Da terrelibere - ANTONELLO MANGANO
Due anni fa a Caltanissetta l’omicidio del pakistano che aiutò un connazionale a denunciare i caporali. Cinque i condannati, accusati anche di procacciare manodopera schiavizzata per le aziende delle campagne siciliane.
La sera del 5 giugno 2020 il telegiornale del Pakistan aprì con una notizia proveniente da Caltanissetta: un nostro connazionale di nome Adnan Siddique è stato assassinato in Sicilia.
Un omicidio a prima vista inspiegabile. Faccia da bravo ragazzo, lavoratore, gentile, polo e occhiali da sole, Siddique era benvoluto sia tra i connazionali che tra gli italiani. Aveva documenti in regola e un buon lavoro come tecnico specializzato nelle macchine per la stampa di tessuti presso una ditta a conduzione familiare.
Tutto bene, dunque? Per niente. C’erano stati numerosi segnali di allarme. Minacce, aggressioni. Qualche settimana prima, rientrando dal lavoro, di sera, dopo aver percorso la strada ripida e stretta del
centro storico che conduceva al suo appartamento, si accorse che qualcosa non andava. L’appartamento era stato devastato. Avevano preso tutto, anche i vestiti.Un furto strano, in una casa senza nulla di valore. Per capirne di più andiamo al Caffè Lumiere, un bar del centro storico che serve granite alle mandorle o al limone. Qui Siddique si fermava a confidarsi con la sua seconda famiglia. Piera Di Marco, che chiamava “mamà”, il marito Giampiero, il figlio Erik, praticamente un fratello.
«Si, ce l’aspettavamo, c’erano stati precedenti, gli abbiamo consigliato di non camminare al buio quando tornava dal lavoro», ricorda Piera. «Con il furto lo hanno lasciato in mutande, quando è andato al lavoro il proprietario ha detto: ho un figlio che ha la tua stessa taglia, prendi i suoi vestiti».
Adnan era stata minacciato, picchiato, era finito in ospedale, aveva subito il furto. Qui a Caltanissetta sanno bene cos’è la mafia, quali sono i suoi metodi. Una escalation di minacce che precede una decisione estrema.
E così la sera del 3 giugno alcuni uomini suonarono al campanello. «Vogliamo solo parlare, Adnan, apri», disse uno. Ma nascondeva una bottiglia di birra dietro la schiena, un altro aveva un cacciavite, un terzo un coltello lungo trenta centimetri.
Un colpo col vetro per stordirlo, quindi 26 colpi con le lame. Una coltellata dopo l’altra. Alle gambe, alla schiena, alla spalla e al costato. Quattro minuti a partire dalle 22:14.
L’hanno chiamata “Operazione Attila”. Un’operazione per fermare cinque pakistani accusati dell’omicidio, una banda ben nota nella zona. Terrorizzavano i connazionali, guidavano spedizioni punitive.
Un giorno puntarono un coltello alla gola di una vittima tenuta per tre ore sotto sequestro in un piccolo appartamento: “Se vuoi vivere chiama tuo padre in Pakistan e fatti mandare cinquemila euro”.
Poi rapinarono una donna nigeriana con in braccio il figlio di un anno. Ancora, costrinsero un ghanese a commettere un furto, per poi rapinarlo di 600 euro.
Infine entrarono armati di pistole e coltelli nel locali de “I Girasoli Onlus” , nel paesino chiamato Milena. Qui picchiarono due minori stranieri non accompagnati, ospiti della struttura e colpevoli di aver avuto un banale diverbio con un altro minorenne, protetto però dalla banda.
Ma soprattutto fornivano continuamente braccia da sfruttare nelle raccolte di pesche, uva da tavola, carciofi, pomodori. I lavoratori venivano trasportati verso sud: nei paesi dell’agrigentino (Canicattì, Delia) e in quelli del nisseno fino al mare: Sommatino, Licata e Gela.
Contro di loro hanno testimoniato i vicini di casa di Adnan e molti dei suoi amici. Usman G., 33 anni, è uno di loro. Adesso vive a Venezia, dove ha ottenuto un permesso come testimone di giustizia: «Ho denunciato. Mi hanno anche rotto alcuni denti con le sprangate. Volevano i miei soldi, mi perseguitavano, mi minacciavano di morte proprio perché andavo dai carabinieri e hanno sfondato la porta di casa mia. Un incubo».
I primi esposti risalgono al 2019. Usman conviveva con la madre di un membro della banda, un’italiana che aveva una relazione con un pakistano. In pratica, il testimone raccontava quanto gli accadeva ma le sue parole erano riportate dalla madre alla figlia fino ai criminali.
La «Casa delle culture e del volontariato» è un edificio bianco in cima a una collina che domina Caltanissetta. È intitolata a Letizia Colajanni, prima donna a varcare la soglia di Palazzo dei Normanni come deputata regionale.
Qui incontriamo l’animatore del centro, Filippo Maritato. Capelli bianchi e pipa, ci accoglie all’interno dei locali, poster di Adnan alle pareti e volantini con le iniziative degli anni passati.
«Hanno copiato la mafia siciliana», esordisce spiegando la dinamica del caporalato locale. «Gli imprenditori dicevano: ‘Abbiamo bisogno di 20 operai, ti diamo 50 euro per ogni operaio’ e loro dicevano ‘ci pensiamo noi’. Trenta euro li davano all’operaio e 20 se li pigliavano loro».
Li trasportavano nelle campagne e la sera li riportavano a Caltanissetta. Nessuno diceva niente. Il problema è nato quando neppure i 30 euro non sono arrivati ai braccianti. «Allora i compaesani si sono rivolti a Adnan, siccome loro non sapevano l’italiano, li accompagnava in Questura per fare la denuncia, ecco dove è nato tutto».
Un gruppo di pakistani frequentava il centro, era molto presente nelle attività. Tuttavia non si sono fidati abbastanza. Sapevano delle minacce a Siddique ma non hanno detto niente. «Se vogliamo prenderli, dobbiamo farlo subito, se no non li becchiamo», ha detto loro Maritato appena ha appreso dell’omicidio.
Così è partita la serie delle testimonianze. Grazie alla documentazione raccolta sono stati presi gli assassini. Il Movi si è costituito parte civile, così come la famiglia, il comune di Caltanissetta e molti altri soggetti.
Dopo tre giorni c’è stata una grande manifestazione, “Giustizia per Adnan”, erano presenti 800 persone: famiglie, bambini, immigrati, non immigrati, sindacalisti, politici, professori, alunni.
I volontari hanno costituito un comitato per chiedere giustizia e hanno raccolto fondi per la famiglia. Adnan aveva nove fratelli, il suo stipendio contribuiva a mantenerli.
«Abbiamo raccolto 850 euro. Il funerale è stato pagato dall’ambasciata pakistana di Roma», conclude.
Se le dinamiche della banda pakistana sono piuttosto chiare, è rimasto nell’ombra chi beneficiava dei suoi servizi.
Il questore di Caltanissetta, Emanuele Ricifari, a dicembre 2020 aveva promesso: «L’anno prossimo presenteremo il conto a quegli imprenditori italiani che hanno approfittato in maniera bieca e incivile dei fenomeni di caporalato, è un giuramento che faccio ai cittadini nisseni».
L’ultimo viaggio
Adnan Siddique era nato a Lahore, immensa metropoli da undici milioni di abitanti. Sede principale dell’industria cinematografica pakistana, Lollywood, il cui divo si chiama… Adnan Siddique, re dei film urdu e punjabi.
Perché si lascia il Pakistan? Per trovare lavoro, principalmente. La disoccupazione è un enorme problema, specie per una famiglia numerosa come quella di Siddique.
Nel 2016 arrivò in Italia, al termine di un interminabile viaggio, con lunghi tratti a piedi. Giunse in Grecia e poi in Germania. All’epoca aveva poco più di 20 anni.
Nel suo destino era scritto un viaggio a ritroso, in due tappe, questa volta da morto.
Nel primo tratto il suo corpo si spostava dal centro di Caltanissetta a Pian del Lago, un centro di detenzione noto come “hub” del centro della Sicilia. Dall’altro sembra una gabbia, una specie di scheletro di stadio di calcio fatto di reticolati.
Qui arrivava una bara di legno coperta da un drappo verde con citazioni del Corano. Un lenzuolo bianco avvolgeva il corpo, secondo la tradizione musulmana. Connazionali e amici si sono radunati per piangerlo, per l’ultimo saluto.
Adesso il viaggio di Adnan Siddique è davvero finito.
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