martedì 24 maggio 2016

pc 23 maggio - Per la conoscenza: Guerra del gas - dentro la nuova tendenza alla guerra imperialista

 di Tino Oldani - italia oggi

Gli Stati Uniti sono riusciti a prendere in mano il comando della politica dell'energia su scala mondiale, con la sola eccezione dei rapporti Russia-Cina. Un'impresa impensabile due anni fa. Manovrando il prezzo del petrolio tramite lo shale-oil e lo shale-gas, hanno messo fuori gioco l'Opec sui mercati. Quanto all'Europa, basta ricordare che quando Alexis Tsipras vinse le elezioni in Grecia, il primo a telefonargli fu Vladimir Putin, che gli promise un ruolo strategico nel Turkish Stream, gasdotto che nelle intenzioni russe doveva prendere il posto del defunto South Stream (boicottato con successo dagli Usa), con lo stesso obiettivo: portare il gas russo nel Sud Europa, fino all'Italia, bypassando l'Ucraina. A Tsipras non parve vero di poter giocare un ruolo geopolitico di portata strategica.

In pochi mesi, però, lo scenario è cambiato. Russia e Turchia, complice la guerra in Siria, sono entrate in rotta di collisione, e addio Turkish Stream. Inoltre, l'incaricato della Casa Bianca per l'energia, Amos Hochstein, ha convinto Tsipras a puntare, in alternativa, sul gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline), progettato per portare il gas dall'Azerbaijan fino all'Europa del Sud, passando per Turchia, Grecia e
Albania, per approdare in Puglia. Risultato: due giorni fa Tsipras ha inaugurato la posa del Tap, assieme a un vicepresidente della Commissione Ue, a un ministro turco e al ministro dello Sviluppo, Carlo Calenda, per l'Italia. Un successo che Hochstein ha rivendicato sul Corriere della Sera: il Tap non porterà neppure un dollaro a Putin, anzi lo indebolirà.

Per fare filotto, agli Usa manca solo il blocco del Nord Stream 2, raddoppio del gasdotto sottomarino Russia-Germania, che taglierebbe fuori Polonia e Ucraina. La partita non è ancora chiusa, ha precisato Hochstein con tono profetico, poiché manca l'ok della Commissione Ue. L'Italia, in questa partita (come sulla Libia), sta con gli Usa, e Matteo Renzi l'ha detto chiaro e tondo in dicembre ad Angela Merkel, in un vertice europeo: come può conciliare le sanzioni anti-Putin con il raddoppio del Nord Stream 2? Mossa che Hochstein ha elogiato, confermando così che Renzi è un punto di riferimento forte per gli Usa in Europa.

«Gli Usa superpotenza del petrolio Il gasdotto dalla 

Russia va ripensato»

Hochstein: raddoppiata la produzione in dieci anni. All’Europa servono più fornitori

Federico Fubini - corriere della sera

Era da inizio novembre che il Brent non rivedeva i 49 dollari a barile. Da
allora il prezzo del petrolio ha tracciato un percorso a «V», con il punto più
basso sotto i 30 dollari in gennaio. Ma anche al netto di fluttuazioni Amos
Hochstein, 47 anni, inviato speciale per gli Affari dell’energia
dell’amministrazione americana, vede alcune novità di fondo sul mercato.
La prima: «Gli Stati Uniti sono una superpotenza nell’energia». E
soprattutto, il cartello dell’Opec ha perso il controllo del prezzo perché i
produttori americani dello «shale» — il petrolio e il gas estratti dalla
roccia di scisto — glielo hanno strappato. I sauditi hanno lasciato che
il barile si deprezzasse per mettere i produttori Usa fuori mercato.

Ci sono riusciti? 
«La rivoluzione dello shale e la nostra industria sono più resistenti di
quanto alcuni pensassero. Ciò non significa che il settore sia immune al
prezzo, al contrario: lo shale è il solo grande sistema produttivo di
petrolio che dipende del tutto dalle condizioni di mercato. Non è
controllato dalla politica, o da una o due grandi compagnie. Sono più
di 4.000. La lezione è che negli ultimi due anni, dal collasso dei prezzi,
gli Stati Uniti sono diventati lo swing producer, il protagonista che
determina i prezzi nel mondo».
Quel ruolo non è dei Paesi del Golfo?
«Già, quando qualcuno interviene sul mercato e arriva a un accordo
che poi viene davvero attuato, in modo che i prezzi salgano». Pensa
all’Opec? «Piuttosto, a un negoziato fra Paesi dell’Opec e altri che
non ne fanno parte. Non credo che l’Opec agirebbe da solo. E non
lo trovo saggio, o possibile, ma ipotizziamo che ci si decida un
taglio della produzione tale da far salire i prezzi».
Cosa accadrebbe?
«Dopo non molto, la produzione americana di shale tornerebbe a
pieno regime. È molto più veloce da avviare e da fermare di altri
sistemi. Quindi se la produzione Usa riparte mentre gli altri tagliano,
potrebbe prendere loro quote di mercato. È il problema di quelli
che guardano al mercato attraverso la lente dell’interventismo e
lo vogliono controllare».
Dunque, anche grazie all’enorme offerta americana, il prezzo 
dell’energia resterà basso a lungo? 
«Quando il prezzo scende vengono meno gli investimenti, la
dinamica dell’estrazione rallenta e alla lunga si ritrova un equilibrio.
Da quando esiste, questo mercato ha sempre avuto picchi e vallate.
Ma credo proprio che in questo declino ci sia un elemento che
lo rende diverso. Siamo un territorio nuovo».
Davvero lo shale Usa è una rivoluzione così profonda? 
«Sì. Nel nostro Paese dal 2012 abbiamo aumentato la produzione
da sei a oltre nove milioni di barili al giorno. Abbiamo aggiunto un
Kuwait, più di un Kuwait. E abbiamo l’agilità dalla nostra. Anche la
natura del mercato è cambiata, vaste aree del mondo stanno
diventando più efficienti nell’uso di energia per auto, aerei, navi».
È più efficiente anche la Cina?
«Ogni grande mercato lo è: facciamo tutti di più con meno e ci saranno
ancora progressi. È il nuovo paradigma. Per questo farò un’affermazione
audace: gli Stati Uniti d’America oggi sono una superpotenza dell’energia.
Abbiamo quasi raddoppiato la nostra produzione in dieci anni. Ci siamo
trasformati dal più grande importatore di gas naturale in uno dei più grandi esportatori. Abbiamo investimenti fenomenali nelle rinnovabili».
Siete la sola superpotenza del petrolio al mondo che non ne esporta. 
«Lo vedremo, intanto abbiamo tolto il divieto all’export. E dato che stiamo
riducendo l’import, faremo entrambe le cose: venderemo all’estero certi
tipi di prodotti petroliferi e ne compreremo altri. Sta già succedendo con
il gas naturale liquefatto. E succede anche qualcos’altro: grazie al basso
costo della nostra energia, in America è tornata l’industria manifatturiera». 
Cosa pensa dei progetti di nuovi gasdotti dalla Russia verso l’Unione Europea?
«In Russia il settore dell’energia è pesantemente influenzato dalla
leadership politica. Lì c’erano timori già prima della crisi ucraina, perché
nel gas l’Europa era di fatto il solo mercato di sbocco: se il gas liquefatto
da altre parti del mondo fosse diventato più disponibile e meno caro, i russi avrebbero perso quote di mercato. Oggi in effetti in Europa occidentale
il mercato è aperto, ma non lo è in Europa centrale e orientale. Dunque
la reazione russa è stata di lanciare mega-progetti di gasdotti che spostano l’equilibrio dell’offerta e mantengono il mercato com’è: in uno stato di
dipendenza». 
Prima Mosca voleva South Stream, poi il Turkish Stream bloccato 
dalle sanzioni. Ora il North Stream 2 dalla Russia alla Germania.
«Noi vogliamo vedere in Europa un mercato diversificato, rifornito dalla
Russia e da tutti gli altri produttori. Ma il modo migliore per impedire agli
altri fornitori di competere con il gas russo è di fare nuovi gasdotti e ora
il più importante è North Stream 2. C’è anche un altro problema: se fai
North Stream 2, sostanzialmente stai togliendo all’Ucraina il transito
verso la Germania».
Con quali conseguenze? 
«La prima è che l’80% del gas russo verso l’Europa arriva in un solo
luogo, in Germania, e non è sano. La seconda è che dal 2019 togli
due miliardi l’anno di entrate da transito all’Ucraina e uno alla Slovacchia».
Eppure North Stream 2 è all’approvazione della Ue. 
«Non è ancora approvato. Non è un progetto che contribuisca all’Unione
dell’energia in Europa, dunque va studiato attentamente. Bisogna vedere
se è un progetto economico o politico. Se è politico, forse sarebbe meglio
ripensarci. Matteo Renzi, il vostro premier, è stato piuttosto forte su questo
punto»

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