di
Giovanni
Iozzoli
La
pizza e il fascismo sono due esempi dell’estro inventivo degli
italiani. Entrambi prodotti poveri – un po’ di farina, mozzarella
e pomodoro; un po’ di agrari, reduci e sottoproletari –, il
condimento di mani sapienti et voilà: la creatività italiana si
esporta in tutto il mondo, diventa tradizione, diventa trend. Il
“Made in Italy” come modello di una qualità riconosciuta nel
tempo.
Da
alcuni mesi, dentro una grande industria modenese, la Italpizza,
orgoglio del territorio e del nostro export, la continuità
produttiva è assicurata da un reparto celere messo cortesemente a
disposizione dell’azienda. Il presidio poliziesco pressoché
permanente, il sistema sanzionatorio, la sicurezza interna e un clima
pre-bellico, rendono Italpizza un’azienda sostanzialmente
militarizzata, come capita alle industrie strategiche in tempo di
guerra. Gas tossici, mazzate, denunce, gipponi lampeggianti,
provvedimenti disciplinari, licenziamenti. Tutto questo non avviene
in una maquiladora
messicana; e neanche nelle campagne brumose che nascondono arretrate microimprese “old manners”. Siamo a Modena, poco lontano dal centro, lungo un asse viario strategico che risulta spesso bloccato dalle cariche poliziesche o dai blocchi dei manifestanti: gli automobilisti, nei momenti peggiori devono tirare su i finestrini per evitare che il gas CS entri negli abitacoli. Sullo sfondo, ben visibile dalla strada, il grande marchio Italpizza svetta su uno stabilimento moderno e blindato, in cui in passato politici e amministratori hanno fatto spesso visite devote. Insomma, tutti sanno quello che sta succedendo in località San Donnino, tutti sono consapevoli di questo bizzarro segno dei tempi: un’azienda che da mesi resta aperta e fa uscire i suoi prodotti, solo perché decine di robocop mascherati, bastonano e gasano una parte del personale che sciopera e picchetta-
messicana; e neanche nelle campagne brumose che nascondono arretrate microimprese “old manners”. Siamo a Modena, poco lontano dal centro, lungo un asse viario strategico che risulta spesso bloccato dalle cariche poliziesche o dai blocchi dei manifestanti: gli automobilisti, nei momenti peggiori devono tirare su i finestrini per evitare che il gas CS entri negli abitacoli. Sullo sfondo, ben visibile dalla strada, il grande marchio Italpizza svetta su uno stabilimento moderno e blindato, in cui in passato politici e amministratori hanno fatto spesso visite devote. Insomma, tutti sanno quello che sta succedendo in località San Donnino, tutti sono consapevoli di questo bizzarro segno dei tempi: un’azienda che da mesi resta aperta e fa uscire i suoi prodotti, solo perché decine di robocop mascherati, bastonano e gasano una parte del personale che sciopera e picchetta-
La
storia dell’organizzazione del lavoro in Italpizza è tristemente
comune: circa 600 dipendenti, di cui solo 80 assunti direttamente; il
resto tutti precari in capo a un paio di pseudo cooperative
riconducibili alla proprietà; ritmi, turni, orari massacranti decisi
in modo unilaterale dal committente, sottoinquadramento contrattuale
(contratti delle pulizie for ever) che garantisce risparmi anche del
40% sui costi del lavoro vivo. Vivo e povero. Italpizza, come da
tradizione marchionnesca, decide unilateralmente chi sono gli
interlocutori sindacali, in un gioco a geometrie variabili, che
comunque lascia fuori qualsiasi rappresentanza che metta in
discussione i suoi interessi. Queste pratiche accumulano un enorme
ammontare di elusione fiscale e contributiva (già 700.000 euro sono
stati comminati dagli organi ispettivi), ma queste sanzioni sono
evidentemente messe nel conto dall’azienda, come altrettante multe
per divieto di sosta. Italpizza sta diventando metafora del modello
emiliano 4.0: uffici stampa, presenza social, adesione a tutti i
blandi protocolli che rimandano a una qualche memoria concertativa
nella ex Emilia rossa. E operai sfruttati, precarizzati, mortificati
e gestiti manu militari. In sovrappiù l’azienda si permette anche
di disertare una convocazione presso il Ministero del Lavoro, perché
non gradisce al tavolo la delegazione Cobas: una specie di
dichiarazione d’indipendenza dalle vecchie pastoie
sottogovernative, una rivendicazione dell’autonomia del comando
d’Impresa. Abbiamo il grano, i programmi di investimento, gli
accordi sul piano regolatore: non rompete i maroni sulla forza lavoro
– quella è roba nostra. Per un sottosegretario Cinquestelle che
convoca tavoli, c’è un sottosegretario leghista che manda la
polizia. È il governo dei tempi moderni. Centinaia di ore di
sciopero, centinaia di candelotti lanciati addosso ai presidi, decine
di cariche, un numero indefinito e crescente di denunciati, secondo
le regole del nuovo Decreto Sicurezza. Il bello è che i lavoratori
in agitazione – spesso donne e straniere – stanno solo chiedendo
la corretta osservanza di leggi e norme: l’applicazione del giusto
contratto collettivo, un minimo di confronto sulla prestazione.
Insomma: i bastonati/gasati/denunciati stanno oggettivamente
difendendo il feticcio della legalità borghese, mentre
l’imprenditore e gli organi polizieschi, garantiscono ogni giorno
la reiterazione del reato – con un enorme investimento di spesa,
peraltro, a carico del contribuente (anche dei mazziati,
evidentemente). Ecco il genio italico in azione: la Giornata della
Legalità in prima pagina e nel contempo l’esibizione pubblica e
muscolare dell’Impunità d’azienda. Si dice in giro che il
gigante Italpizza (120 milioni di fatturato esportazioni in 55 paesi
del mondo) per difendere il privilegio di fare quello che gli pare,
olii generosamente la politica e la stampa: sponsorizzazioni,
inserzioni, piani di sviluppo scritti di concerto
all’amministrazione, una fama “democratica” che traballa ma
gode ancora di solidi supporti politici. Gente organizzata, insomma –
non i pirati della logistica con le loro cooperative spurie. Dio solo
sa come abbiano convinto la Questura a mettersi sostanzialmente a
disposizione dell’azienda come una qualsiasi agenzia di guardie
giurate – non solo, immaginiamo, con sostanziose donazioni alla
Befana della Polizia, ma anche grazie alla consapevolezza che a quei
cancelli si gioca una partita importante sulla rappresentanza e sui
diritti: e che, su questo crinale, è meglio che le truppe armate
dello Stato diano una mano agli intrepidi esportatori di pizza e alla
benemerita opera di modernizzazione che stanno promuovendo. Come
potremo definire questa allucinante quarta dimensione del degrado
italiano, questa metafora dell’eccellenza che ha, come al solito,
nell’enorme moloch post-moderno del “food” il suo terreno
originale di coltura? “Pizza e Fascismo”, sarebbe una buona
sintesi?
Oggi
“l’antifascismo”, soprattutto nei periodi di fibrillazioni
pre-elettorali, conosce rinnovati momenti di gloria: l’Espresso
e Repubblica
in testa, si sbracciano per evocare il pericolo rappresentato dai
gruppuscoli di destra, ne raccontano con raccapriccio e sincero
sdegno democratico le gesta e i canali di finanziamento, ne
ingigantiscono il peso e il profilo (vedi le incursioni anti-rom nei
quartieri romani raccontati come l’invasione dei mongoli secondo un
format mediatico ormai collaudato). Si sa che questa esaltazione del
“fascista all’attacco” è funzionale alla costruzione di
ipotetici “fronti antisovranisti” – ormai è un giochino
svelato. Questi antifascisti della tredicesima ora, nel calduccio
delle loro redazioni, non colgono (o colgono fin troppo bene)
l’essenza dei tempi: il fascismo vero oggi è rappresentato dai
reparti celere che sparano gas lacrimogeni addosso ai lavoratori che
presidiano sindacalmente la loro azienda; altro che Casapound e
simili utili idioti – di volta in volta legittimati o mostrificati
alla bisogna. I nuovi assetti di potere stanno manifestando, oggi, un
approccio pragmatico, moderno, assolutamente estraneo alla demagogia
sulla “cacciata dello straniero”, buono solo per le campagne
elettorali – ma poco utile nelle campagne del foggiano o del
crotonese, dove lo schiavo nero è alla base della filiera
agroalimentare. Nessuno li vuole cacciare, quello che si vuole è la
loro sottomissione, l’invisibilità sociale, il disciplinamento
nelle loro funzioni: a spennellare pizze o pulire cessi (tanto il
contratto è lo stesso). Il razzismo, la xenofobia “der popolo” è
solo folclore. La forza lavoro è petrolio: si è mai visto qualcuno
gettarlo via? Bisogna solo saperlo incanalare nelle tubature giuste.
È fascismo, questo? È post-fascismo? Pre-fascismo? Lo leggeremo sui
libri di storia. Intanto la polizia e la magistratura italiana stanno
dando il loro contributo al dibattito, attraverso una stretta
repressiva silenziosa, infame e implacabile, che conosce pochi
precedenti. Purtroppo avremo il tempo di riflettere ed elaborare,
circa questo nuovo stato delle cose. Per il presente, ricordiamo a
noi stessi che il manganello sulla schiena operaia è l’essenza del
fascismo, quello metastorico, che attraversa le epoche: oltre le
mitologie, le coreografie, le estetiche decadenti o virulente, il
fascismo è fatto sempre degli stessi genuini ingredienti di una
volta: il contrasto alla lotta di classe, il sabotaggio degli
scioperi, il crumiraggio organizzato, il disciplinamento della forza
lavoro, la bastonatura di chi mette in discussione le gerarchie di
classe. Tutta roba semplice, cose di una volta. Come gli ingredienti
della pizza.
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