Dalle frontiere alle città: alcune riflessioni su epidemie, stati d’emergenza e controllo sociale
Ci
sono alcune cose che ci preme dire sull’epidemia di Nuovo Coronavirus
in corso. Non siamo esperti, non abbiamo titoli di studio ed esperienze
in medicina, virologia ed epidemiologia, ma pensiamo di poter e dover
comunque porre qualche questione. Uno dei punti da cui vorremmo partire è
proprio l’appiattimento del discorso pubblico su quello presuntamente
“tecnico”. Spesso si considera il discorso istituzionale alla stregua
delle ricerche scientifiche su cui certo si supporta, dimenticando che
le istituzioni operano scelte sociali e politiche, basate sulla scienza
quanto volete, ma in fondo: sociali e politiche.
Bloccare o non bloccare i voli, testare o non testare per il virus chi
presenta i sintomi, investire e quanto su strutture sanitarie, personale
medico, cure e vaccini, usare o no dispositivi militari o civili per
mettere in quarantena chi presenta sintomi o è “a rischio”, trattare
confini nazionali alla stregua di cordoni sanitari, emanare o meno leggi
speciali di
limitazione delle libertà: sono scelte politiche di cui secondo noi dovrebbe discutere anche chi non ha una cattedra in epidemiologia. Un’epidemia di queste proporzioni è prima di tutto un fatto sociale e per questo motivo non può che riguardarci tutti.
limitazione delle libertà: sono scelte politiche di cui secondo noi dovrebbe discutere anche chi non ha una cattedra in epidemiologia. Un’epidemia di queste proporzioni è prima di tutto un fatto sociale e per questo motivo non può che riguardarci tutti.
Dopo un iniziale appiattimento del discorso su quello “scientifico”
delle grandi istituzioni sanitarie sovranazionali (che è in realtà
ovviamente già politico) il dibattito politico-mediatico italiano sembra
ora polarizzato su due posizioni che riflettono quelle della politica
italiana. Da una parte bollare ogni legittima preoccupazione per
l’impreparazione a fronteggiarlo come “psicosi”, dall’altra
l’invocazione di un più completo stato di polizia. Due polarizzazioni
per niente escludenti che rispondono agli stessi interessi: conservare i
rapporti di potere durante l’emergenza, se possibile migliorarli a
favore degli attuali detentori. Mentre Salvini allarma e invoca il
contrario di ciò che serve, il PD tranquillizza: va tutto bene così. Nel
frattempo grande assente nel dibattito è lo stato della sanità
italiana. Ci sembra che finora nessuno abbia chiesto di incrementare
significativamente le risorse al sistema sanitario per fronteggiare la
situazione. Al contrario il governo già discute e propone finanziamenti
di centinaia di milioni di euro per le imprese che dovessero vedere
ridotti i propri profitti dalle misure contro il virus. Da una parte si
pretende una chiusura che è dimostrata controproducente anche da
innumerevoli studi scientifici. Dall’altra, si concede parzialmente la
chiusura invocata, quel tanto che serve a legittimare il discorso
salviniano, senza intaccare la produzione mentre lo stato di polizia è
sempre pronto a esplicitarsi in caso di necessità. È anche probabile che
con il progredire dell’epidemia salti questo equilibrio tra posizioni
solo apparentemente diverse, in realtà compatibili e interscambiabili,
per arrivare a una sorta di “unità nazionale” dettata dall’emergenza.
Ma siamo davvero sicurx che le epidemie si combattano tutte e sempre
con il contenimento delle persone malate? E questo contenimento è di un
tipo solo, o ci sono molti modi di attuarlo, in base anche al livello a
cui è giunta l’epidemia? Persino l’OMS/WHO, l’Organizzazione Mondiale
della Sanità, non ha ritenuto di indicare blocchi dei voli, ma invece il
governo italiano per primo ha interrotto tutti i collegamenti aerei
diretti con la Cina, a epidemia peraltro già in corso da tempo, quando
ormai dalla Cina erano arrivate migliaia di persone. Tuttora sono
ovviamente libere di entrare in Italia semplicemente facendo scalo in un
altro paese, come ha fatto per esempio la squadra cinese di fioretto al
completo impegnata in una competizione a Torino nei giorni scorsi (solo
un piccolo esempio ufficiale tra migliaia di situazioni simili).
Isolare i malati in ospedale e rintracciare le persone con cui sono
entrati in contatto è un approccio che funziona soltanto se i numeri
restano contenuti“, una fase che in realtà in Italia abbiamo superato da
tempo, e comunque molto probabilmente una “linea del fronte” che
sarebbe stata insostenibile fin dal principio vista la gravità del
focolaio iniziale cinese. Eppure a tutt’oggi, 23 febbraio 2020, con
molti casi accertati in Italia il cui contagio è avvenuto circa 20
giorni fa, e due morti certe, la linea invocata è ancora quella. “Con
ogni azione che prendiamo in considerazione per cercare di rallentare la
diffusione del virus o proteggere i vulnerabili, dobbiamo chiederci se è
giustificata. Non si tratta solo di epidemiologia. Non possiamo
scegliere misure che causino più danni alla società del virus stesso.” sostiene Jennifer Nuzzo, una delle tante ricercatrici che si sono espresse in questo senso, anche prima di questa epidemia.
Ci sono molti casi storici e relativi studi che dimostrano proprio questo, ovvero che i blocchi dei viaggi non funzionano
anzi spesso sono controproducenti. Non funzionarono per l’HIV negli
anni ’80, né per l’ebola, né per l’aviaria, né per la cosiddetta “swine
flu”, né per la SARS. Le restrizioni dei viaggi sono un teatro politico
, una misura di propaganda attuata per mantenere l’impressione nella
popolazione che “siamo protetti e controllati”. Se si va ad approfondire
gli studi scientifici
sull’efficacia e sugli effetti reali delle restrizioni alla mobilità
durante le epidemie il quadro che emerge è ben diverso. Ammesso che si
fosse potuto isolare più efficacemente il focolaio iniziale alla
provincia di Hubei in Cina, è dimostrato da analoghe situazioni precedenti
come questo non avrebbe portato a un numero totale di vittime inferiori
ma solo a una maggiore incidenza nel territorio del primo focolaio o
della comunità più colpiti. (Per ulteriori approfondimenti, molto
interessante questo convegno di studi epidemiologici sui confini durante le epidemie. Questo articolo invece elenca molte altre fonti scientifiche scettiche e critiche verso le restrizioni alla mobilità durante le epidemie ).
Quella che molti invocano come necessaria, ed è solo ostacolata da
questo teatro politico delle restrizioni alla mobilità, è invece una
nuova “diplomazia sanitaria globale“.
Resta irrisolta la questione di chi e che cosa dovrebbe farsi carico di
agire questa diplomazia, mentre assistiamo a Stati e istituzioni
sovranazionali che agiscono spesso in versi completamente opposti a
essa.
La Cina intanto ha pagato e sta pagando un prezzo altissimo, con una
mortalità molto più elevata nella regione dell’Hubei non dovuta a una
maggiore virulenza locale del virus, ma alla saturazione del sistema
sanitario che lo fronteggia. Questo prezzo altissimo ha forse
contribuito soltanto a far guadagnare tempo alle regioni e paesi esterne
a quella provincia e a quel paese, ma come si sta spendendo questo
tempo? Quali misure sono state prese per prepararsi a fronteggiare
l’epidemia? Ora che è arrivata, quali misure vengono prese?
Ieri notte dopo un lungo consiglio dei ministri è stato emanato un decreto emergenziale con alcune prime misure, tra queste: il
divieto di allontanamento e quello di accesso al Comune o all’area
interessata; la sospensione e il divieto di tutte le manifestazioni di
piazza, eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato,
l’applicazione della quarantena con sorveglianza attiva a chi ha avuto
contatti stretti con persone affette dal virus. Infine il testo prevede
che i Prefetti “assicurino l’esecuzione delle misure avvalendosi delle
forze di polizia e, ove occorra, delle forze armate”.
Quindi si stanno attuando nuovi contenimenti e isolamenti per i nuovi
focolai (che non funzioneranno, come i precedenti), aumentano divieti e
restrizioni e nel contempo non viene previsto nessun reale incremento
delle risorse sanitare disponibili per curare chi poi alla fine si
ammala, come se l’attuale sistema sanitario fosse già pienamente
sufficiente.
Ma quante ambulanze predisposte per il contenimento in sicurezza ci
sono? Quanti posti nei reparti specializzati in malattie infettive negli
ospedali, e dove si effettuano i test? Che preparazione c’è tra il
personale sanitario? Che attrezzature hanno per non contaminarsi? Che
disponibilità c’è rispetto agli antivirali attualmente usati per
contrastare il virus? Il virus è molto nocivo ma il decorso per fortuna
non è sempre mortale, anche per i casi di polmonite gravissima. Molto
possono le cure già attuali, l’impiego di macchinari per la respirazione
artificiale, per esempio. Quanti posti abbiamo in terapia intensiva?
Quante macchine per la respirazione? E poi, sul piano della prevenzione,
quali lavori e attività a forte rischio potrebbero essere sospese e
ridimensionate durante l’epidemia? Sono tutte domande che nel frattempo,
tra un isolamento a domicilio e una quarantena in una base militare,
nessuno pone.
Ad esempio, in una regione italiana con più di 5 milioni di
abitanti, tutti i casi sospetti sono trasportati fino all’unico ospedale
attrezzato del capoluogo, già solo per fare un test di controllo. Le
singole province hanno ognuna, a quanto pare, una sola ambulanza
attrezzata per il trasporto in sicurezza. Ma non si tratta di un caso
particolare. Nella maggior parte delle regioni italiane c’è spesso un
solo ospedale di riferimento per la conduzione dei test e per il
ricovero di chi risulta positivo. Con già due morti in Italia, è lecito
immaginare che il numero di casi reali sia statisticamente molto più
elevato di quelli finora confermati.
C’è poi il discorso terribile della quarantena: australiani rinchiusi nei centri di detenzione
per e con gli immigrati sulle isole a migliaia di km dal continente, la
nave in Giappone (dove la percentuale di contagiati, proprio a causa
dell’isolamento
coatto, è la più alta finora riscontrata ovunque ), gli italiani
costretti tutti insieme in una base militare alla Cecchignola, che hanno
dovuto ricominciare da capo la quarantena quando uno di loro si è
ammalato… Come ampiamente già approfondito dagli studi scientifici
citati, finora si è verificato appunto che quando una comunità è stata
isolata (in una provincia, in un ospedale, in un campo, in una prigione)
spesso il numero di casi al suo interno è schizzato a cifre altissime.
La politica cinese di autoisolamento a domicilio ha portato al contagio e
in molti casi alla morte di intere famiglie, perché spesso avere una
persona malata in casa significa poi che TUTTE le persone che vi
convivono contraggono il virus.
Vista la politica attuale di contenimento, dove pensano le
istituzioni di isolare tutte queste persone, individualmente o
collettivamente (abbiamo visto con che effetti) e in quali condizioni?
Dalle prime notizie a riguardo, sembra che la quarantena sarà obbligatoria e collettiva, in Lombardia sono state già indicate un paio di strutture militari
come già avvenuto per chi era rientrato dalla Cina ufficialmente con
voli militari e non in autonomia (facendo cioè semplicemente scalo in
nordeuropa o medioriente per aggirare i blocchi dei voli). Sarebbero
perciò rinchiuse tutte insieme le persone che sono state in contatto con
chi è malato, con le conseguenze accennate sopra. È chiaro che un
isolamento individuale, forzoso o meno, sarebbe ben più oneroso,
soprattutto per quanto riguarda il controllo. A proposito di controllo
il governo ha già inviato, sul luogo del focolaio che appare più
“esteso” al momento, 80 carabinieri mentre l’ospedale di Codogno, e chi ci lavora dentro, versano in condizioni drammatiche, col personale e le persone ricoverate, isolate da 48 ore.
Si profila una sorta di detenzione per via amministrativa che potrebbe riguardare migliaia di persone.
Si profila una sorta di detenzione per via amministrativa che potrebbe riguardare migliaia di persone.
Chi lavora nella sanità, spesso in alte percentuali con contratti
precari, già normalmente costretto dalle carenze di organico nei reparti
di primo intervento a turni massacranti, non dispone di dispositivi
individuali sufficienti, di formazione, di strutture adeguate. Questa
epidemia in Cina si è già rivelata particolarmente pericolosa proprio
per il personale sanitario, che costituisce il gruppo di persone più colpito
dal virus. Che cosa si sta facendo per proteggerlo? Il personale
sanitario, e non le forze dell’ordine, dovrebbe essere il principale
agente della lotta contro il virus.
Che i luoghi di contenimento siano l’habitat ideale per un’epidemia lo dimostra anche la terribile situazione delle carceri cinesi.
Che cosa si pensa di fare su questo aspetto per le carceri italiane e
gli altri luoghi di prigionia come i centri dove sono detenute le
persone migranti? La prospettiva atroce è che invece la condizione di
prigionia venga estesa anche a chi ha la nuova “colpa” di essere malato.
A questo andazzo non contribuiscono solo le misure e i discorsi di
politici, presunti “esperti” e altri “decisori” istituzionali, ma
purtroppo in molti casi anche le persone comuni, pronte a introiettare e
adoperare il concetto di colpa per chi è malato e quindi ha “diffuso” inconsapevolmente il virus. Questo atteggiamento non fa che rafforzare la linea istituzionale di puro contenimento militare dell’epidemia e di scarso o nullo potenziamento delle misure di cura reale necessarie.
In questa fase le istituzioni fanno attivamente appello a una sorta
di autocontenimento della popolazione, che non viene solo invitata alla
“massima collaborazione” da parte ad esempio della Protezione Civile, ma
alla quale vengono proprio “delegate” in parte le misure di
contenimento accennate. Ad esempio, per le persone venute a contatto con
chi è malato, a chi vive da solo o ha una casa sufficientemente grande
(con una stanza e un bagno personale) viene data la possibilità di
isolarsi in casa, chi non ha questa possibilità sarà costretto nelle
basi militari comuni. Se e quando il numero dei contagiati supererà
quello (attualmente molto limitato) dei posti nei reparti specializzati
negli ospedali, tali misure verranno estese anche a chi è malato, come
già successo in Cina, con conseguenze disastrose? O a quali altre
soluzioni si pensa di arrivare? L’elefante nella stanza di cui nessuno
parla resta quello della cura vera e propria, del lavoro di cura
necessario a ogni guarigione; delle persone, delle energie e delle
risorse che questo lavoro richiede.
Ma se la situazione dovesse degenerare e questo autocontenimento
controllato e imposto saltasse, a cosa si arriverà? Le nostre comunità
sono pronte all’autogestione vera e propria, in una situazione come
questa? E fino a che punto si spingerebbero le istituzioni per mantenere
il controllo e sopravvivere al collasso? Cosa possiamo fare per
fronteggiare questa situazione? Anche se non si arrivasse a questo
punto, abbiamo avuto diverse esperienze storiche e anche recenti (come
ad esempio il post 11 settembre) di come una volta che venga istituito
un insieme di dispositivi di sicurezza e repressione per fronteggiare
un’emergenza, poi questi permangono indefinitivamente nella società. Un
tema di per sé che meriterebbe attenzioni e approfondimenti.
A molte delle domande poste qui non abbiamo risposte semplici e
immediate ma pensiamo di condividere qualche punto di partenza. Non
collaborare alla colpevolizzazione delle persone malate. Pretendere la liberazione di chi è rinchiuso in prigioni e campi di concentramento
che rischiano concretamente di diventare fosse comuni. Pretendere la
cura per la malattia e non il suo solo contenimento più o meno militare,
più o meno volontario o imposto con la forza. Acquisire e diffondere consapevolezza della complessità di questo tema.
Postilla del 24 febbraio 2020.
L’articolo ha ricevuto osservazioni e critiche, e ci fa piacere che
abbia raggiunto il suo obiettivo: non certamente pretendere di essere
esaustivo sull’argomento ma al contrario sollecitare una più ampia
riflessione, che ci auguriamo continui in altre sedi più adatte di un
blog.
Su quanto scritto, aggiungiamo solo alcune precisazioni.
Su quanto scritto, aggiungiamo solo alcune precisazioni.
Abbiamo iniziato a discuterne e scriverne tra noi qualche giorno fa,
quando ancora la situazione italiana era molto diversa, ma già
condividevamo gli assunti principali che abbiamo esposto. Alcune delle
nostre critiche, e alcune delle fonti su cui ci siamo appoggiatx,
riflettono quella fase, e sono rivolte alle limitazioni e blocchi della
mobilità internazionale. Poi abbiamo dovuto accelerare e allargare
l’analisi alla nuova situazione attuale. Quello che ci preme ora
specificare è che le varie misure di contenimento del virus meritano
attenzioni e analisi diverse. Restiamo convintx che le misure iniziali
di blocchi dei voli, tutt’ora in vigore, fossero e siano inutili e per
certi versi dannose. Non fermano i flussi dalla Cina ma costringono chi
arriva a percorsi più lunghi con maggiori occasioni di contagio, e
rendono più difficoltosa la tracciatura dei casi che poi si rivelassero
positivi. Per quanto riguarda invece i contenimenti in Italia, ribadiamo
che non possono essere la misura principale di contrasto all’epidemia,
che è prima di tutto da affrontare a livello strettamente sanitario,
rafforzando urgentemente le capacità di cura vera e propria, agendo sui
colli di bottiglia più critici: difesa dei lavoratori e lavoratrici
della sanità, aumento della capienza nei reparti di terapia intensiva,
con tutto ciò che ne consegue. Ci rendiamo conto che alle condizioni
attuali l’isolamento delle persone malate, durante il periodo necessario
alla cura, è ovviamente necessario al rallentamento della diffusione,
che comunque non si può certo sperare di fermare, ma si può fare in modo
che i casi da curare non aumentino troppo in fretta e rendere così
possibile la loro cura effettiva, limitando la saturazione del servizio
sanitario. Poi ci sono i contenimenti delle persone valutate come “a
rischio”, che non sono positive ai test, o non sono state ancora
testate, che non presentano sintomi, che hanno solo la “sfortuna” o
peggio la “colpa” di poter essere venute in contatto con persone malate o
di abitare in territori presuntamente più colpiti, per un maggior
numero di casi rilevati al momento.
Per chi fosse venuto in contatto con persone poi risultate positive,
ci sembra anche giusta la massima prudenza e tutela, ma che certo non
passa attraverso la quarantena collettiva. Per quanto riguarda il
contenimento collettivo nelle zone che le autorità hanno identificato
come “focolai di contagio” a maggior ragione esprimiamo ancora più forti
perplessità. Si rischia in questo modo di peggiorare la situazione,
esponendo a una probabilità di contagio molto più elevata chi fosse
inclusx in queste restrizioni alla libertà personale, senza per altro
benefici reali per chi ne resta fuori, essendo ormai la situazione tale
da non garantire per nessun territorio italiano la certezza di essere
completamente “al sicuro”. Inoltre quei territori verrebbero condannati
alla saturazione delle strutture sanitarie locali. Sul resto, sulle
altre nocività delle misure prese e della situazione che si sta creando,
restiamo al momento convintx di quanto scritto.
In questa fase ancora caotica e di mancato coordinamento
istituzionale forse molto del nuovo equilibrio che si verrà per forza a
creare dipende da come accetteremo o respingeremo le misure che vengono
ora prospettate, che diventano di giorno in giorno più liberticide,
dall’invito del Garante alla sospensione degli scioperi alla segregazione coatta in quarantena per le persone migranti rese irregolari dalle leggi statali, alla circolare del DAP sulle carceri.
Fondamentale pensare con calma e lucidità e confrontarsi. Niente o
quasi di quello che è in ballo è soltanto e direttamente una misura
sanitaria. Sono misure economiche, politiche e sociali per un fatto
sociale, l’equilibrio dipenderà dai rapporti di forza, da cosa subiremo e
da cosa riusciremo a pretendere. La sospensione delle libertà
fondamentali e dei servizi pubblici essenziali è inaccettabile e
ingiustificabile, per giunta considerando anche la mancata sospensione
del lavoro e della produzione e l’assenza di un potenziamento del
sistema sanitario.
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