Gli
ultimi mesi del “governo del cambiamento”, come si poteva ben
intravedere fin dalla cadenza del 2018 e come è stato attestato dalle
elezioni europee 2019, sono stati segnati da un’azione sistematica
informata al compimento di una lunga deriva istituzionale verso la
configurazione di uno Stato penale. Il rischio di trasformazione
dell’ordinamento giuridico da un residuo di garanzie formali dei diritti
della persona al primato assoluto della ragion di Stato ha assunto i
connotati di un salto di qualità in termini di comando sulle
contraddizioni sociali e dunque di emergenza repressiva permanente: fino
all’aperta affermazione dello stato di polizia sotto la forma dello
stato di sicurezza.
Tale
salto di qualità, in Italia, di una tendenza trasversale alle politiche
degli ultimi lustri (tanto che dal 2001 di Genova ad oggi si contano
già nel numero di diciottomila le denunce che hanno colpito persone e
situazioni dei movimenti di lotta) e ad una latitudine europea se non
globale, ha visto la sua incarnazione nel programma e nella pratica
dell’attuale ministro degli Interni: programma e pratica reazionari,
suprematisti e patriarcali quanto sessisti – dall’obiettivo di
smantellare la 194 e di superare
all’indietro la Merlin alla propaganda della castrazione chimica degli stupratori combinata con la razzializzazione dello stupro stesso e dei suoi gradi di gravità – che hanno trovato facile rigoglio sul terreno fertile del giustizialismo pan-penalista comune all’intera maggioranza di governo come agli indirizzi prevalenti nella maggiore opposizione parlamentare, che a sua volta nella precedente esperienza governativa ha realizzato i passi preliminari a questa precipitazione tanto sul fronte della gestione dei flussi migranti, ossia del razzismo istituzionale, quanto su quello della repressione delle lotte e delle forme di dissenso.
all’indietro la Merlin alla propaganda della castrazione chimica degli stupratori combinata con la razzializzazione dello stupro stesso e dei suoi gradi di gravità – che hanno trovato facile rigoglio sul terreno fertile del giustizialismo pan-penalista comune all’intera maggioranza di governo come agli indirizzi prevalenti nella maggiore opposizione parlamentare, che a sua volta nella precedente esperienza governativa ha realizzato i passi preliminari a questa precipitazione tanto sul fronte della gestione dei flussi migranti, ossia del razzismo istituzionale, quanto su quello della repressione delle lotte e delle forme di dissenso.
Lo
schema disegnato dal Viminale del decreto legge cosiddetto di
“sicurezza bis” rappresenta una significativa estensione della linea
tracciata dalla Legge primo dicembre 2018 numero 132: di nuovo, sia per
la sistematizzazione del regime di eccezionalità giuridica della
blindatura e della dislocazione delle frontiere, sia per una regressione
disciplinare del diritto penale persino rispetto alle prescrizioni del
Codice Rocco del ventennio fascista, dei decreti luogotenenziali di
stato d’eccezione del 1944 e della Legge Reale di emergenza dell’ordine
pubblico.
Non
per caso anche Magistratura Democratica, denunciando la corrispondente
politica di ingerenza nell’esecuzione penale configurata dalla tentata
previsione di un commissario straordinario di governo per l’applicazione
delle sentenze definitive, ha nominato esplicitamente la concezione
giuridica e politica insita nel disegno complessivo del programma
securitario in atto: ossia il “diritto penale del nemico”. Ed è palese
contro chi per mezzo di questi dispositivi viene diretto lo stigma di
nemicità al potere pubblico: contro chiunque attenti alla ragion di
Stato di pienezza del potere di comando, esplicitamente coincidente con
le ragioni di un primato della proprietà e dei profitti esercitato per
esclusione.
Ancora
non per caso le stesse contraddizioni insorte nell’attuale maggioranza
di governo e sul piano formale delle garanzie costituzionali, riguardo
allo schema del nuovo decreto, eludono del tutto le misure che
maggiormente configurano il consolidamento di prassi già attive
nell’interdizione repressiva di ogni forma di conflitto sociale.
Come
già sulla Legge Salvini nessuna voce istituzionale si leva a confutare
l’incrudimento ulteriormente autoritario di norme depositate nel codice
penale appunto dalla legislazione fascista, dall’eccezione bellica e
dall’emergenza della repressione politica degli Anni Settanta: il reato
di danneggiamento equiparato a quello di devastazione, la riunione non
preavvisata trascesa da contravvenzione a delitto, l’arresto in
flagranza per travisamento. Né viene fin qui confutato lo statuto
emergenziale delle attività investigative sui “reati di solidarietà”
avocate alle Direzioni distrettuali antimafia. Come nessuna voce
istituzionale ha confutato appunto nella Legge 132/2018 la codifica
quali gravi reati penali di forme comuni di lotta, dai picchetti ai
presidii, né la ulteriore criminalizzazione dei movimenti per la casa e
studenteschi fino alla presunzione di aggravanti associative e
all’applicazione di intercettazioni preventive senza previa
autorizzazione giudiziaria.
Restano
d’altronde inconfutati, nelle istituzioni della Repubblica ed europee,
l’indurimento e l’estensione alle detenzioni “politiche” dei regimi
carcerari speciali a partire dalla tortura del 41 bis, come nelle
carceri stesse il travolgimento delle condizioni di vita per le
insostenibili dimensioni demografiche di un vero e proprio processo di
incarcerazione di massa mentre permane l’istituto puramente vendicativo
del fine pena mai. E nel silenzio istituzionale continua a realizzarsi
la militarizzazione dell’ordine pubblico e la sua registrazione penale
in misure eccezionali di prevenzione, nel controllo e nella segregazione
dei corpi migranti, nella vigenza di una negazione della cittadinanza
medesima con le norme sulla registrazione della residenza sancite
dall’articolo 5 della Legge Lupi: e nella estensione alle politiche di
“decoro” dei centri urbani di quanto si è sperimentato e si continua a
sperimentare in quel vero e proprio laboratorio rappresentato dalla
gestione militare di stadi e tifoserie.
Lanciato
dopo l’assemblea del 5 dicembre al Cinema Palazzo di Roma, l’appello a
dibattere della costruzione di un movimento anti-penale, volto cioè a
contrastare la sostanza politica e giuridica di questo attacco
repressivo nominandone e contrattaccando i presupposti ideologici e i
dispositivi materiali, ha prodotto in questi mesi primi consistenti
allargamenti e approfondimenti del confronto. Considerata la gravità
della situazione politica appare opportuno e urgente che una proposta
formale e pubblica provi a dare corpo a questo sviluppo e a verificare
le sue potenzialità pratiche, per l’autodifesa delle lotte e di tutti i
soggetti colpiti dall’incedere del programma securitario.
L’esigenza
che emerge anzitutto è quella di una solidarietà attiva e cooperante
anche tramite linee di condotta condivise nella difesa in sede legale
delle persone e delle situazioni colpite dall’attacco repressivo. Una
forma di mutuo soccorso legale alla quale guarda grande parte delle
figure operative di giuristi e giuriste che già quelle difese sostengono
nelle aule, ma la precondizione politica della quale è in tutta
evidenza il contributo coordinato di quelle stesse situazioni e dei
movimenti che dalla repressione sono generalmente minacciati: sul
terreno di un vero e proprio contributo diretto quale quello
sperimentato dal Supporto Legale per i processi ai manifestanti del G8
di Genova 2001, come sul piano della costruzione e della diffusione
altrettanto condivise di strumenti di informazione e conoscenza, a
partire da un prontuario comune, utili all’autodifesa dalla repressione
nelle sue attuali configurazioni normative.
Esigenza
politica strategica e anzi vitale è quella al tempo stesso di
condividere passaggi ed obiettivi di una mobilitazione che sfidi
puntualmente e nel loro insieme i dispositivi pan-penalisti,
disciplinari, di stato di polizia e di carcerazione sociale. Tanto a
livello di una controffensiva capace di spezzare in termini
politico-giuridici la cappa istituzionale che circonda e consolida tali
dispositivi, quanto sul piano che solo può consentire una posizione
politica di contrattacco: quello di una mobilitazione anti-repressiva
persistente e capillare nei territori, della rimessa in movimento dal
basso di una massa critica di forze capaci di resistenza alla
repressione stessa e di aperta proliferazione di desideri e pratiche di
liberazione.
Per
questi motivi nell’anniversario delle giornate del No-G8 del 2001 e
dell’omicidio di Stato di Carlo Giuliani proponiamo un momento pubblico
di approfondimento e di proposta politica e giuridica il 19 luglio prossimo, nel pomeriggio nella Sala del CAP (Cral Autorità Portuale) di Genova, e una assemblea plenaria contro lo stato autoritario penale e di polizia la mattina del 20 luglio:
e chiamiamo ancor prima alla costruzione condivisa di questi
appuntamenti e degli strumenti possibili indicati, attraverso ulteriori
passaggi di confronto e organizzazione unitaria nel mese di giugno
aperti a tutte le situazioni di lotta e di movimento.
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