Quando furono pubblicate le
Motivazioni della Sentenza della Corte di Cassazione, la quale aveva
dichiarato la prescrizione dei reati attribuiti al miliardario ex industriale
svizzero (nato nel 1947) Stephan Schmidheiny, condannato nei due processi
torinesi per il disastro ambientale provocato dall’Eternit a Casale e altrove,
alcuni insigni giuristi espressero la loro perplessità di fronte a una sentenza
definita quanto meno opinabile. L’uscita del film “Un posto sicuro”, rende necessario un
ripasso: da quell’infausto 23 febbraio 2015 sono trascorsi dieci mesi. Ho
pertanto l’intenzione, se ci riuscirò, di commentare parte di quelle
Motivazioni; ho insegnato per quarant’anni educazione civica a scuola, ma sono
del tutto ignaro di diritto: per cui ho lo svantaggio di dire sicuramente alcune
stupidaggini, ma nel contempo il vantaggio di non essere succube del linguaggio
burocratico, la cui vetta è indiscutibilmente costituita da quello giuridico.
Leggendo da profano le Motivazioni della Sentenza, e ovviamente i commenti dei
giornali di allora, ho la sensazione che quasi tutte le argomentazioni
utilizzate dall’estensore, senza essere neppure cambiate di segno, avrebbero
potuto portare alla decisione opposta. Attenzione, l’imputato non è stato
considerato innocente dalla Cassazione, tutt’altro: mai confondere la
prescrizione con l’assoluzione.
I
Per spiegare la prospettiva in cui intendo
muovermi, riporto uno scritto di Italo Calvino (ammirato da Pier
Vincenzo Mengaldo e Tullio De Mauro) del 1965: sia chi lo conosce sia chi lo
ignora, potrà sorriderne. Il pezzo si intitola L’ANTILINGUA (Italo Calvino, Una
pietra sopra, Einaudi, Torino,1980, pp.122-26).
Il brigadiere è davanti alla macchina da
scrivere. L’interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po’
balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e
senza una parola di troppo: “Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la
stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone. Ne ho
preso uno per bermelo a cena. Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra
era stata scassinata”.
Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti
la sua fedele trascrizione: “Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore
antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l’avviamento
dell’impianto termico, dichiara d’essere casualmente incorso nel rinvenimento di
un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al
recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato
l’asportazione di uno dei detti articoli nell’intento di consumarlo durante il
pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell’avvenuta effrazione
dell’esercizio soprastante”.
Calvino spiega che ogni giorno, per un processo
ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono
mentalmente la lingua italiana in un’antilingua inesistente. Avvocati,
funzionari, gabinetti ministeriali, consigli di amministrazione scrivono parlano
pensano nell’antilingua, la cui caratteristica principale è il “terrore
semantico”, cioé la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un
significato, come se fiasco, stufa, carbone fossero parole oscene, come se
andare, trovare, sapere indicassero azioni turpi. La motivazione psicologica
dell’antilingua è la mancanza di un vero rapporto con la vita. La lingua invece
vive solo d’un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d’una pienezza
esistenziale che diventa espressione. Perciò dove trionfa l’antilingua –
l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato”- la
lingua viene uccisa (con tagli miei).
Se nel verbale il carabiniere di Calvino usa
inconsapevolmente un’antilingua a sé commisurata, figuriamoci quanto sia
antilingua quella in cui si incarnano la dottrina e la competenza di avvocati e
giudici nel processo. Preciso subito che i linguisti che studiano il
linguaggio giuridico sono ormai moltissimi e da loro il termine antilingua, che
presumo coniato da Calvino, è adoperato correntemente. Per decenni Sabino
Cassese ( prestigioso giudice emerito della Corte Costituzionale, linguista per
passione civile) ha provato a , se non eliminare, almeno a ridurre l’antilingua
dal linguaggio burocratico, soprattutto giuridico, ottenendo qualche
risultato.
Pier Vincenzo Mengaldo analizza così il brano di
Calvino (riassumo, con tagli; non me ne voglia il mio maestro): caratteristica
fondamentale della lingua burocratica è l’essere trasformazione per alzo di
registro e ridondanza, si vorrebbe dire traduzione, della lingua normale. Altro
dato fondamentale è (come percepisce immediatamente chiunque legga una sentenza)
l’ipertrofia: la trascrizione del brigadiere si gonfia a un solo periodo, con
sette subordinate: L’antirealismo dell’antilingua è dovuto anche alla volontà
di celare ai riceventi il vero, nascondendolo sotto il fumo della ridondanza e
insignificanza linguistica (Pier Vincenzo Mengaldo, Il Novecento. Storia della
lingua italiana, Il Mulino, Bologna, 1994, pp. 277-280).
Il principale testo di riferimento è di Bice
Garavelli Mortara (Le parole e la giustizia, Einaudi, Torino, 2001),
alessandrina e moglie di un giudice, massima esperta di linguistica
testuale, retorica e stilistica; studio secondo il quale le caratteristiche del
linguaggio giuridico sono (ne cito alla rinfusa alcune; gli esempi tra parentesi
sono inventati da me): i tecnicismi collaterali: espressioni stereotipiche non
necessarie; l’uso sfrenato di cumuli di subordinate indigeste, con ipotassi a
oltranza; la defatigante sgradevolezza delle contorsioni sintattiche; il ricorso
al dimostrativo “quello”, responsabile di difficoltà ed equivoci; gli elenchi
che diventano enumerazioni caotiche; la preferenza per costruzioni negative (la
catena dei non: “Non si pensi che non si possa compiere ciò che non si ritiene
non sia acconcio”: enunciato tanto impeccabile grammaticalmente quanto
insensato); gli iperbati (dell’imputato acclarata la reità); l’ermetismo di
formule iniziatiche che contraddice il sacrosanto diritto alla comprensione; il
“si” enclitico nei costrutti verbo modale+infinito: deve osservarsi, desumersi,
trarsi0, derubricarsi, trattasi (che nella lingua comune sono ridicoli “al
bambino deve concedersi il gelato”); l’inversione soggetto verbo: ritiene la
Corte, sostiene Pereira; l’anteposizione dell’aggettivo attributivo al nome (la
digerita pizza, il bevuto vino); l’abbondanza di participi presenti in
sostituzione di una frase relativa (lo stitico diventa: il non defecante); l’uso
degli astratti tipico di ogni discorso che verta sui principi, su categorie
piuttosto che su accadimenti particolari; la struttura subordinativa che via via
si sfalda in un affastellarsi di “che” con funzioni disparate; l’abuso di
espressioni latine.
(*) tratto da Città Futura
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