemente
tutto il settore produttivo e quindi le operaie e gli operai. Colpisce il
settore degli elettrodomestici (la Candy ferma la produzione per un mese e
mette in cassa integrazione), quello dei computer, degli smartphone e in
particolare la costruzione di autoveicoli che adesso non possono più fare a
meno di queste componenti.
Dalla tedesca Daimler, infatti, che ha annunciato che
potrebbe ridurre ancora le ore di lavoro per i propri dipendenti, all’Audi,
alla General Motors che ha dovuto chiudere una delle sue fabbriche. Così come
Ford e Jaguar Land Rover e FCA/Stellantis (ha chiuso lo stabilimento di Melfi
per 10 giorni, dal 2 aprile al 12 aprile, ponendo tutti i 7.000 lavoratori in Cig)…
e su tutto il settore automobilistico, secondo l’agenzia Deloitte, questa crisi
dei chip potrebbe avere un impatto di 52 miliardi di dollari.
Per correre ai ripari, dai governi ai massimi dirigenti d’azienda,
si prevedono investimenti, come quello di Intel, che ha annunciato 20 miliardi
di investimenti per la costruzione di nuove fabbriche, e che ha detto però che
intanto la carenza potrebbe durare altri due anni, perché questo è più o meno
il tempo necessario per costruire da zero un nuovo stabilimento.
Joe Biden, da parte sua, ha promesso un investimento di 50
miliardi di dollari per rafforzare la capacità produttiva negli Stati Uniti. Più
o meno la stessa cifra di cui parlano gli Stati in Europa.
Questa possibile corsa alla costruzione di fabbriche è
necessaria perché per adesso quasi tutta la produzione è concentrata in due
sole fabbriche in tutto il mondo: la Tsmc a Taiwan e Samsung in Corea del Sud,
che da sole valgono l’83% della produzione mondiale.
Quanto quindi durerà questa “crisi nella crisi infinita” non si sa esattamente, ma possiamo dire che il blocco del canale di Suez di qualche mese fa, causato dalla nave portacontainer Ever Given, (le cui conseguenze ancora sono in corso), insieme a questa specifica crisi dei microchip, è l’immagine che più si avvicina al “blocco” in cui il sistema capitalista/imperialista si è incastrato… il vecchio gigante dai piedi d’argilla.
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