sabato 23 gennaio 2021

pc 23 gennaio - Giorno della memoria - riceviamo e pubblichiamo

«Ah, se ci fosse ancora Hitler...»

Il pranzo di nozze era stato allestito con sfarzo. Intorno ai tavoli rotondi iniziavano a sedersi gli invitati, obbedendo alle liste scritte in bella calligrafia e deposte sulle tovaglie ricamate, con curiosi intrecci rossi, in ossequio agli arcani ragionamenti di una sorella della sposa. Si ritrovavano insieme persone che non si conoscevano affatto ed erano certe di non incontrarsi mai più. Uno degli ospiti, con la testa completamente calva, si accomodò strusciando due chiappe magre sul sedile imbottito e subito iniziò a parlare senza neppure presentarsi agli altri commensali:
– È tutta colpa degli ebrei, non trova anche lei, signora? – Poi, sotto lo sguardo stupito di tutti, continuò con un radioso sorriso – Certo, se ci fosse ancora Hitler...

Cosa contava di fare? Voleva animare una cordiale conversazione? Il dottor... ma come si chiamava? da qualche tempo era stato scelto come araldo di un semi sconosciuto ordine cavalleresco e, ritenendo di fare bella figura in società, gli anfitrioni pur non frequentandolo molto lo avevano invitato.

Oscar Ciboeuf, del Front di Bellac, lo conosceva. Qualche tempo prima si erano amabilmente intrattenuti, parlando delle solite cose, e avevano scoperto di avere un comune sentire. Certo, Ciboeuf era indifferente a quella manfrina di nobiltà e stemmi e nomi illustri.
Però, riconosceva che l’ometto calvo, con quei dentini un po’ famelici luccicanti nell’antro della bocca, era un personaggio di tutto rispetto. Loro due s’intendevano.
Si stava meglio quando si stava peggio, non ci sono più le mezze stagioni. Quella volta, alla loro conversazione aveva assistito un testimone attendibile.

Il professor Gay-Belille da tempo faceva solo qualche viaggio in treno, e ormai sempre più raro.
Ogni tre o quattro mesi scendeva a Limoges, non più a comprar libri come una volta ma accontentandosi di passeggiare per le vie della città, di cui godeva gli odori e i rumori. Ogni tanto saliva a Parigi. Poi c’erano le vacanze al mare, spesso sulle rive sabbiose dell’Atlantico, a godersi il vento. Questi viaggi, in sé, non erano mai sgradevoli. I lunghi percorsi potevano rivelarsi curiosi poiché l’età, l’aria spenta e uno sguardo vuoto lo nascondevano agli occhi degli altri. Che senza inibizioni, quando era il caso, chiacchieravano liberamente di faccende personali, scabrose, o losche addirittura. Gay-Belille non si risparmiava nulla. Prendeva mentalmente nota di certi malanni mestruali, di disordini del sistema neurovegetativo, delle analisi cliniche più invasive. Sorrideva tra sé alla novella del primo dentino, inorridiva per lo studio olfattiva dei pannolini di un bebè ignoto.

Sbadigliava al resoconto dei più insulsi dettagli della vita di una certa zia rimasta zitella al paese.
Tremava ascoltando le confidenze di sfacciati faccendieri su questioni al limite tra gli affari e la politica.          
Ma la sua aria doveva essere rassicurante, poiché mai, davvero mai, una conversazione si era interrotta lasciando supporre il convergere di due sguardi sospettosi sulla sua figura. Era come se non esistesse. Perinde ac cadaver.

Quella sera, nello scompartimento occupato fino ad allora dal solo Gay-Belille, entrò qualcuno. Il professore sonnecchiava nel suo angolo; poi, piano piano, cominciò a prestare ascolto. Riconobbe la voce di uno dei due. Era Ciboeuf. L’altro aveva una vocetta stridula, con un timbro strano e volgare. Era salito, quest’ultimo, a Poitiers, arrivando per un percorso che pareva incomprensibile da Le Puy-en-Velay, dove era stato per affari, diceva. Ciboeuf ascoltava ma parlava poco.
– Bisogna gettare le basi filosofiche della distruzione totale della modernità. – Niente di meno.

Gay-Belille si accomodò meglio sul sedile foderato di plastica blu: La tradizione! La grandezza dei tempi andati! L’amore per il passato! Il pericolo inevitabilmente insito nel progresso! – Lo sconosciuto non era avaro di punti esclamativi. – Non credete... – diceva a Ciboeuf, e sembrava quasi di vederlo mentre gli afferrava un braccio e gli spiegava il come e il perché. – Non credete che ormai ci sia solo la Russia a frenare l’Occidente e a porsi all’avanguardia dei popoli sovrani?
L’ometto parlava ma Ciboeuf se ne stava sulle sue, gli occhi socchiusi. Perché quel tizio non lo guardava neppure, soffermandosi piuttosto sulla maniglia ossidata della porta o sulle pagine accartocciate di quel quotidiano abbandonato sul sedile?

– Ci vuole un pensiero forte e nobile. – Diceva l’ometto senza aspettare risposta, stringendosi nella giacchetta corta. – Delle idee. Verità più vere del vero.
Diciamo: un pizzico di collettivismo, un poco di ascetismo, una rigida gerarchia.
E naturalmente il tutto condito di spirito guerresco. Bisogna fare – qui le sue labbra si schiusero in un ampio sorriso – come gli Unni! – Gli Unni! – ripetè Ciboeuf, ammirato. – Ma che freddo fa, stasera. – Continuò, un poco a disagio.

Era una calda sera d’estate, ma anche Gay-Belille percepì un alito gelido. Quasi un odore lunare, freddo e distante. La luce, in quel vagone di modello antiquato tendeva ad offuscarsi alla musica sincopata delle ruote che scivolavano sui binari, passando ritmicamente da un bianco sporco a un giallo polveroso. Gay-Belille fingeva di dormire.
Gay-Belille aveva rinunciato a guardare le cose lontane. Il suo mondo si era ristretto. Teneva gli occhi velati aperti un poco verso l’alto, quasi a cercare ancora la luce. Nelle lunghe estati godeva dell’alito di notti oscure; gli rimanevano la memoria e il ricordo.
– Quando ho guardato per la prima volta le torri e la facciata di Notre-Dame, a Chartres – disse rivolgendosi a Lucien – ho pensato che mi cadessero addosso. Poi ho letto di persone cieche che hanno provato la stessa sensazione ritrovando improvvisamente la vista e scorgendo il mondo per la prima volta.

Erano seduti, soli, sulla terrazza del Café du Pont, nel Faubourg, e guardavano le acque verdi del Vincou che passavano lente, come anatre sulla superficie di uno stagno prima di fuggire starnazzando. Parlavano, sotto il sole crudele di una tarda mattina d’estate, appena riparati dagli ombrelloni blu. C’était un train de nuit... Dalle finestre aperte, alle loro spalle, una voce cantava... dans un pays troublé.

– Si percepiscono gli odori e tuttavia non li vediamo – continuò Gay-Belille – né vediamo il caldo e il freddo, né i suoni. Per chi non vede, non è fonte di consolazione. Un cieco sviluppa al solito gli altri sensi e popola la sua mente di immagini fantastiche, ma si può dire che le veda davvero? Chi è diventato cieco a un certo punto della propria vita ricorre alle immagini che aveva visto un tempo; ma se non c’è un’esperienza precedente, come potranno essere percepiti i colori e le forme dei sogni? E poi, sembra che anche il ricordo del passato sia destinato a sbiadire.
– Ecco perché i ciechi non sognano veramente – lo interruppe Lucien – o per lo meno i loro sogni non hanno forme ma, credo, solo sensazioni tattili o uditive. Nello stesso modo coloro che non conoscono l’amore si costruiscono immagini interiori abnormi, spropositate, irreali.

Gay-Belille posò la tazza; il caffè gli lasciava un gradevole gusto amaro nel fondo della lingua.
Aveva un’espressione stanca sul viso. Da qualche tempo nei suoi pochi sogni soffiavano venti furiosi, non aliti o brezze, ma veri turbinii di spaventosa potenza che scuotevano l’aria e la terra e le acque. Si svegliava, allora, confuso, con l’animo scosso ancora dal rumore continuo, tonante, che lo aveva nel sonno atterrito. Si vestiva, allora, come i ciechi si vestono, senza cercare l’armonia che, per coloro che si vedono allo specchio, s’instaura tra le linee del volto e un colletto, una cravatta, un cappello.
– Sono quasi felice di vedere ormai così poco. Tutto mi sembra bello, composto, meno imperfetto.
Pensa, Lucien, ho letto una volta di Kravitz, un giornalista che collezionava storie sonore. – Il giovane si fece più attento. – Registrava in giro per il mondo il gemito dei moribondi, le grida dei gabbiani, il rumore delle onde. In uno dei nastri c’era solo il silenzio. Nessun suono, nessun grido, solo il silenzio. Era in Africa, credo. Forse la sua registrazione più bella.

Certi autori Gay-Belille li aveva frequentati tardi, non per ostilità o disinteresse ma per la regola che si era imposto allora. Quando era giovane aveva stabilito di non leggere nulla che fosse stato pubblicato dopo la sua nascita. Per amore dei classici, diceva, e per non essere compiacente con le mode letterarie: et si omnes... Era spirito di contraddizione e forse anche un alibi, ma non lo ammetteva, per sottrarsi a discussioni che avrebbero potuto diventare troppo impegnative.

– Certe letture mi furono suggerite dalle circostanze in cui morì mio padre. – Qui Gay-Belille sollevò le mani, dalla pelle liscia e tonica, più giovane della sua età, e le guardò come fosse davvero capace di vedere. Lucien taceva. – Mio padre, allora, non era ancora vecchio, aveva ancora una forza che gli invidiavo. Però pensava qualche volta alla morte, e me ne parlava, con pudore. In quei casi tornava sulla sua voglia di andar via, sulle montagne, per stare in pace nei suoi ultimi anni. E in effetti si era costruito una specie di rifugio, dalle parti di Le Charlet, in boschi attraversati da un ruscello. Lasciava l’auto dietro l’ultima casa e saliva fino a una baracca di assi con una lamiera ondulata per tetto. Intorno c’erano solo alberi e lui qualche volta d’estate ci dormiva. Ritornava a casa il giorno dopo.
Nella stagione buona arrivava con un paio di funghi, una manciata di castagne.
Raramente invitava un amico o due, pensionati come lui, a mangiare qualcosa e a bere un bicchiere di vino. Era il suo riparo, un luogo dell’anima. – Lucien accoglieva con ritegno le confidenze dell’amico.
– Avvicinandosi alla fine mio padre leggeva di più, come se nei libri trovasse il modo di nascondersi alla morte. Di rinviarla. Abitavamo in rue Lafayette, dove oggi c’è un meublé, e mio padre guardava i quattro numeri scolpiti sull’architrave: 1764. Non mancava mai di considerare che le case hanno una vita ben più lunga di quella degli uomini. Mah.
– Cosa leggeva? Gay-Belille sorrise. La lista era lunga, in effetti.
– Tutto quello che gli capitava. Di suo non c’era molto, in casa, qualche romanzo poliziesco che finiva a prender polvere in solaio, un paio di volumi stampati prima del 1940. Non ne comprava mai. Ad un certo punto, come per una illuminazione, iniziò a cercare sui miei scaffali, tra i miei libri di scuola; poi si affidò al mio giudizio: quasi tutti i giorni passavo in biblioteca, quella vecchia, prima della Médiathèque, e prendevo in prestito qualche tomo. Leggeva senza alzare la testa per ore. Fu così che iniziai anch’io a leggere. A leggere, intendo, qualsiasi cosa, senza un progetto o una utilità.
Senza costrutto. Avrei potuto cercare, in biblioteca, libri di qualsiasi genere, d’avventura, d’amore, di guerra, o di botanica, rispettando addirittura un beffardo ordine alfabetico. E in effetti, scrivevo allora male, quasi ispirandomi a un Balzac senza essere ancora pronto a fare il Flaubert.
Gay-Belille aveva un modo ingenuo di considerare la sua grandezza. – Poi misi ordine a simili fantasie.
Leggere così, è come neve che cade sul mare – Ti riferivi alle circostanze della morte di tuo padre.
– Sì. Lo trovarono nella mia stanza, semi sepolto dai libri che aveva cercato di afferrare. Ma, lo sai, i libri non insegnano a vivere. Mio padre era orgoglioso e fragile, a modo suo, e non sembrava indifferente alla ricerca della virtù. Anche per questo, forse, amava raccontare storie.
Quelle della guerra, è naturale, che aveva combattuto dalla parte sbagliata, ma anche storie strane, bizzarre.
– Già, il passato. Una parte di noi rimane sempre nel passato. – C’era in Lucien una certa malinconia.

– Ascolta. Non ricordo quando accadde – qui Gay-Belille si voltò verso l’amico con gli occhi sognanti – ma era subito dopo la guerra, nel ’46 o nel ’47. La notte, mi raccontava mio padre, andavano nella stazione di Mézierès, di nascosto, a ballare e a fare festa. Entravano, mettevano qua e là delle lampade. Qualcuno portava il giradischi, e se non c’era si ballava al suono di un’armonica. Poi Bebel Ferrandier, ne avrai sentito parlare, saltava sul tetto del tramway in corsa... E ballava, lassù! Ah, che tempi! C’era anche uno che era tornato dai campi di concentramento, in Germania o in Polonia. Mio padre raccontava sempre, la sera. Io, pur senza votarmi al silenzio – Gay-Belille era fastoso nei suoi esercizi di modestia – ho sempre preferito l’espressione scritta.

Scrivere con la penna era solo un ricordo infantile, in effetti, o al massimo della prima giovinezza.
Poi era arrivata una rumorosa macchina da scrivere, poi la tastiera del computer e il vetro ipnotico dei tablet. Ma la penna...
Con pennini dorati, d’acciaio, punte acuminate, a feltro, anche, e le proletarie sfere delle Bic, da scaldare con il fiato.

– Perché c’è un piacere sottile nell’arrotondare le O – continuava Gay-Belille – nel segnare con amorevole decisione le aste di M e N. E poi le S, così languide...
– Questa è pura nostalgia. – Lucien era reciso. – Bada, nel Fedro, Platone mette in guardia dall’uso della scrittura che induce perdita della memoria. Chi scrive guadagnerà l’apparenza del sapere, dice, non la verità, e avrà solo opinioni anziché sapere davvero qualcosa.

Mentre parlavano ecco arrivare Puisilloux in compagnia dei giornalisti Masgauthier e Mariat.
Masgauthier si frugava nelle tasche. Poi estrasse con cautela una sigaretta: ne aveva con sé solo due o tre, per non esagerare. La stiracchiò, lisciandola e picchiettandone l’estremità sul palmo aperto. Lavorava con attenzione.
– Solo Dashiell Hammett descrive un fumatore con la tua cura meticolosa del vizio. – Commentò Lucien. – Era qualcuno che si preparava una sigaretta. Chissà cosa ci trovate.
– Non impicciarti di quel che non capisci. – Masgauthier non amava commentare i propri vizi.
– Il Falcone Maltese, vero? – Mariat era più attento al coté letterario della faccenda.
Puisilloux, invece, sfogliava il menù. Lasciando da parte gli hamburger, considerava con interesse l’insalata calda di formaggio di capra, una specialità, o una meno impegnativa ma invitante fetta di tarte à l’oignon. Ecco, questa era perfetta, vista l’ora, accompagnata da un calice di Pouilly-Fumé.

– Jacob Grimm – Lucien sollevò lo sguardo con l’aria di sfidare gli amici – ritiene che alle vocali vada attribuito un carattere femminile, alle consonanti un carattere maschile. L’aria italiana – continuò poi, ma era incongruente – è una lei, mentre in spagnolo el aire è un lui.
L’argomento non mancò di suscitare un certo interesse.
– In effetti, die Brücke è femminile in tedesco – proseguì Masgauthier che era stato addetto stampa in una grande azienda e conosceva le lingue – e il ponte in italiano e in francese è maschile; lo stesso vale per i violini, il sole, il mondo, i giornali, i francobolli. E l’amore.
– Ma fino al XVI secolo – così Lucien – l’ombra era sempre maschile, in francese, forse perché rinviava all’altro da sé, a un lato oscuro cui sembrava preferibile attribuire caratteri mascolini.

Puisilloux ascoltava, tetro, rigirando tra pollice e indice il suo calice di vino.
– D’altra parte der Apfel, la mela per i tedeschi – riprese Lucien, forse allusivo – è maschile mentre in italiano è femminile e lo stesso capita a farfalle, sedie, scope, stelle, pioggia, chiavi, montagne e guerre. Il latte in italiano è maschio, in spagnolo è femmina.
Le lingue – e così dicendo mostrò la sua – hanno un sesso.
– Un genere. – Precisò Gay-Belille. – Comunque, gli uomini si intendono meglio quando parlano lingue diverse. Devono sforzarsi di capire, evitare gli errori, pensare prima di dire qualcosa.
– È vero. – Concluse Mariat. – Lo stesso pensiero si può esprimere in molti modi; per questo Omero definisce Ulisse polytropos, poiché sa parlare a ciascuno nel modo adatto.

Ciboeuf, sornione, stava seduto al fianco di Canardou sotto la tenda sporca di un gazebo collocato in un angolo di place du Palais, davanti alla Mediathèque.
Un cartello bianco con scritte nere chiedeva la firma dei passanti per un referendum sull’uscita del paese dall’Unione europea.
Canardou, con una camicia a mezze maniche, allineava penne sul tavolino, poi ne sceglieva una, la provava sul palmo e tornava ad allinearla. Una mosca zampettava sulla plastica maculata del tavolo.
Poco più in là Maryse Quiquaud, delegata dal sindaco Beauregard alla sicurezza e all’ordine pubblico, camminava avanti e indietro, quasi passando in rivista il piccolo drappello degli esponenti del Front. C’era madame Honorine Trèslourde, infastidita dall’altezzosità della collega, c’era l’ingombrante avvocato Grandasmas con i baffi a virgola e la cravatta sottile, c’erano i soliti Piruet e Sanguinel.
Il geometra Hugonneaud-Lessard, noto a tutti come l’Arpenteur, in giacca blu e cravatta a farfalla a dispetto della calura, si fermò al braccio della moglie.
Guardava con scetticismo il cartello.
– Occupati di cose serie, Canardou. – Lo trattava con una certa cameratesca confidenza essendo stati insieme nello stesso partito, anni prima; il geometra, però, vuoi per l’età vuoi per un suo peculiare prestigio, si compiaceva di maltrattare un po’ l’esponente del Front. – Fuck, piss, shit!

Hugonneaud-Lessard, oltre al lavoro e alla politica, aveva due passioni, il jazz e l’inglese, inteso come lingua. Canardou, tra le altre cose, non capiva l’inglese. Né sapeva di jazz.
– Ascolta e prendi nota. – Il geometra rincarava. – Una parola come ‘stronzo’ corrisponde in inglese a un repertorio offensivo molto più ricco e parlando di te direi prick, asshole, fucker, fuckface, jerk, slug e you cheecky twat. Piss off, invece, potrebbe essere un elegante ‘vaffanculo’. Ciao, e vaffanculo, a te e ai tuoi compari. Te lo traduco, per indulgenza.

Maryse Quiquaud pareva scandalizzata. Quel tono! Quelle parole straniere! Il fatto è che l’assessore alla sicurezza e all’ordine pubblico non era di Bellac, veniva da un mai sentito paesino del Poitou. Era fedele al Front e a Ciboeuf in particolare e di questo si contentava.
Hugonneaud-Lessard, non l’aveva mai visto. Di Bellac, peraltro, non conosceva neppure i nomi delle strade... Si limitò a stringere le labbra, con acida disapprovazione. Il geometra non mancò di notarla.

In che mani, siamo. – Maryse Quiquaud, gli occhi spiritati, si sentì chiamata in causa.
– Il programma del Front sulla sicurezza è chiaro e noto a tutti. – Hugonneaud-Lessard, sollevò le sopracciglia.
– Purtroppo – continuava l’assessore alzando il nasino lucido – siamo carenti di strumenti legislativi per eseguire i fermi dei parcheggiatori abusivi, di quelli che rubano le monetine dei distributori di sigarette...
– Di chi intasca proditoriamente le figurine degli scolari. – proseguì Hugonneaud-Lessard.
– Ma li perseguiremo. E per prima cosa, basta con i ragazzini che giocano a calcio per le strade! – Di solito, Maryse Quiquaud non prestava attenzione a quello che dicevano gli altri. – La mia stella polare è il programma del Front. I voli pindarici non mi interessano, io faccio del mio meglio per il partito che rappresento, il Front. Il Front, sì, il Front.

In realtà, l’amministrazione cittadina non marciava proprio a pieno regime. Un sindaco che pareva di vetro, tanto era incolore, e un partito litigioso in cui ciascuno coltivava i suoi rancori.

– E lo si deve dire che a furia di tirare la corda questa si spezza. – Considerò Ciboeuf a bassa voce, guardando con malanimo Canardou, che gli stava a fianco.
– Queste divisioni hanno indebolito il sindaco e spaccato il partito. Il Front si sta frantumando su questioni ridicole. Ci vuole un cambio di passo.

Ciboeuf, l’occhio lustro, accolse con un sorriso l’arrivo del dottor... ma come si chiamava?, che gli permetteva di allontanarsi dalla piazza assolata e da chiacchiere che lo irritavano.

Salirono dunque nello studio del signor Vattelapesca, lì a due passi, in rue Baudin, a cui si accedeva per una scaletta scura e ripida che non finiva mai e che portava in cima a una incongrua torre merlata. Quel tipo sembrava in vena di confidenze e, arrivati, aveva preso Ciboeuf sottobraccio e lo conduceva per la stanza parlando di Sant’Anfilochio e della sua vita esemplare. Camminava lentamente, trascinando un poco il piede. I due andavano dallo scrittoio alla finestra, che una tenda scura contribuiva a isolare da quella luce estiva così fastidiosamente allegra. Poi, dalla finestra tornavano allo scrittoio.
Una porta cigola da qualche parte, ma che diavolo è?

– Senti, mio caro Oscar... mi permetti la confidenza? Possiamo darci del tu, vero? Non più tardi di stamattina ho conosciuto una graziosa fanciulla. Così giovane... E mi chiedevo se tu...

L’ometto aveva adesso un capelluccio in testa, di un colore un po’ schifoso, che Ciboeuf non gli aveva visto mai e anzi gli pareva che qualcosa fosse cambiato anche nella sua fisionomia, con quel naso che si era come allungato.

– Eh, voi la sapete lunga. – Rispose Ciboeuf, guardando confuso l’ampio camino dove tra gli alari neri la cenere disegnava una ragnatela grigia, lasciando trapelare ancora qualche sulfureo barbaglio. Ma che fa? Accende il fuoco anche d’estate?
Poi, con poche parole e una frase di circostanza, preferì andarsene scendendo per quelle scale che parevano adesso ancora più erte e faticose.

Aveva occhi che parevano disegnati, quella famosa ragazzina, e un collo bianco che scendeva a precipizio fino a due tettine tonde e rosee. Il dottor Comesichiama assunse un’aria meditabonda.
– Gambe da ballerina. Già. Niente male, proprio niente male.

Sfiorò con l’indice macchiato di nicotina l’orlo di un piccolo alábastron posato sullo scrittoio.
– Avrà a che fare con quello di cui non dico il nome.

di Paul Vitesse

traduzione di
Francesco Montessoro

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